mercoledì 4 ottobre 2017

I sogni della gioventù tunisina: intervista a Shukri al-Mabkhout

di Gabriele Santoro

Correva l’anno 2015. Una settimana dopo aver saputo che il proprio romanzo era stato bandito dalle librerie degli Emirati Arabi Uniti, per riapparire successivamente, Shukri al-Mabkhout ha ricevuto nella capitale Abu Dhabi il più importante premio internazionale per la narrativa araba (International prize for arabic fiction) per il romanzo d’esordio L’Italiano (traduzione dall’arabo di Barbara Teresi, 365 pagine, 18.50 euro), uscito in Tunisia nel 2014 col titolo al Talyānī e recentemente pubblicato in Italia da e/o. Un paradosso evidente che tuttavia non sorprende, e coglie lo spirito dell’opera capace di disvelare ipocrisie e contraddizioni di società sospese tra la conservazione coatta e la rivoluzione.

A Tunisian woman holds her national flag as she takes part in a rally on Habib Bourguiba Avenue in Tunis on January 14, 2016, to mark the fifth anniversary of the 2011 revolution. / AFP / FETHI BELAID

Al-Mabkhout, classe 1962, nato a Tunisi, accademico, rettore dell’Università di Manouba e direttore della fiera del libro della capitale tunisina, apprezzato critico letterario e traduttore ha scritto un romanzo di rilievo, che riesce a incarnare aspirazioni, lotte e disillusioni di un popolo alla ricerca di libertà e dignità. Al-Mabkhout ha cominciato a scriverlo stimolato dai tumulti della rivoluzione tunisina nel 2011, che esprimevano anche l’anelito represso dei giovani della generazione precedente. È una critica al potere pur nelle evoluzioni mai dissimile nella propria violenza.

«Il grande sviluppo della narrativa araba è una testimonianza della nostra presa di coscienza o della consapevolezza dei fallimenti e dell’oppressione. Scrivere romanzi è lo strumento letterario per esporre tutte le nostre contraddizioni ed essere liberi», dice l’autore.

L’italiano è Abdel Nasser, così soprannominato per la bellezza e i propri tratti somatici, e rappresenta la vicenda di uno studente di sinistra immerso negli eventi che caratterizzarono il tramonto della dittatura di Bourguiba e l’inizio del regime di Ben Ali nel 1987. È un trentenne smarritosi nella ricerca di un mondo che non c’è. Abdel, finito a fare il giornalista filogovernativo, appassito per il futuro mancato di una modernità che non assomiglia per nulla a quella sognata, e la giovane sposa Zeina, l’intellettuale impossibile da irregimentare, da cui divorzierà, affrescano dal microcosmo dell’Università di Tunisi il travaglio mai concluso di un Paese.

Al-Mabkhout, c’è un filo rosso che congiunge i sogni del giovane Abdel Nasser a quelli dell’odierna gioventù tunisina?
«Lui è il simbolo di una generazione, la mia, delle ideologie, delle lotte e dei conflitti di un’epoca, della sinistra sotto la dittatura. Idee e valori che non trovavano modo di realizzarsi in una società profondamente conservatrice, plasmata da un regime atroce che non permetteva la libertà di manifestazione del pensiero e dell’azione politica. Oggi in tutto il mondo è cambiata la nozione stessa di sinistra, ma le questioni e i desideri restano tali. I giovani e le giovani emersi dalla rivoluzione hanno altre sensibilità, altri modi di guardare il mondo e di agire. Personalmente coltivo le illusioni di Abdel, che mi appartengono, ma la mia sfida, consapevole della storia, consiste nel conoscere questa generazione, il suo linguaggio».

L’università è quasi un personaggio del romanzo, un luogo che condensa e dipana gran parte delle aspirazioni anche politiche di una generazione. Dal suo osservatorio presso l’Università di Manouba che cosa scruta?
«È vero, il romanzo prova pure a descrivere il ruolo dell’università nella lotta per la libertà in Tunisia, un’enclave in cui si tentava l’opposizione alla dittatura. Era uno spazio in cui tutte le tendenze politiche, seppure sotto osservazione permanente del regime, che non trovavano spazio pubblico fuori dalle aule potevano esprimersi. Molti movimenti di sinistra o nazionalisti arabi sono nati e fioriti all’interno dell’università, poiché gli studenti erano intellettualmente in grado di formulare teorie e proposte politiche. Dopo la rivoluzione del 2011 il quadro è più complesso. L’apertura del campo partitico ha contagiato la realtà universitaria, i militanti hanno invaso un terreno di sperimentazione politica e minato anche la crescita culturale, ciò ha scavato fossati interni, indebolendo i movimenti studenteschi e l’istituzione stessa. Non sono mancate le tensioni, numerose le interruzioni dell’attività con una mera retorica dell’esclusione dell’avversario. Anche l’università vive una fase di transizione».

La figura di Zeina emerge proprio all’università e il protagonista maschile, Abdel, in qualche modo da lì si rivela nel rapporto con le donne che hanno un ruolo preponderante nella narrazione. Che cosa le accomuna?
«Non è possibile generalizzare la figura femminile, ma sono unite dalla volontà di emanciparsi non solo individualmente. Ognuna di loro si batte con le proprie esitazioni e visioni del mondo. Le sofferenze, le ferite e le urgenze non differiscono da quelle delle donne occidentali. Hanno una dialettica con Abdel che tira fuori le sue contraddizioni, debolezze e il macismo. Nella ricerca delle donne raffigurate nel testo, nella loro indipendenza si disvelano le ipocrisie e la povertà culturale delle società conservatrici».

Dall’indipendenza nel mondo arabo musulmano la Tunisia è il paese a garantire più diritti alle donne. L’articolo 21 della Costituzione tunisina afferma che i cittadini e le cittadine sono eguali davanti alla legge, hanno medesimi diritti e doveri, e al secondo comma dà loro eguali libertà e diritti individuali e collettivi. Una lunga marcia che rappresenta un’eccezione e il cui successo non può essere scisso dal sogno della rivoluzione?
«Sì, la nostra storia è particolare e si collega alla costituzione dello Stato nazionale. Nel 1956 la legge proibì la poligamia, concesse l’adozione vietata dalla legge islamica, prima che in Francia e in Italia è stato riconosciuto il diritto all’aborto, è stata garantita la parità nell’accesso all’istruzione e al mondo del lavoro. Oggi la percentuale delle donne iscritte all’università è più alta rispetto a quella degli uomini, così come in altri settori lavorativi dall’insegnamento alla medicina. È una dinamica sociale creata da un complesso di leggi progressiste, che tutt’oggi non ha eguali nei paesi arabi musulmani. Il percorso legislativo prosegue dalla più recente misura contro la violenza all’eguaglianza in materia di eredità a differenza del dettato coranico, passando per la possibilità di poter sposare un uomo non musulmano. Tutto ciò corrisponde a una medesima logica riformista. La donna in Tunisia sta costruendo un nuovo modello di famiglia. Ovviamente non è tutto perfetto, come d’altra parte in Occidente, ma siamo dentro a un processo di standardizzazione dei diritti e resta molto lavoro da fare».

Rispetto a tali conquiste esiste un pericolo di regressione?
«Non credo, perché non si tratta di diritti acquisiti ma vissuti che è qualcosa di più profondo dal solo riconoscimento su un piano giuridico. La donna tunisina li vive quotidianamente e ha un peso crescente nella società. Le stesse donne che militano dentro a partiti o movimenti di matrice islamica hanno interiorizzato questo spirito, diciamo progressista, e non considerano passi indietro verso condizioni formali e sostanziali di svantaggio. Escludono per esempio la possibilità di un ritorno alla poligamia. Tentativi di questo genere hanno subito incontrato l’opposizione con grandi manifestazioni. Tutti hanno compreso che la donna tunisina lotterà per difendere i propri diritti».

La Tunisia dibatte ancora i termini del ruolo che l’Islam giocherà nella vita pubblica, politica. Colpisce un episodio recente di cronaca. Un’insegnante, Faiza Souissi, di una scuola elementare della città di Sfax, centro economico del paese, è stata aggredita verbalmente da un gruppo di genitori di alunni, accusandola di essere ostile ai precetti religiosi: bambini e bambine non avrebbero dovuto sedersi vicini. È dovuta intervenire la polizia per scortarla a casa.
«Lo Stato nazionale costruito da Bourguiba non era laico, lui stesso si scagliò contro la laicità di Kemal Ataturk. Lo mise all’indice, sostenne come ciò fosse folle: non si possono cambiare le società musulmane attaccando l’Islam. Bourguiba vendette tutte le riforme in nome della religione, esattamente ciò che gli islamisti hanno sempre fatto. Ha mantenuto un comportamento da equilibrista con la religione di Stato, neutralizzando esponenti di quel potere. La questione religiosa non avrà molta influenza sull’avvenire almeno giuridico del paese. La disputa ideologica, politica invece resta aperta. Anche prefigurando uno scenario pressoché impossibile, gli islamisti al potere, non potranno modificare le fondamenta più che radicate dello Stato».

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