di Gabriele Santoro
La meraviglia dell'arte di Kiripi Katembo |
Seppure di generazioni distanti Mwanza Mujila e Bofane, classe 1954, sono vicini. Si stimano. Quest’ultimo ha spesso sollecitato e sostenuto l’esordiente che nel rapsodico Tram 83 scrive: «Camminavamo nelle tenebre della storia. Eravamo vacche da mungere in un sistema di pensiero che traeva profitto dalla nostra giovane età, che ci schiacciava completamente». Bofane appartiene a una generazione sospesa tra due universi, formatasi nelle università europee e poi tornata nella madre patria seppure sotto la dittatura con la fame, la sete, di contribuire al progresso del paese. E ha assistito, in un incessante moto di andate e ritorni, allo svanire delle illusioni di uomini e donne ricchi di talenti. Il verbo dell’esistenza è ricominciare, mitigando l’alienazione, come ben raffigura la pellicola Teza del regista etiope Haile Gerima. Costruire, decostruire, scoprire, ripartire. «Ho faticato», dice Bofane.
«Guardo indietro sulla storia del Congo e mi domando come un uomo possa aver vissuto tutte queste cose». Poesia, satira e barbarie appaiono inestricabili; la vita e la morte sono là. Bofane si dichiara scrittore del Ventunesimo secolo, quasi a voler chiudere dentro a un cassetto il dolore novecentesco, marchiato sulla pelle, e a voler raccogliere i pezzi e produrre idee nuove. Ma quelle piaghe le incide sulla carta: non si diverte a scrivere, non è questione di ricerca artistica, lo interrogano le esigenze di un dolore parossistico. La colonizzazione che definisce un apartheid. L’incubo, che si trascina dall’infanzia, dell’assassinio di Patrice Lumumba: il crollo dell’ideale, dell’immaginario dell’infanzia che non ha una coscienza politica, l’innocenza. A proposito della storia del Congo sceglie la parola honte: vergogna, umiliazione, affronto.
È stata la storia con la S maiuscola, quanto la guerra, a condurlo alla scrittura. Non ha mai sognato di diventare uno scrittore, nonostante abbia sempre adorato la letteratura. Ha iniziato a scrivere tardi ma è entrato presto nella letteratura a causa della guerra, a causa della storia. Bambino nei tumulti per l’indipendenza, al padre chiede libri: per scappare dalla guerra si è messo a leggere. Esule in Belgio, all’età di quarant’anni decide di scrivere a causa del genocidio attuato in Ruanda, stanco delle analisi, delle inesattezze degli altri, degli africanisti senza Africa. Ha lasciato il Congo nel 1993 e c’era il bisogno di coprire un abisso. Oggi si qualifica come uno scrittore.
Lo scorso novembre la giuria presieduta dal premio Nobel Jean-Marie Gustave Le Clézio, per conto dell’Organizzazione Internazionale della Francofonia, ha assegnato a Congo Inc – Il testamento di Bismarck (66thand2nd, 223 pagine, 17 euro, traduzione a cura di Carlo Mazza Galanti), secondo romanzo di Bofane, il prix des Cinq continents de la Francophonie. È stato pubblicato nel 2014 dall’editore francese Actes Sud. Un testo potente, feroce che restituisce senso compiuto al termine solidarietà, quale atto di resistenza alla realtà, ed è erroneamente catalogabile come terzomondista.
È un romanzo polifonico in cui i personaggi dialogano come gli accadimenti che lo caratterizzano.
In un paese ricoperto per due terzi dalla foresta equatoriale il protagonista Isookanga sogna la grande città; gli sta stretto il villaggio: diventarne il capo con quale profitto? È felicissimo quando l’installazione di un’antenna scompiglia la chioma degli alberi e il bioritmo della foresta che ha sempre garantito il necessario ai propri abitanti. «Io sono come te – dice Bizimungu, signore della guerra in congedo – , tutto questo verde mi deprime. Che cosa crede quella gente? Che con un tronco d’albero si possano fabbricare computer potenti, un iPhone o un missile? C’è bisogno di rame, stagno, cobalto, coltan». La vita va scavata nel sottosuolo. La dialettica tra tradizione, conservazione e la violenza della modernità sviluppa la struttura del romanzo. Isookanga, un pigmeo della stessa tribù dell’autore, diverso a causa della bassa statura, si professa un mondialista che aspira a diventare un globalizzatore.
Approdato, grazie a uno scambio di persona, a Kinshasa dopo tre settimane di navigazione a bordo di una promiscua città galleggiante inizia a domandarsi se svegliarsi all’aperto, nel cuore di una città, sia forse una prerogativa del modello globale. Nella Repubblica Democratica del Congo l’età media supera di poco i 17 anni e il Pil pro capite è pari a 810 $ contro i 41.570 in Belgio. Nella sola capitale, che conta otto milioni di abitanti, si stima siano circa ventitremila gli shégué, i bambini di strada con i quali Isookanga comincia a condividere il tempo della notte ai margini del Grand Marché, una struttura composta da una decina di padiglioni.
«Vista dall’alto Kinshasa somiglia a una termite regina, mostruosamente gonfiata, fremente di agitazione, sempre indaffarata, in continua crescita», scrive Van Reybrouck. Il primo incontro è con una giovanissima espulsa dalla corsa alle ricchezze delle materie prime. Shasha è il personaggio più intenso di Bofane, la sua anima pulsa. In un giorno che prometteva una luna serena e il consueto cielo stellato ha ritrovato il villaggio devastato dai ribelli e la famiglia massacrata. È scappata dal Kivu con i due fratelli più piccoli. Fiera è riuscita a portarne in salvo uno nella megalapoli. Ora è una bambina puttana che vuole vedere e sapere fino all’estremo limite.
«Che sei venuto a fare?», così Shasha accoglie Isookanga.
«Sono venuto a vivere l’esperienza dell’alta tecnologia e della mondializzazione, zietta».
«Tutto qua?», Shasha non capiva bene, ma ognuno ha le proprie ragioni. «Mettiti là, in fondo».
Sulla propria strada, al Grand Marché, Isookanga incrocia un secondo reietto. Zhang Xia è un cittadino cinese, convinto a lasciare la propria famiglia per maggiori guadagni al fianco di un imprenditore di lavori pubblici e privati. Si va in Congo a costruire le città, le strade, le infrastrutture. Quando gli affari, complice la corruzione, vanno in malora il padrone lo abbandona al proprio destino.
Nel primo semestre 2015 gli investimenti della Cina in Africa sono crollati del 40%, complice il rallentamento dell’economia cinese, che pesa anche nel contesto africano a causa della crescente interdipendenza. Il volume degli scambi commerciali dai 10 miliardi di dollari del 2000 è salito ai 300 del 2015 con circa 2500 imprese cinesi operanti nei paesi africani. A dicembre in occasione del primo summit cino-africano tenutosi in Africa il presidente cinese Xi Jinping ha promesso un programma d’aiuti sotto forma di prestiti pari a sessanta miliardi di dollari, cinque dei quali a tasso zero e trentacinque a tassi preferenziali. Tutti destinati a finanziare dieci programmi di cooperazione su base triennale per l’agricoltura, industrializzazione, scuola e università, sanità, riduzione della povertà, energie rinnovabili. Poi è stato annunciato un maggior coinvolgimento nelle operazioni Onu per il peacekeeping. Nelle dichiarazioni ufficiali Xi ha sottolineato che gli interessi cinesi non saranno mai tutelati a detrimento di quelli africani. Per usare le parole di Kako Nubukpo, un ex ministro togolese: «In questi accordi di cooperazione non c’è la lezione morale, il clima di umiliazione che sottende ogni accordo Occidente – Africa».
Nel romanzo Bofane rievoca le cointeressenze del sistema win win (materie prime in cambio di infrastrutture etc) e a voce aggiunge: «Non hanno mai piantato le proprie bandiere o invaso con il proprio esercito. E d’altra parte cosa potranno combinare che francesi, inglesi, americani non abbiano già fatto?»
«Anche lei è nella globalizzazione?», domanda Isookanga a Zhang Xia.
«Sì, ahimè. Per me la globalizzazione è un vero schifo. Stavo benissimo in Cina. Sarei dovuto restare, ma mi sono fidato e sono partito. Lavoravo con il signor Liu Kai a Chongqing. Si è costruito parecchio. Una grande metropoli. Ora vendo l’acqua, la migliore di Kinshasa».
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