di Gabriele Santoro
Eraldo Affinati sostiene che spesso per distinguere il buono dal cattivo maestro, basta vedere negli occhi dei suoi scolari: se brillano, oppure restano spenti. Due anni fa gli occhi dello scrittore brillavano, quando nel corso di un’intervista accennò alla personale ricerca di don Lorenzo Milani, suo riferimento culturale fondamentale. La visione e le gambe per camminare, assumendo il senso del limite: «don Milani continua a essere inafferrabile: è una domanda inevasa, la spina nel nostro fianco, un pensiero in movimento. Non ci lascia un’opera, una filosofia, un sistema, un progetto, ma energia allo stato puro. L’inquietudine che c’è prima dell’azione. Come se non fosse possibile tenerlo fermo per esaminarlo, sfugge a qualsiasi definizione», scrive Affinati.
Da qualche giorno nelle librerie è arrivato L’uomo del futuro (Mondadori, 177 pagine, 18 euro): dieci capitoli in seconda persona nei luoghi e nel fuoco della controversia accesa dal priore, e altrettanti capitoli per i diari di viaggio dal Gambia a Volgograd in soggettiva sulle tracce dello spirito di Barbiana. Con la scelta della seconda persona l’autore sembra mettersi di fronte a sé stesso, però a corta distanza, nel tentativo di fondere azione e riflessione. È un testimone della propria esperienza: «Un amico mi ha detto che in questo modo è come se avessi fatto un esame di coscienza. Per me scrivere e leggere significa anche questo. Ecco perché nei miei testi c’è spesso una bibliografia: serve a lasciare le tracce del cammino che ho compiuto», spiega. Barbiana oggi si propone in chiave multiculturale con la questione posta da Milani con radicalità: l’uguaglianza delle posizioni di partenza, che non assomiglia neanche un po’ all’egualitarismo e al solidarismo retorico.
Affinati ci illustra ancora una volta la propria idea di letteratura che vive sull’esperienza e in cui la scrittura rappresenta l’elaborazione, il momento ultimo. Come credi possibile che una terza persona, per di più esterna, quale sei tu, possa riuscire a percepire, se non a raccogliere un lascito incredibile?, si domanda. E risponde: «D’istinto quasi schiacci il pulsante interiore dei tuoi vent’anni: la letteratura serve a questo, altrimenti non avrebbe senso né leggere, né scrivere».
Stavolta la traccia è un’esistenza che non è scomparsa. Ridefinisce la sconcertante attualità del carisma pedagogico di don Milani: «Non vuoi ammettere che ogni cosa finisce in polvere? No, altrimenti non potresti trovare la forza di scrivere». Ritroviamo la sintassi di Romoletto, lo spirito primigenio de La città dei ragazzi e quell’urgenza di paternità mai sopita. La solitudine della propria adolescenza, che ancora interroga, quella dello scrittore, impastate nella coralità vivificata dalla scuola di Barbiana. Il lavoro che più lo appassiona, ce lo ripete: «Cercare i rapporti, ricucire gli strappi; mettere in relazione libri e destini».
Questo testo, che non percorre la scorciatoia del romanzo, commuove dopo la lettura non solo Aldo Bozzolini, il più piccolo fra gli allievi del priore, ma chiunque sia nato o abbia deciso di rinunciare al privilegio per condividere il cammino sul lato polveroso della strada, della vita. Il maestro, scrittore, politico, educatore; prete ribelle e rispettosissimo rinunciò innanzitutto ai privilegi della propria estrazione sociale alto borghese, senza sostituire l’aristocrazia materiale con quella morale. Lacerare i tessuti, rovesciare i banchi del tempio: è la necessità per immaginare di poter guardare chi non è come te, per guardare dentro a Il quartiere di Vasco Pratolini.
«Certe fotografie del piccolo Lorenzo fanno impressione: le camicette immacolate, le scarpette bianche, i capelli ben pettinati. Egli, sin dalla più tenera età, sentì tutto questo come una zavorra insopportabile, altrimenti non avrebbe chiesto al fattore di Montespertoli, dove la sua famiglia aveva una lussuosa residenza, di far entrare in quel giardino dorato i bambini poveri», racconta Affinati. Non fu dunque una conversione sulla via di Damasco, ma già percepibile nelle stagioni dell’infanzia e dell’adolescenza.
Visitando la Tenuta La Gigliola, casa di campagna della famiglia Milani, distante dieci chilometri da Firenze, si sofferma sul campo da tennis posto accanto alla villa padronale, dove Lorenzo pare che spingesse a giocare a pallone i suoi amici. Qui evoca un confronto con Giorgio Bassani e il Giardino dei Finzi Contini: «Sì, mi ha procurato una serie di risonanze emotive e culturali sulle quali ho lavorato. Insomma la rivoluzione bisogna farla prima dentro noi stessi: ecco cosa ci dice il priore».
Quando uno liberamente regala la sua libertà è più libero di uno che è costretto a tenersela, scrisse Milani alla madre. Per essere veramente liberi s’incarna un limite, quale nucleo di ogni vera tensione pedagogica. Andare oltre l’efficacia; a scuola si cerca l’efficacia prima della giustizia.
Quando anche la vostra rivoluzione avrà trionfato, scrive nella lettera a Pipetta, il comunista di San Donato di Calenzano, il mio posto sarà sempre al fianco degli assetati e degli affamati della giustizia. Il senso della sconfitta storicizzata del mito novecentesco dell’uguaglianza non è ragione sufficiente per smettere di essere una spina nel fianco del privilegio che fa scandalo.
Ci emancipa dallo stereotipo di don Camillo e Peppone. Nella prefazione di Esperienze spirituali l’Arcivescovo di Camerino, Giuseppe D’Avack, evidenzia come: «La doverosa e urgente difesa dai pericoli del comunismo ateo ha trascinato molti nella politica in senso tecnico, o addirittura in senso deteriore. Talvolta ci si è convinti che oggi la cosa a cui occorre dare ogni energia, a cui occorre tutto coordinare e subordinare e perfino sacrificare, è la questione elettorale, e la politica; e per far questo efficacemente è necessario – si dice – prendere le difese del governo e della DC e del suo operato, e dei suoi uomini. E Lei ci dice che tutto questo occorre abbandonarlo!» Affinati riporta una frase di don Milani: «Abbiamo fornicato col liberalismo di De Gasperi, coi congressi eucaristici di Franco».
La pretesa di giustizia milaniana si realizza nel qui e ora, nell’insegnamento della lingua, nel farsi carico dello sguardo dell’altro e nel far entrare nella Storia gli esclusi, rompendo il conformismo didattico. Il priore considerava povertà la mancanza di parole indispensabili per sciogliere i nodi dell’esistenza: «Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi, mentre loro mi hanno insegnato a vivere». Fare scuola ai diseredati vuol dire raddrizzare le strade storte. A Barbiana la scuola riguadagnava il senso del tempo. Dodici ore al giorno, 365 giorni all’anno. Nella nota Lettera ai Giudici leggiamo:
«La mia è una parrocchia di montagna. Quando ci arrivai c’era solo una scuola elementare. Cinque classi in un’aula sola. I ragazzi uscivano dalla quinta semianalfabeti e andavano a lavorare. Timidi e disprezzati. Decisi allora che avrei speso la mia vita di parroco per la loro elevazione civile e non solo religiosa. Così da undici anni in qua, la più gran parte del mio ministero consiste in una scuola. Quelli che stanno in città usano meravigliarsi del suo orario. Prima che arrivassi io i ragazzi facevano lo stesso orario (e in più tanta fatica) per procurare lana e cacio a quelli che stanno in città. Nessuno aveva da ridire. Ora che quell’orario glielo faccio fare a scuola dicono che li sacrifico. La questione appartiene a questo processo solo perché vi sarebbe difficile capire il mio modo di argomentare se non sapete che i ragazzi vivono praticamente con me. Riceviamo le visite insieme. Leggiamo insieme: i libri, il giornale, la posta. Scriviamo insieme». Tutto si legava dentro la vita del maestro e dei suoi allievi, piccoli montanari da non tradire. Era un modo nuovo di vivere. Stare giù in basso, alla maniera di Simone Weil quando lavorava nelle officine Renault di Boulogne Billancourt, scrive Affinati.
Continua a leggere qui...