Il Messaggero, sezione cultura pag. 21,
21 dicembre 2015
http://www.minimaetmoralia.it/wp/la-leggenda-del-trombettista-bianco-di-dorothy-baker/
21 dicembre 2015
http://www.minimaetmoralia.it/wp/la-leggenda-del-trombettista-bianco-di-dorothy-baker/
di Gabriele Santoro
Dorothy Baker mette subito in chiaro le cose con il lettore.
Scrive che non sta per raccontare la caduta di un grande eroe, ma qualcosa di
maledettamente più interessante. Nella vicenda di Rick Martin c’è un cuore che
suona animato da un talento formidabile, che non ha alcun rispetto del corpo
mentre asseconda il destino.
Fazi pubblica un classico, La leggenda del trombettista
bianco (234 pagine, 16 euro, traduzione di Stefano Tummolini), il primo romanzo
sul jazz, col quale l’autrice cresciuta in California esordì nel 1938. L’opera
prima dell’allora trentunenne riscosse il favore della critica e conquistò un
buon pubblico di lettori. Come nel libro Baker ha sempre provato una certa
soggezione verso le implicazioni totalizzanti del talento, e combattuto la
sensazione di non aver mantenuto le promesse dell’esordio che l’ha consumata
nei successivi venticinque anni di carriera. L’irrisolvibilità artistica appare
come un’ombra costante e al contempo la ragione che agita il trombettista.
Rick si aspetta molto dalla vita, perché ha un dono da
difendere, che lo sottomette all’arte. L’autrice prende una posizione, dichiara
una passione smisurata per il proprio personaggio che s’ispira alla musica, ma
non alla vita, del musicista Leon Beiderbecke, dipendente dall’alcol, deceduto
appena ventottenne: «Prima o poi smetteranno anche di suonare i suoi dischi, e
la puntina gratterà a vuoto sul solco. Quando quel momento arriverà, Rick
Martin sarà morto davvero, morto e sepolto ed è un pensiero che mi fa star
male».
E ancora: «L’impulso creativo è l’impulso creativo, in
qualsiasi campo lo si trovi. E Rick faceva così bene quello che sapeva fare che
personalmente continuerò ad avere i brividi ogni volta che sentirò pronunciare
il suo nome». Nel 2007 l’ottimo riscontro ottenuto dalla ripubblicazione di
Cassandra al matrimonio e poi di questo titolo, come a ragione asserisce Emily
Cooke, ha smentito il senso di fallimento, inadeguatezza che ha accompagnato il
suo tramonto. Scomparve nel 1968 a causa del cancro, è viva nei suoi due libri
più belli, ancora letti. Baker avrebbe voluto essere una musicista. Da bambina
suonava il violino, al quale rinunciò per una deformazione alla mano provocata
dalla polio. Ha sperimentato quindi la materia trattata.
Ogni situazione cattiva è una canzone blues che aspetta di
avverarsi, sosteneva Amy Winehouse. Baker ci introduce in un ambiente familiare
desocializzante. Rick è orfano di madre, morta a causa del parto. Il padre lo
molla ai parenti più stretti, sostanzialmente indifferenti. Sappiamo che fino
all’età di otto anni vive a Los Angeles. Trascorre la maggior parte del tempo
da solo, leggendo qualsiasi tipo di libro. Mostra i segni precoci di una vita
contemplativa, scrive Baker.
È interessante come l’autrice descriva l’istituzione scuola,
costrittiva, incapace di riconoscere, dunque tutelare, il talento diverso di
Rick. Il Tribunale per i minorenni su ingiunzione della Lowell High School
vuole metterlo sulla retta via. Sappiamo che alle elementari impara a
strimpellare il piano, e legge in modo fulmineo la musica. Poi quattordicenne
si sveglia all’alba per suonare il pianoforte alla Missione delle Anime.
Davanti alla vetrina del banco dei pegni respira gli strumenti che non può
permettersi. Il resto è una questione d’istinto, di dedizione e determinazione
feroce a essere il più bravo di tutti.
La leggenda del trombettista bianco si fonda sulla storia di
un’amicizia profonda. A cambiare l’esistenza di Rick è un incontro. Smoke è un
nero che lavora saltuariamente come lui al bowling per sbarcare il lunario.
Baker restituisce il clima della tensione provocata dal razzismo. La loro
amicizia ha però la proprietà mistica della musica, anestetizza il dato razziale.
Tra l’altro nel titolo originale dell’opera (Young man with a horn) non è
segnalato il colore della pelle. Smoke gli spiega il ritmo, la pienezza della
nota. Il bianco Rick ha la stoffa per emergere in una jazz band negra. Smoke viene prima della musica, che al Cotton
Club era purissima, un interesse che Rick con i propri eccessi non tradisce
mai. Smoke ci propone la più esaustiva delle argomentazioni riguardo al
talento: «Rick, ti vai a pescare le cose prima che gli altri sappiano che
esistano e poi le tiri fuori come se cadessero dal cielo».
Colpisce la qualità delle descrizioni in cui c’è tutta la
psicologia del nostro personaggio: «In termini di colore, gli occhi di Rick
erano difficili da descrivere; più che avere un colore preciso, erano luminosi
e intensi. Bruciavano, come gli occhi di un febbricitante o di un fanatico, di
un fuoco profondo e deciso, che minacciava di travolgerti se non lo tenevi a
bada».
La scrittrice pone il proprio sguardo sugli anni Venti, su
quella che forse fuori luogo è definita età del jazz, sulla fede verso un
progresso effimero che culmina con la Grande Depressione del ’29. E accoglie il
rifiuto del suo musicista. Sostiene che Rick sarebbe potuto essere uno dei così
tanti giovani di belle speranze che si stavano facendo una posizione nel mondo
della finanza. Non aveva però né l’aggressività, né lo spietato ottimismo dei
venditori.
A lui della musica non importavano i soldi, quella roba che
cercava di fare non esiste al mondo. Non si può fare con una tromba e in quella
ricerca c’è il principio di autodistruzione. Rick ci dice qualcosa sulla dolce
malinconia del riconoscimento, dell’applauso, dell’essere una stella. Il
successo si cura solo nei locali intimi, nei sottoscala, che forse sono il
posto più sincero dove la vita e la musica possano accettare di incontrarsi.
Fare musica solo con quelli della sua qualità. Lui aveva bisogno del conforto
dello sguardo affacciato dal molo sull’infinitezza dell’oceano, l’unico punto
di raccordo con l’esistente.
L’amore impossibile e il matrimonio con Amy North che
tormenta Rick sembra marginale rispetto alla necessità portante della
narrazione. Della sposa conosciamo l’omosessualità, che ricorre in altre opere
bakeriane, l’assenza di talento che intende compensare con quell’unione e in
qualche modo il bisogno di Rick di sentirsi amato.
A Dorothy Baker interessa raffigurare quel punto esatto in
cui genio e follia sono inscindibili almeno per qualche istante, prima di
prendere ognuno la propria strada. Viene in mente una scena splendida del
documentario Amy – The girl behind the name. Winehouse è con Tony Bennett
presso gli Abbey Road Studios per registrare un duetto, Body and soul. Si
accerta che prima dell’incisione ci sia una prova. È felice perché avrebbe
fatto ingelosire il padre. È ironica, eccitata, poi insoddisfatta della propria
interpretazione. «Sono nervosa». Si scusa con il mito della propria infanzia,
vorrebbe addirittura rinunciare: «Dovremmo ricominciare da capo. Sono stata
terribile, perdonami, non voglio farti sprecare il tempo».
Lui la rassicura che sta andando benissimo, che può
arrivarci a quella nota. «Tu vai di fretta? Io no, allora abbiamo tempo». Poi
trova la chiave d’accesso alla sua voce, chiedendole se sia mai stata
influenzata dalla propria grande amica Dinah Washington. Amy esplode, il volto
s’illumina, tira fuori il carattere davanti al microfono. È luminosa. Poi
domanda della precoce scomparsa di Washington e confessa: «Il minuto in cui hai
iniziato a parlare di Dinah l’abbiamo fatto. Game over». I think we got it.
Are you
pretending, it looks like the ending
Unless I
could have one more chance to prove, dear.
È morta a ventisette anni. Ventisette. «Volevo sottrarla
alla droga che l’avrebbe uccisa. Era un piccolo angelo, un piccolo angelo. Che
devastazione», affermerà poi Bennett. Baker scrive che Rick, mentre era seduto
al piano e suonava con la testa piegata di lato, le labbra arricciate e i
capelli illuminati dal sole, non si accorgeva della gente che entrava nella
Missione delle Anime. Ed essi erano convinti che fosse un angelo. Ha pianto a
lungo Bennett. Amava l’unicità, l’irripetibilità dunque l’onestà delle
interpretazioni di Winehouse. Per usare le parole dell’autrice nel romanzo
risuona la verità, parlando del confine sfumato tra il saper suonare e il
sapersi adattare alla vita, della differenza fra bene e male in quella forma
d’arte chiamata jazz.