di Gabriele Santoro
Monastero Mar Musa |
Un prozio importante come Mehdi Bazargan, ingegnere già al vertice della Compagnia Nazionale Iraniana del Petrolio con Mossadeq e poi oppositore dello scià Reza Pahlavi, messo nel 1979 dall’ayatollah Khomeini a capo del governo provvisorio iraniano dopo la rivolta. Dai primi passi si riscontrò una difficoltà reciproca. Restò in carica per otto mesi. «Bazargan era veramente amato da tutti, perché oltre a essere una persona molto colta, di comprovata onestà, aveva passato anche diversi anni nelle carceri dello Scià – racconta Houshmand –. Sulla sua figura convergevano tutti. Le sue idee rappresentavano un punto d’incontro tra destra e sinistra. Una delle sue prime richieste era di creare una Repubblica democratica Islamica. Questo venne rigettato dall’imam Khomeini. Repubblica Islamica, né una parola in più, né una parola in meno».
Professoressa, all’epoca dell’unica rivoluzione Islamica che finora si sia affermata era un’adolescente, appena quindicenne. Quali ricordi conserva di quelle giornate?
«Ero molto piccola, ma quell’onda coinvolgeva chiunque, nessuno rimase fuori da quel cambiamento forte. Alla monarchia venivano poste richieste di cambiamenti sociali radicali, economici, più diritti. Una rivolta popolare a un certo livello, ma non proprio nel senso vero della parola. Khomeini, fino all’anno precedente era totalmente sconosciuto, tuttavia il popolo aveva riposto tutte le proprie aspettative in una figura di protesta in esilio e che era pure religiosa. Dalla Francia giungeva una certa promessa di pluralismo e diritti sociali che concorse a un’unità nazionale».
Gli eventi influenzarono le sue scelte negli studi? Qualche lettura in particolare?
«La rivolta ha influenzato i giovani, innanzitutto perché le scuole restarono chiuse per sei o sette mesi. Ci siamo impegnati nelle letture alternative. Avevo sotto mano i libri di un grande pensatore, qual era Ali Shariati. Rinnovare, riformare la stessa lettura Islamica con un approccio anche poetico e sociale, perché, oltre a essere figlio di un grande studioso Islamico, aveva compiuto i propri studi di sociologia alla Sorbona in Francia. Riusciva a unificare le visioni Islamiche con la nuova democrazia e ciò era molto affascinante per i giovani, anche per me nonostante avessi 15 anni. Uno dopo l’altro ho letto i suoi libri e mi sono piaciuti. La scelta personale di intraprendere gli studi Islamici è dipesa molto da queste letture. Genitori, nonni, zii erano laici; non mi avevano impartito un’educazione religiosa, ma sicuramente valori di onestà, giustizia, pace, vita etica sì, non sotto una prospettiva religiosa».
Che cosa ha significato la scuola di Qom?
«Non ricordo dove seppi dell’esistenza di una scuola di studi religiosi Islamici nella città di Qom. Apriva per le prime volte a livello massiccio anche alle donne. C’era un concorso, che vinsi, nonostante le difficoltà che trovarono i miei per accettare questa mia scelta fuori ogni schema. Erano preoccupati perché sarei uscita da Teheran, ma soprattutto la stessa scelta di studi Islamici non era in linea con il loro pensiero. Cercarono di dissuadermi per poi permettermi democraticamente di frequentarla. Ho trascorso sette anni in questa scuola tradizionale, non università. Da secoli hanno resistito e hanno avuto la propria indipendenza da ogni Stato ed era un grande bene. Si poteva decidere senza un’oppressione governativa. Aveva tutt’altro sistema rispetto alle università, i professori scelti dallo studente, Il metodo di studio anche era veramente all’avanguardia. Ho imparato tanto, studiato tantissimo, a cominciare dalla lingua araba. Parlavo persiano e francese. Studi di lingua e letteratura araba, storia, esegesi coranica, tradizione e filosofia Islamica. Una buona parte di questi studi si concentravano sul diritto Islamico, un po’ troppo sulla sharia».
Poi il ritorno a Teheran.
«Mi mancava un altro respiro e sono ritornata a casa. Lì ho fatto il percorso dell’università sempre nella facoltà di teologia, nell’indirizzo che ho amato: religioni e misticismo. Vinsi il concorso per il dottorato. Ciò che più mi animava era la passione intellettuale per lo studio delle religioni. Nel frattempo mi trasferii in Italia. Ho chiuso la mia tesi essendo già qui».
Qual è stata la prima esperienza dell’Italia?
«Da turista a Roma. Ricordo dodicenne lo shopping con mia madre in Via Nazionale. Mai avrei immaginato che sarei tornata a viverci. Ora, dopo trent’anni vissuti qui, mi sento italiana. Nelle aule universitarie ho cominciato a frequentare la religione cristiana».
Nel novembre 2011, in un’intervista concessami, il Premio Nobel Shirin Ebadi sostenne che la riuscita della primavera araba, definizione che non condivideva, si sarebbe dovuta valutare sull’effettiva conquista di diritti da parte delle donne. Lei ha patito una condizione di subalternità?
«No. Non sono fuggita, non sono rifugiata. Torno ancora in Iran, ho ottime relazioni e piena fiducia nei cambiamenti, nei progressi culturali quand’anche lenti. Credo profondamente in ogni modo e sempre nell’incontro, nella conoscenza e nel dialogo. Penso per esempio a un viaggio di alto livello nel quale ho fatto incontrare il professore, teologo, Piero Coda con ayatollah di primissimo piano».
Monastero Mar Musa |
«Ci siamo incontrati in varie occasioni di dibattito pubblico e in privato, in casa dei suoi amici romani ai quali narrava i propri vissuti a Mar Musa e il percorso della loro confraternita. Una volta l’ho invitato ed è venuto a casa ed è stato molto bello. Di lui colpisce la fede autentica, sincera. Un essere umano mosso dalla compassione per l’altro chiunque esso sia. Ciò aveva preso la sua anima, in modo vero. Lo testimoniava e testimonia con la propria vita. Non parole, sogni, bensì idee realizzate concretamente, un atto vero. La comunità che ha creato, che esiste, immagina il nostro dopodomani. Lui va in Siria, in un paese a maggioranza musulmana, ristruttura un monastero antico, riapre la porta di questo monastero a tutti, soprattutto ai musulmani, sono più i musulmani che vanno lì. Rifletteva in un’atmosfera di grande armonia, pace e reciprocità. In un ascolto dell’altro che si trasformava in un dono. Diventava un dono reciproco senza nessuna pretesa di superbia. Tanto da fargli scrivere quel meraviglioso libro, che è la sua tesi di dottorato, Speranza nell’Islam, e l’altro, già il titolo basterebbe a meditare, Innamorato dell’Islam, credente in Cristo. Capovolgendo questa è la mia vita: innamorata di Gesù, credente nell’Islam. Già con i documenti del Vaticano II, dopo secoli possiamo dire che nell’altra esperienza religiosa, che ha un altro nome dal nostro proprio cammino, si possono trovare luci e frutti, semi del verbo, cristianamente detto; il volto di Dio nell’altro, Islamicamente detto. Praticava questo. Sapeva molto. Ha voluto condividere il destino così tragico, violento, del bel popolo siriano che ha amato profondamente».
Come ricostruisce il testo necessario Padre Paolo Dall’Oglio – uomo di dialogo ostaggio in Siria (Pisa University Press, 90 pagine, 10 euro) curato da Chiara Lapi, l’allora ventitreenne novizio gesuita annunciò al padre spirituale di voler offrire la propria vita per la salvezza dei musulmani. Può spiegare la duplice appartenenza Islamo cristiana, il sentirsi cristiano e musulmano allo stesso modo?
«Sì, le dicevo che è l’uomo del dopodomani. Muslimān significa letteralmente chi si affida, abbandona in Dio. Il Corano stesso nomina altri profeti musulmani, perché arriva proprio al senso della parola. Paolo Dall’Oglio era veramente una persona che si affidava e abbandonava in Dio. A prescindere dal senso letterale, condivideva le bellezze dell’Islam e le meraviglie del Cristianesimo, perché una fede autentica non ha più paura di guardare l’altro e di vedere anche le bellezze dell’altro. Quando invece la fede è debole s’impaurisce davanti all’altro, deve rifugiarsi in un istituto, dentro a un confine perché ha paura di perdere qualcosa. Dall’Oglio non ha mai avuto paura di perdere il volto di Gesù nella sua vita, nella sua anima. Anzi l’aveva fatto suo con grande spirito, riuscendo a guardare nell’altro e cogliere la bellezza, tanto da farlo arrivare a dire innamorato dell’Islam. Anche il Corano ha delle meraviglie da far innamorare chi si avvicina al testo senza pregiudizi e superbia».
Il dialogo: come si tiene insieme all’evangelizzazione, all’annuncio, alle pretese assolutistiche? Dall’Oglio sosteneva di superare l’idea di un dialogo interreligioso, per recuperare quella del dialogo fra persone credenti.
«Quando l’incontro si basa sull’uguaglianza, sulla dignità reciproca si può giungere a un dialogo fruttuoso. Dall’Oglio insisteva molto sul punto, perché l’Islam non è una ideologia nell’aria. Quando tu guardi il volto dell’altro, puoi capire meglio ciò che pensa. Per lui l’evangelizzazione non consisteva nel far convertire, battezzare, ma far vedere la bellezza del volto di Gesù. Penso questa sia la vera evangelizzazione. Col potere del denaro, la forza e la guerra non si otterrà mai una conversione sincera. Lui portava avanti una vera evangelizzazione perché era un testimone. Oggi più delle parole abbiamo bisogno di testimoni forti come lui. Per sapere di più oggi abbiamo bisogno dei testimoni che condividono il dolore dell’altro, nonostante la diversità religiosa, politica, che non si fermano davanti a nessun muro perché l’altro resta sempre una persona con pari dignità. Testimoni più fedeli al messaggio del nostro nuovo mondo, che parte con la Rivoluzione francese: libertà, fraternità e uguaglianza. L’abbiamo dimenticato in Europa».
Continua a leggere qui...
Nessun commento:
Posta un commento