di Gabriele Santoro
George Best è ovunque. Ha smesso
così presto da ingombrare un'eternità. La battaglia contro la noia
non è una cosa semplice, lui, un isolano, l'ha combattuta sul campo
con l'agilità, la sensibilità e lo stile incomparabile che
assomigliava alla gioia.
Matt Busby, primo allenatore dello
United nel secondo dopoguerra mondiale, era attento alla bellezza,
dunque permetteva a Best di essere sé stesso. La pensava come il
figlio di Belfast, che allevò al riparo dai riflettori. Non
rinunciava mai alle ali. L'imperativo del Manchester United era
divertirsi, vincere attaccando. «Nulla
di sbagliato nel cercare la vittoria, a patto che non si metta al di
sopra del gioco»,
asseriva. Il vecchio e il bambino avevano stretto un legame
resistente all'oltraggio della morte. S'erano incontrati in quel
compromesso con la vita che è il calcio.
«Quando
si entra in questo gioco ci si resta per tutta la vita. La vita senza
calcio è un vuoto che non può essere riempito da un sostituto
qualsiasi. Nel calcio si muore in mille modi, e si muore in mille
modi senza il calcio»,
ripeteva Sir Busby. Genio e sregolatezza? Un talento incompiuto? Best
ha donato quel che poteva, come sapeva. Ha lasciato, a modo suo, il
mondo un posto migliore, come gli ha scritto qualcuno in un biglietto
d'addio.
In Best sembra di scorgere quello stato
d'animo, la nostalgia, che lotta con la creatività. La velocità è
anche fragilità. Appena quindicenne impiegò poche ore per
reimbarcarsi sul mostro di ferro, l'Ulster Prince, che da Belfast
l'aveva traghettato al destino di una vita, lo United. «Voglio tornare a casa». Non era questione d'alterigia, bensì un
radicato senso di inadeguatezza. Lo capirono, come l'aveva capito Bob
Bishop, dal 1960 osservatore capo della squadra britannica in
Irlanda.
Il vescovo si accorgeva delle
potenzialità dei ragazzini provenienti dai quartieri più disagiati
di Belfast, che senza di lui il mare non l'avevano visto mai.
Centosessanta centimetri di altezza per 47 chilogrammi come avrebbero
potuto esprimere quel che Bishop aveva intravisto? Hugh “Bud”
McFarlane, dal privilegiato punto d'osservazione della panchina del
Cregagh, si sbracciava: «Lasciate
perdere com'è e concentratevi su quello che fa».
Stravedeva per Best, non glielo nascondeva. Come nelle migliori
tradizioni venne scartato a causa della taglia al provino dal
Glentoran. Il padre, Dickie Best, operaio ai cantieri navali non
andava al campetto per paura di metterlo in soggezione. Ann, promessa
dell'hockey poi operaia nelle fabbriche di sigarette e gelati,
preparava il brodo col dado e gli spicchi d'arancia per lo spuntino
dell'intervallo delle partite. La sola al mondo che sapeva qualcosa
del cuore sproporzionato di George, della sua genuinità. Ann lo
idolatrava, astemia fino ai quarantaquattro anni, anche lei sprofondò
nell'alcolismo.
Nell'esistenza di Best la ricerca della
fuga è una costante, quanto l'esigenza d'inventare. Mostrava
l'audacia e il rifiuto proprio di chi crea. Non si limitò a
soddisfare la domanda di calcio preesistente, la ricreò su
presupposti differenti. Indicò a quel mondo la possibilità di una
sperimentazione estetica. Rese distinguibile, indispensabile, la
purezza della sua idea di calcio, che l'ossessionò fino al crollo
nell'alcol. Best non dimenticava la classe operaia, dalla quale era
emerso, ma lui era gli anni Sessanta, un'altra storia. La generazione
postbellica. Best era ancora senza la pervasività della
televisione. Era un movimento non ripetibile, non frazionabile.
Potevi intuirlo solo nel tempo dello stadio, nello scatto di una
fotografia, nello spazio che alimentano le parole. Nelle geometrie,
nei dribbling, nelle accelerazioni, nei colpi
di tacco, nei tiri dalla distanza e nei passaggi al volo di
Best ribellione e originalità producevano innovazione, oltre lo
status quo delle certezze
maturate nel decennio precedente.
Per
Best il calcio spiegato a un bambino era l'accuratezza nei passaggi,
guardare il compagno libero; la corsa senza palla così importante
nel calcio moderno, leggere gli spazi per buttarvisi dentro; infine
il dribbling: «Il contatto con la palla è
fondamentale, sentirla vicina, far dialogare entrambi i piedi». A
tal proposito c'è una bellissima serie a fumetti, George
Best on the Ball, in cui il
campione risponde alle domande dell'età della scoperta del gioco.
Rudolf
Nureyev avvicinò Best in un ristorante londinese e gli chiese un
autografo, aggiungendo: «Lei
è un artista».
Condividevano fascino, talento, l'arte che evita lo sguardo della
malattia. Ma soprattutto la dote ineludibile per un corpo in
movimento artistico: l'equilibrio. Nel 1947 Dickie Best scattò in
Donard Street una foto al figlio di quindici mesi di bianco vestito.
Ciò che rende grande un giocatore è l'equilibrio. La testa di
George è proprio dove dovrebbe essere, sopra la palla, la guarda. Il
corpo è posizionato in modo perfetto, vicino al marciapiede la palla
sotto controllo del sublime ambidestro che diventerà. Pare stesse
caricando un tiro senza scomporsi.
Nella
biografia George Best, l'immortale (66thand2nd,
493 pagine, 25 euro, traduzione a cura di Francesca Benocci e Roberto
Serrai) Duncan
Hamilton ha ragione quando scrive che la fotografia più bella ritrae
il fuoriclasse voltato di spalle. Il numero sette bianco illumina la
schiena, la maglia cade larga sui pantaloncini, ha i calzettoni
abbassati. Nonostante la guardia feroce e i lividi provocati dai
difensori raramente indossava i parastinchi. Il coraggio non gli
faceva difetto. Come a dire: quando hai un talento non permettere a
nessuno di privartene. In quel braccio destro alzato al cielo c'era
la dolente timidezza di Best. L'esultanza non era mai eccessiva.
In
quella fotografia aveva appena segnato al Benfica di Eusebio, nella
Wembley vestita a festa per la finale di Coppa dei campioni, di cui
s'era innamorato, quando i pantaloncini li indossava a Burren Way,
sul cemento di Belfast. Aveva atteso i tempi supplementari per essere
Best. Correva l'anno 1968 e Sir Matt Busby cercava giustizia. Dieci
anni prima, il 6 febbraio 1958, nell'incidente tragico di Monaco era
morto un po' anche lui. Voleva la Coppa dei campioni che s'era
fermata in semifinale. L'allora undicenne Best lesse sulle colonne
del Belfast Telegraph:
«Celebre
squadra di calcio colpita da un disastro, l'aereo del Manchester
United precipita in fiamme, i sopravvissuti in condizioni critiche
lottano per la vita».
Ecco,
Busby aveva puntato sul ragazzino per rimediare al dolore, per
onorare la generazione dei Busby Babes
cancellata dopo una notte promettente a Belgrado. A Monaco erano
morti sette calciatori non le necessità della disciplina. A Busby
gravemente ferito impartirono due volte l'estrema unzione.
Ricostruire è stato il verbo del tecnico, figlio di emigranti
lituani, che nel 1945 ripartì dall'Old Trafford bombardato e 15mila
sterline di scoperto in banca per conquistare sette anni dopo il
primo scudetto. Il tris d'assi Law-Charlton-Best non bastava. Per
vincere nel calcio è necessario anche un portiere affidabile.
Nell'estate del 1966 dal Chelsea per 55mila sterline era arrivato
Alex Stepney. Da quel momento Best ebbe la certezza che nessuno
sarebbe riuscito a fermarli.
Per
quella finale Best prefigurò una tripletta personale. In realtà non
incise fino al miracolo su Eusebio, col quale Stepney salvò lo
United dalla capitolazione. In semifinale a Madrid ci aveva pensato
il 36enne (7 gol in 566 partite) Bill Foulkes, su assistenza di Best,
a risollevare la truppa a un passo dal baratro. Best si scosse.
Rilancio di Stepney, deviazione di testa di Kidd e la palla è nei
piedi del numero 7. Percorre i venticinque metri che lo separano
dalla porta. Scarta Cruz. José Henrique si butta a sinistra, lui va
a destra. Appoggia la palla in rete col sinistro. Il Manchester è
stato il primo club d'oltre Manica a vincere la Coppa Campioni. A
maggio di quell'anno dorato era stato nominato giocatore dell'anno.
Best era un Maggio millenovecentosessantotto. A dicembre gli
assegnarono il Pallone d'oro. A ventidue anni era già salito sul
tetto del mondo. Poteva solo scenderne. Negli undici anni (1963-'74)
trascorsi ai Red Devils
ha disputato 470 partite, segnato 181 gol, ma di Wembley ce n'è
stata solo una. Che cos'è poi la fama? A lungo, invano, ha ricercato
la risposta. «George,
quando le cose hanno cominciato ad andare male?»
Gli ha chiesto un cameriere in una stanza d'albergo lussuriosa. La
morte restituisce forse una misura delle grandezze.
C'è chi sottolinea
criticamente che l'affetto, le forme di idolatria, per Best siano
tanto rumore per poco. In fondo la sua stella ha incantato veramente
solo per tre anni. Forse giova non scordare che poi il Manchester ha
impiegato trent'anni per conquistare la seconda Coppa dei campioni.
Bobby Charlton,
quando Best era ormai vicino alla morte, ricoverato in terapia
intensiva, andò a trovarlo. Dopo il '69 fra i due s'era rotto
qualcosa. La fusione tra vecchia e nuova generazione allo United,
come nella società, non funzionava più. L'eredità di Busby troppo
pesante. Serviva il coraggio di una piena rottura generazionale, la
piena espressione di nuove energie, che non avvenne. Già alla fine
della stagione 1971-72, stufo del pessimo livello della squadra, Best
vacillò all'idea di andarsene per avere la possibilità di vincere
ancora qualcosa. Charlton si congedò dal club con tutti gli onori,
mentre Best salutò l'Old Trafford, il teatro dei sogni, in piena
solitudine. Nel 1974 Best appese al classico chiodo nello spogliatoio
un paio di scarpini. Li aveva lasciati lì per ricordare a tutti la
sua assenza. Charlton sussurrò al capezzale del compagno di squadra,
all'amico, che la sua morte, quell'autodistruzione, era una vera
stronzata.
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George Best su Rai Radio Uno - Zona Cesarini, 23 dicembre 2015,
dal minuto 11 con Maurizio Ruggeri
http://www.radio1.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-9a7615f2-98e9-45c0-8164-c5d410fcfb62.html
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