martedì 31 ottobre 2017

Viaggio nel cuore della Siria


di Gabriele Santoro

I bordi della strada che collega Sarajevo a Mostar sono disseminati di lapidi invadenti, le quali esprimono l’urgenza di ridefinire l’anima del paesaggio. Quel che si è voluto cancellare, uccidendo, resta una presenza fisica, estremamente umana, finché esiste qualcuno con la forza e la limpidità necessarie a raccontare la distruzione, il cuore in frantumi di uno Stato imploso.


«Scriverai tutto quello che ti dico?».

«Basta così» disse prendendomi la mano. «Se moriremo, il mondo conoscerà la nostra storia, vero?».

Una studentessa universitaria ventenne pone la domanda a Samar Yazbek, giornalista e scrittrice siriana esule in Francia dal luglio del 2011, per poi esternare l’orrore per il massacro indiscriminato di innocenti perpetrato in Siria. Yazbek, nata in una famiglia di spicco alawita, è tornata in patria nel 2012 sotto i bombardamenti, attraversando clandestinamente in diverse occasioni fino al 2014 il lungo confine turco siriano per raccogliere le voci sradicate intimamente dalla propria terra a Saraqeb e Kafranbel, città iconiche e ribelli nel nord del paese.

Passaggi in Siria (Sellerio, 340 pagine, 16 euro, traduzione di Andrea Grechi) è un libro essenziale per tutte le volte che siamo rimasti indifferenti e per quando ci scopriremo di nuovo tali verso questa guerra epocale, così assente dalle nostre cronache. Nel lavoro di testimonianza di Yazbek emerge un’alta dimensione politica, che restituisce il profondo senso di abbandono di un popolo il cui destino diviso è nelle mani degli interessi divergenti delle potenze internazionali, immerse dentro a una guerra per procura.

In fondo durante la lettura non incontriamo né emigranti, né profughi, né rifugiati politici, ma persone che assomigliano ad alberi con le radici recise con tutto ciò che comporta il non riconoscersi più nella propria terra. Quando si smette di sparare, di torturare chi era il proprio vicino di casa, le strade delle città cambiano spesso nome. La toponomastica, dettata dai vincitori in una vastità di macerie, quanto il censimento anagrafico rappresentano uno smarrimento difficilmente sanabile. In molti però non si arrendono, non se ne sono andati o sognano il giorno del ritorno.

Questa è la storia di una rivoluzione tradita, e soprattutto di aspirazioni di libertà soffocate ancora in fasce, trasformata dalle proteste pacifiche contro il regime di Assad in un conflitto senza fine: «L’unico vincitore in Siria è la morte: ovunque non si parla d’altro. Tutto è relativo, tutto è in dubbio; l’unica certezza è che la morte trionferà». Quel che appare più atroce è come la macchina della morte possa diventare la cosa più rilevante nella vita delle persone, costrette a convivere con la mira del cecchino.

Sulle rovine c’è una sola via d’uscita ed è linguistica: la memoria, la lingua e le cose per dare un’identità alle macerie di una sconfitta e una ragione alla sopravvivenza. Yazbek non fugge dalla realtà, riuscendo nell’impresa di ricomporre le parti smembrate di un corpo che non smette di sanguinare. La frontiera con la Turchia è porosa, sono entrati combattenti stranieri jihadisti, armi e oggi fiorisce il traffico sull’esodo di massa di esseri umani, che ha sconvolto la struttura demografica della Siria.

I cittadini in fuga hanno imparato a prendersi gioco della fine, ma per loro non c’è nessuna luminosa terra straniera ad attenderli: «Il padre della ragazza era seduto sul marciapiede, la faccia imbiancata di polvere. Guardava fisso davanti a sé: non fosse stato per la sigaretta accesa, sarebbe sembrato una statua. Anche i capelli e i vestiti erano ricoperti di polvere. Non era presente quando erano cadute le bombe, quando la sua casa era crollata in un cumulo di macerie. Aveva estratto i corpi della moglie e del figlio, mentre la bambina di quattro anni risultava ancora dispersa».

Uno dei prodotti di qualunque forma di totalitarismo al collasso è l’esplosione endogena del settarismo in assenza di una visione comune, la negazione della possibilità di una fiducia reciproca. Yazbek però non rinuncia all’orizzonte della coesistenza: non si considera alawita, bensì appartiene solo all’idea di una Siria democratica. Lei non ha sostituito l’appartenenza all’essere.

L’autrice pone indirettamente una domanda fondamentale per il nostro futuro. Dinnanzi a una transizione storica, a una trasformazione radicale occorre necessariamente passare per l’imbarbarimento e la regressione in tutti gli ambiti della vita? Non possiamo fare a meno della distruzione anche culturale? I libri erano bruciati. Le biblioteche piene di saperi plurisecolari devastate prima del fuoco piovuto dal cielo. La distruzione della propria infanzia è un’impresa pericolosa dalla quale si corre il rischio di non riprendersi mai più.

Passaggi in Siria è un tributo indispensabile ai giovani e alle giovani che hanno scortato Yazbek durante il viaggio. Probabilmente oggi molti di loro sono vittime di quella che la Storia ricorderà come un’immane tragedia del ventunesimo secolo tenuta distante da noi.

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lunedì 16 ottobre 2017

Memorie d'Africa: l'inchiesta Sankara è ancora aperta


Thomas Noël Isidore Sankara, classe 1949, è stato assassinato così giovane da ingombrare quasi necessariamente un’eternità. Il 15 ottobre del 1987, quando il Presidente del Burkina Faso cadde vittima di un agguato di stampo terroristico, era nel pieno dei propri trent’anni come fra gli altri Patrice Lumumba e Stephen Biko. Il settimanale Jeune Afrique gli ha dedicato la copertina dell’ultimo numero con la domanda inevasa da trent’anni: Chi ha ucciso Sankara?


Andando oltre l’icona, il feticcio del rivoluzionario panafricano amico del popolo, resta il dato che nessuno ha saputo soddisfare le concrete istanze politiche, economiche, sociali poste dal padre della rivoluzione burkinabè o meglio da un intero continente. Intesero eliminare l’uomo nuovo, l’eccezione che mirava a correggere una storia sbagliata. Anche le generazioni che non hanno vissuto in prima linea l’insurrezione e il processo politico che portarono l’Alto Volta a divenire Burkina Faso, la terra degli uomini integri, associano Sankara al sogno finora inesaudito di una classe dirigente non corrotta, emancipata dalle forme molteplici assunte dal neocolonialismo.

È un fatto che Sankara spaventi anche da morto. Non abbiamo notizia certa della localizzazione della tomba o del perimetro di terra che custodisce i suoi resti. L’indagine genetica, e non solo, è ancora in corso fra perizie e controperizie. L’inchiesta è stata rilanciata tre anni fa dopo la fine del regime politico dell’ex presidente Blaise Compaoré, per trent’anni al potere, oggi in esilio in Costa d’Avorio con un mandato d’arresto internazionale pendente per il suo presunto ruolo nell’omicidio Sankara.

La memoria pubblica però è un’altra storia, è andata oltre la negazione in quanto urgenza di costruzione di un’identità. Da Ouagadougou, capitale del Burkina Faso, al resto del continente non è stato dimenticato soprattutto l’esempio di Sankara, il vocabolario che produsse una rottura a  fronte di un’oppressione plurisecolare e della disillusione seguita all’indipendenza. «Osiamo inventare l’avvenire», sosteneva Sankara, e non era semplice farlo nel secondo paese africano più povero, dove l’aspettattiva di vita non raggiungeva i 40 anni.

Non gli mancava il coraggio. Uno degli elementi più interessanti della breve e intensa vicenda sankarista è la messa in discussione del paradigma della Françafrique perpetuatosi anche dopo il 1960. Nel giorno della liberazione del Mali De Gaulle aveva ammonito: «L’indipendenza reale, l’indipendenza totale non appartiene a nessuno. Non c’è politica possibile senza cooperazione». Trent’anni più tardi Sankara pretese di confrontarsi con pari dignità con l’omologo francese Mitterrand, giunto in visita nel 1986 nella vecchia colonia, e il discorso fu duro:

«(…) Non abbiamo compreso come banditi quali il guerrigliero angolano Jonas Savimbi e assassini come il presidente sudafricano Pieter Botha abbiano avuto il diritto di percorrere la Francia così bella. L’hanno macchiata con le proprie mani e i piedi grondanti di sangue. E coloro che gliel’hanno permesso porteranno l’intera responsabilità qui e altrove, oggi e per sempre».

Come mostra un filmato d’epoca, dopo aver ascoltato Mitterrand si rivolse in modo quasi paternalistico: «Come lui dirò ciò che penso. Trovo alcuni fra i suoi giudizi troppo tranchant, ha la perentorietà di una bella gioventù. Ha il merito di essere un Capo di Stato completamente devoto al proprio popolo e lo ammiro. Qualità importanti ma è troppo tranchant, si spinge avanti più di quello che sia necessario. Mi permetto di dirlo dall’alto della mia esperienza», concluse poggiando una mano sulla spalla del presidente burkinabè.

Le biografie ricordano come fin dalla tenera età Thomas scegliesse sempre di stare dalla parte dei più deboli, lui figlio che non aveva patito la povertà dell’epoca coloniale. Un giovane in rivolta, formatosi tra un’educazione ferventemente cattolica e l’accademia militare, fin da adolescente guardava a sinistra, all’antimperialismo.

Con l’impeto che lo contraddistingueva, sapeva anche riconoscere limiti evidenti e debolezze nell’azione di un trentatreenne. Tre mesi prima di essere assassinato, in quello che è considerato il discorso testamento, non esitò a evidenziare errori del processo che guidava, proponendo correzioni e cercando di scongiurare derive massimaliste che non mancarono, il settarismo tribale e all’interno delle forze rivoluzionarie. Lui non ricorse alla violenza per mantenere il controllo e sbarazzarsi dei nemici interni, piuttosto il martirio come poi avvenne e ciò lo eleva.

Nei venti anni successivi all’indipendenza il Burkina Faso visse tre colpi di Stato. Dopo quello del 1980 iniziò l’ascesa di Sankara. Nominato Capitano, poi segretario di Stato per l’Informazione, si distingueva spesso dalla condotta governativa, quando avversava il popolo, fino alle dimissioni. Colpivano il suo linguaggio coerente nel tempo con i comportamenti, la creatività, l’energia che sostanziarono un immaginario, il riscatto dei vinti che sostennero seppure in assenza di libere elezioni la sua ascesa al vertice dello Stato.

Si misurò con sfide politiche, economiche e sociali di tale ampiezza, a cominciare dall’autosufficienza alimentare di un popolo affamato e in quattro anni il risultato su questo fronte fu fuori dall’ordinario. Poi la letterale costruzione dal nulla di un’economia locale, forze produttive non più dipendenti dall’estero, l’alfabetizzazione e il decisivo coinvolgimento delle donne in una società marcatamente patriarcale. Se oggi il fenomeno migratorio è strettamente connesso anche a ragioni ambientali, anzitempo Sankara si rese conto dei rischi della progressiva desertificazione e di quanto l’ecologia dovesse essere in cima all’agenda politica. In uno dei suoi interventi più celebri Sankara tematizzò la questione ineludibile del debito e di quella che oggi definiremmo l’austerità per il pieno compimento della rivoluzione. Durante la sua presidenza, a fronte di un debito troppo esoso da onorare, il sostegno delle istituzione economiche internazionali crollò del 25% e quello francese passò da 88 a 19 milioni di dollari in tre anni.

Sankara è stato accusato di aver corso troppo con un ritmo di riforme e cambiamenti non sostenibile senza forze sociali strutturate alle spalle, in un quadro politico interno frammentato e internazionale ancora segnato dalla Guerra Fredda. Nel corso di un’intervista televisiva si definì «un ciclista che scala una salita ripida con due precipizi a destra e a sinistra». «Per restare me stesso, per sentirmi tale – concluse – sono obbligato a continuare con questo slancio».

Qual è stata la conquista essenziale del presidente più giovane che l’Africa abbia conosciuto? Non essere espulsi dalla storia in quanto poveri, anzi credere di riuscire a determinarla in un contesto mondiale di profonda convulsione economica, che avrebbe poi prodotto un difficilmente reversibile aumento delle diseguaglianze. «La cosa più rilevante, credo, sia di aver condotto il popolo ad avere fiducia in sé stesso – disse Sankara –, a comprendere che, finalmente, bisogna sedersi e scrivere il proprio sviluppo; sedersi e scrivere la propria felicità; l’opportunità di dire ciò che desideriamo. E al contempo sentire intimamente qual è il prezzo che si è disposti a pagare per questa felicità».

mercoledì 4 ottobre 2017

I sogni della gioventù tunisina: intervista a Shukri al-Mabkhout

di Gabriele Santoro

Correva l’anno 2015. Una settimana dopo aver saputo che il proprio romanzo era stato bandito dalle librerie degli Emirati Arabi Uniti, per riapparire successivamente, Shukri al-Mabkhout ha ricevuto nella capitale Abu Dhabi il più importante premio internazionale per la narrativa araba (International prize for arabic fiction) per il romanzo d’esordio L’Italiano (traduzione dall’arabo di Barbara Teresi, 365 pagine, 18.50 euro), uscito in Tunisia nel 2014 col titolo al Talyānī e recentemente pubblicato in Italia da e/o. Un paradosso evidente che tuttavia non sorprende, e coglie lo spirito dell’opera capace di disvelare ipocrisie e contraddizioni di società sospese tra la conservazione coatta e la rivoluzione.

A Tunisian woman holds her national flag as she takes part in a rally on Habib Bourguiba Avenue in Tunis on January 14, 2016, to mark the fifth anniversary of the 2011 revolution. / AFP / FETHI BELAID

Al-Mabkhout, classe 1962, nato a Tunisi, accademico, rettore dell’Università di Manouba e direttore della fiera del libro della capitale tunisina, apprezzato critico letterario e traduttore ha scritto un romanzo di rilievo, che riesce a incarnare aspirazioni, lotte e disillusioni di un popolo alla ricerca di libertà e dignità. Al-Mabkhout ha cominciato a scriverlo stimolato dai tumulti della rivoluzione tunisina nel 2011, che esprimevano anche l’anelito represso dei giovani della generazione precedente. È una critica al potere pur nelle evoluzioni mai dissimile nella propria violenza.

«Il grande sviluppo della narrativa araba è una testimonianza della nostra presa di coscienza o della consapevolezza dei fallimenti e dell’oppressione. Scrivere romanzi è lo strumento letterario per esporre tutte le nostre contraddizioni ed essere liberi», dice l’autore.

L’italiano è Abdel Nasser, così soprannominato per la bellezza e i propri tratti somatici, e rappresenta la vicenda di uno studente di sinistra immerso negli eventi che caratterizzarono il tramonto della dittatura di Bourguiba e l’inizio del regime di Ben Ali nel 1987. È un trentenne smarritosi nella ricerca di un mondo che non c’è. Abdel, finito a fare il giornalista filogovernativo, appassito per il futuro mancato di una modernità che non assomiglia per nulla a quella sognata, e la giovane sposa Zeina, l’intellettuale impossibile da irregimentare, da cui divorzierà, affrescano dal microcosmo dell’Università di Tunisi il travaglio mai concluso di un Paese.

Al-Mabkhout, c’è un filo rosso che congiunge i sogni del giovane Abdel Nasser a quelli dell’odierna gioventù tunisina?
«Lui è il simbolo di una generazione, la mia, delle ideologie, delle lotte e dei conflitti di un’epoca, della sinistra sotto la dittatura. Idee e valori che non trovavano modo di realizzarsi in una società profondamente conservatrice, plasmata da un regime atroce che non permetteva la libertà di manifestazione del pensiero e dell’azione politica. Oggi in tutto il mondo è cambiata la nozione stessa di sinistra, ma le questioni e i desideri restano tali. I giovani e le giovani emersi dalla rivoluzione hanno altre sensibilità, altri modi di guardare il mondo e di agire. Personalmente coltivo le illusioni di Abdel, che mi appartengono, ma la mia sfida, consapevole della storia, consiste nel conoscere questa generazione, il suo linguaggio».

L’università è quasi un personaggio del romanzo, un luogo che condensa e dipana gran parte delle aspirazioni anche politiche di una generazione. Dal suo osservatorio presso l’Università di Manouba che cosa scruta?
«È vero, il romanzo prova pure a descrivere il ruolo dell’università nella lotta per la libertà in Tunisia, un’enclave in cui si tentava l’opposizione alla dittatura. Era uno spazio in cui tutte le tendenze politiche, seppure sotto osservazione permanente del regime, che non trovavano spazio pubblico fuori dalle aule potevano esprimersi. Molti movimenti di sinistra o nazionalisti arabi sono nati e fioriti all’interno dell’università, poiché gli studenti erano intellettualmente in grado di formulare teorie e proposte politiche. Dopo la rivoluzione del 2011 il quadro è più complesso. L’apertura del campo partitico ha contagiato la realtà universitaria, i militanti hanno invaso un terreno di sperimentazione politica e minato anche la crescita culturale, ciò ha scavato fossati interni, indebolendo i movimenti studenteschi e l’istituzione stessa. Non sono mancate le tensioni, numerose le interruzioni dell’attività con una mera retorica dell’esclusione dell’avversario. Anche l’università vive una fase di transizione».

La figura di Zeina emerge proprio all’università e il protagonista maschile, Abdel, in qualche modo da lì si rivela nel rapporto con le donne che hanno un ruolo preponderante nella narrazione. Che cosa le accomuna?
«Non è possibile generalizzare la figura femminile, ma sono unite dalla volontà di emanciparsi non solo individualmente. Ognuna di loro si batte con le proprie esitazioni e visioni del mondo. Le sofferenze, le ferite e le urgenze non differiscono da quelle delle donne occidentali. Hanno una dialettica con Abdel che tira fuori le sue contraddizioni, debolezze e il macismo. Nella ricerca delle donne raffigurate nel testo, nella loro indipendenza si disvelano le ipocrisie e la povertà culturale delle società conservatrici».

Dall’indipendenza nel mondo arabo musulmano la Tunisia è il paese a garantire più diritti alle donne. L’articolo 21 della Costituzione tunisina afferma che i cittadini e le cittadine sono eguali davanti alla legge, hanno medesimi diritti e doveri, e al secondo comma dà loro eguali libertà e diritti individuali e collettivi. Una lunga marcia che rappresenta un’eccezione e il cui successo non può essere scisso dal sogno della rivoluzione?
«Sì, la nostra storia è particolare e si collega alla costituzione dello Stato nazionale. Nel 1956 la legge proibì la poligamia, concesse l’adozione vietata dalla legge islamica, prima che in Francia e in Italia è stato riconosciuto il diritto all’aborto, è stata garantita la parità nell’accesso all’istruzione e al mondo del lavoro. Oggi la percentuale delle donne iscritte all’università è più alta rispetto a quella degli uomini, così come in altri settori lavorativi dall’insegnamento alla medicina. È una dinamica sociale creata da un complesso di leggi progressiste, che tutt’oggi non ha eguali nei paesi arabi musulmani. Il percorso legislativo prosegue dalla più recente misura contro la violenza all’eguaglianza in materia di eredità a differenza del dettato coranico, passando per la possibilità di poter sposare un uomo non musulmano. Tutto ciò corrisponde a una medesima logica riformista. La donna in Tunisia sta costruendo un nuovo modello di famiglia. Ovviamente non è tutto perfetto, come d’altra parte in Occidente, ma siamo dentro a un processo di standardizzazione dei diritti e resta molto lavoro da fare».

Rispetto a tali conquiste esiste un pericolo di regressione?
«Non credo, perché non si tratta di diritti acquisiti ma vissuti che è qualcosa di più profondo dal solo riconoscimento su un piano giuridico. La donna tunisina li vive quotidianamente e ha un peso crescente nella società. Le stesse donne che militano dentro a partiti o movimenti di matrice islamica hanno interiorizzato questo spirito, diciamo progressista, e non considerano passi indietro verso condizioni formali e sostanziali di svantaggio. Escludono per esempio la possibilità di un ritorno alla poligamia. Tentativi di questo genere hanno subito incontrato l’opposizione con grandi manifestazioni. Tutti hanno compreso che la donna tunisina lotterà per difendere i propri diritti».

La Tunisia dibatte ancora i termini del ruolo che l’Islam giocherà nella vita pubblica, politica. Colpisce un episodio recente di cronaca. Un’insegnante, Faiza Souissi, di una scuola elementare della città di Sfax, centro economico del paese, è stata aggredita verbalmente da un gruppo di genitori di alunni, accusandola di essere ostile ai precetti religiosi: bambini e bambine non avrebbero dovuto sedersi vicini. È dovuta intervenire la polizia per scortarla a casa.
«Lo Stato nazionale costruito da Bourguiba non era laico, lui stesso si scagliò contro la laicità di Kemal Ataturk. Lo mise all’indice, sostenne come ciò fosse folle: non si possono cambiare le società musulmane attaccando l’Islam. Bourguiba vendette tutte le riforme in nome della religione, esattamente ciò che gli islamisti hanno sempre fatto. Ha mantenuto un comportamento da equilibrista con la religione di Stato, neutralizzando esponenti di quel potere. La questione religiosa non avrà molta influenza sull’avvenire almeno giuridico del paese. La disputa ideologica, politica invece resta aperta. Anche prefigurando uno scenario pressoché impossibile, gli islamisti al potere, non potranno modificare le fondamenta più che radicate dello Stato».