martedì 16 gennaio 2018

La frontiera messicana nella terra di nessuno

di Gabriele Santoro

Assemblare le tessere del mosaico di un viaggio, che segna la sorte di una vita, è un’esperienza potentissima. Forse rappresenta l’unica occasione per sentire prima di capire l’emigrazione. Recarsi in un centro d’accoglienza, scrivendo poi una storia che si appella a pezzi di carta sopravvissuti al deserto e al mare, non risolve probabilmente nulla, ma costringe a entrare senza via d’uscita nell’esistenza degli altri.


Dimmi come va a finire (la nuova frontiera, 96 pagine, traduzione di Monica Pareschi dall’inglese) è il titolo del nuovo libro di Valeria Luiselli, da poco pubblicato in Italia, e corrisponde alla domanda posta dalla figlia della scrittrice messicana di origine italiana alla madre: “E allora, come va a finire la storia di quei bambini?”. Questi ultimi sono i minori migranti non accompagnati che dai paesi dell’America Centrale cercano di varcare la linea di confine nordamericana. La sera a casa Luiselli deve arrendersi a quella domanda legittima, non può evaderla. “Nella terra di nessuno / Niente diritto d’asilo qui / Re Salomone non ha mai vissuto da queste parti”, cantavano The Clash in Straight to Hell. Dal 2006 secondo la stima più attendibile 120.000 migranti transitanti in Messico sono scomparsi lungo le duemila miglia della frontiera statunitense.

La trentaquattrenne autrice cosmopolita, assistente all’Hofstra University e residente ad Harlem, alle prese con le pastoie burocratiche legate al rilascio della sua Green Card, si è avvicinata grazie al suo avvocato all’urgenza di una difesa che assomiglia alla presa della parola e all’ascolto: “Che cos’era l’iscrizione prioritaria a ruolo dei minori? Chi difendeva quei bambini, e chi era ad accusarli? E di quale reato, esattamente?”. Nel marzo del 2015 ha cominciato a lavorare come interprete al Tribunale dell’Immigrazione di New York, rielaborando successivamente le mappe interiori disegnate da viaggi disumani.

Il primo scoglio nel quale è grosso il rischio di incagliarsi consiste nello stabilire l’ordine narrativo delle cose. Il testo segue il percorso complesso di un questionario composto di quaranta domande, che dalle risposte attendono l’opportunità di immaginare una vita migliore. “Per quale motivo sei venuto negli Stati Uniti?”, inizia così la traduttrice che si fa interprete, per poi ricostruire e cesellare con la scrittura storie necessariamente frammentate che faticano a dirsi. Agli avvocati Luiselli deve consegnare gli elementi sufficienti per imbastire la difesa in aula dell’innocenza propria dell’infanzia frantumatasi durante l’emigrazione, ed evitare il decreto di espulsione.

Dimmi come va a finire ha una dimensione prettamente politica, è un invito a ripensare la lingua stessa che circonda il fenomeno migratorio. Se le cose si possono comprendere nella propria interezza solo dopo molti anni – sostiene l’autrice di Volti nella folla, Storia dei miei denti, Carte false, pubblicati sempre da la nuova frontiera – quando la storia è in corso l’unica possibilità è raccontarla: “Prima di poter capire qualcosa, ciò va narrato molte volte, con molte parole diverse, da molte angolazioni diverse, da molte menti diverse”.

Secondo la stima più attendibile, Secondo la stima più attendibile, dal 2006 sono 120.000 i migranti transitanti in Messico scomparsi lungo le duemila miglia della frontiera statunitense.

Secondo i dati elaborati dall’interessante volume Deportation and Return in a Border-Restricted World, Experiencese in Mexico, El Salvador, Guatemala and Honduras (2016), nel quadriennio 2010-2013 rispetto allo stesso periodo 1995-1999 le espulsioni dagli Stati Uniti di nativi messicani, privi di documenti regolari, sono quasi triplicate, passando da 440.738 a 1.179.877. Nel 2014 il 51% degli immigrati messicani presenti nel paese non aveva i documenti. Dal 2007 al 2012 la presenza di undocumented mexicans è scesa di un milione di persone. Nel biennio 2015-’16 c’è stato un ulteriore calo degli irregolari pari a 5.6 milioni.

Dal 1965 al 2015 più di 16 milioni di messicani sono emigrati negli States. Con il 28% sul totale dei 42 milioni di stranieri presenti restano il gruppo etnico più largo. Tra il 1980 e il 2006 il numero di immigrati è cresciuto impetuosamente da due milioni di persone a quasi dodici. La Grande recessione, datata 2007-2009, ha sostanzialmente arrestato il movimento. Negli ultimi otto anni la crescita è stata bloccata, a causa del crollo delle opportunità lavorative e dell’esponenziale militarizzazione del confine. Per dare una misura economica dell’emigrazione, nel 2014 gli 11.714.500 milioni di messicani espatriati producevano rimesse del valore di 24 miliardi di dollari, pari al 2% del Pil del paese di nascita.

Dal 2005 la somma complessiva dei provvedimenti di allontanamento riguarda per il 90% cittadini provenienti da Messico, El Salvador, Guatemala e Honduras. Il 73% dei migranti undocument sono partiti da questi ultimi tre paesi, i minori soprattutto in fuga dalla violenza delle bande criminali, ma i messicani restano i più attenzionati. Manu, raffigurato da Luiselli, ha un solo documento superstite del viaggio, il foglio della denuncia, inascoltata dalla polizia, della banda che lo perseguitava fino a eliminare il suo migliore amico. Tra il 2009 e il 2014 appare significativa la percentuale del 93% dei rimpatri di minori under 14 messicani da parte della polizia di frontiera senza la necessità di dibattimento. La procedura si chiama paradossalmente ritorno volontario e fa riferimento al Trafficking Victims Protection Reauthorization Act firmato nel 2008 da Bush.

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mercoledì 3 gennaio 2018

Salmon: «Vi racconto Blumkin, poeta e terrorista dai mille volti»


Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 21

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Il progetto Blumkin (Editori Laterza, 263 pagine, 18 euro, traduzione di Silvia Ballestra) è un'inchiesta storica sui primi dieci anni della Rivoluzione russa, è un racconto di viaggio attraverso l'ex Unione Sovietica, dalle rive del Mar Nero a quelle del Baltico e dalla città di Odessa a San Pietroburgo, che si estende fino a Istanbul, alla regione di Guilan e sui sentieri irti del Tibet, seguendo le tracce del giovane rivoluzionario dai mille volti Jakov Blumkin.

«Gli scrittori si immaginano di scegliere le loro storie nel mondo. In realtà è il contrario. Sono le storie che scelgono gli scrittori. Le storie ci rivelano a noi stessi. Ci invadono. Insistono per essere raccontate – ha scritto l'indiana Arundhati Roy – . Da quando avevo 29 anni, l'età di Blumkin al momento della sua esecuzione, la sua storia mi perseguita. Mi attaccavo a questo eroe leggendario per mitigare il senso della sconfitta in un'epoca molto poco eroica, quella degli anni Ottanta», dice l'autore, il francese Christian Salmon. La sua immagine si sovrapponeva a quella di Blumkin come un ritratto di Dorian Gray. La valigia, che conteneva l'archivio di questo progetto trentennale, è diventata poco a poco un diario involontario della sua esistenza; ci ha ritrovato dentro i disegni della figlia piccola inseriti fra le pagine della deposizione di Blumkin davanti alla Tcheka.

Il 6 luglio del 1918 Blumkin, eseguendo l'ordine del suo partito SR di sinistra, assassinò l'ambasciatore tedesco, il Conte von Mirbach, come atto di ribellione alla pace di Brest-Litovsk siglata da Lenin con la Germania. Il diciassettenne non era solo un terrorista, era un poeta amico dei più grandi poeti della sua epoca, Esenin e Maïakovski. E al contempo era una spia, una sorta di James Bond sovietico che si ritrovò all'indomani della Prima Guerra mondiale nel cuore del grande gioco fra le potenze europee immerse nel conflitto che avrebbe ridisegnato la mappa a Oriente.

Salmon, in che modo si costruisce un'inchiesta così affascinante su un rivoluzionario come Blumkin, di cui è in dubbio perfino la data di nascita?
«Per molteplici ragioni Blumkin occupa nella storia del Ventesimo secolo un posto a sé stante, e finora non ha ottenuto l'attenzione che merita. Il mistero ha pesato a lungo sulle sue missioni, che in parte ho potuto ricostruire. È stato un uomo dai molti volti, meraviglioso, non il personaggio di un romanzo coerente, capace di cambiare identità, aspetto esteriore, età e personalità come si conviene a un agente dei servizi segreti. Amava dire che aveva vissuto nove vite come i gatti ed era un po' vero. Un caso unico di personalità multipla, un vero doppio. Le testimonianze su di lui sono contraddittorie: è una fiction bolscevica. Non c'è dubbio che sia veramente esistito. Il suo essere camaleontico, la sua plasticità in fondo molto moderna, mi interessano. Non ho ricercato una coerenza nelle sue tante vite, cancellando le contraddizioni, mi sono invece sforzato di ostentarle, di  mostrare un uomo catturato nei riflessi della sua leggenda».

Può descrivere il suo rapporto con Trotsky?
«Trotsky gli salvò la vita dopo l'attentato contro l'ambasciatore tedesco. Blumkin, una volta convinto a riunirsi con i bolscevichi, fu perdonato. Annunciarono la sua esecuzione per calmare i tedeschi. Trotsky lo prese e mise al suo fianco, decidendo di testare questo giovane uomo dal temperamento focoso e lo mandò a eseguire azioni perigliose dietro le armate bianche in Ucraina, da dove rientrò pieno di ferite. Fu soprattutto il sicario e il segretario di Trotsky, di cui editò gli scritti militari. Per Blumkin rappresentava un padre, un professore, lo stratega che organizzò l'Armata Rossa e un amante della poesia. Un intellettuale e un uomo di azione. La loro relazione si fondava sulla lealtà. Blumkin pagherà con la propria vita la visita segreta a Istanbul, dove Trotsky fu esiliato da Stalin. Tradito dalla sua amata, fu arrestato e condannato a morte su ordine personale di Stalin. È stato il primo della lunga lista di vittime bolsceviche di Stalin».

Come si intersecarono arte e azione nell'avventura umana di Blumkin? In dieci anni, gli anni Venti figli del decennio precedente, la letteratura e la poesia russa, come non è accaduto con eguali altrove, hanno donato al mondo geni e quasi nessuno è morto in pace.
«Blumkin era un terrorista e un poeta. Era un esteta affascinato dalla violenza politica. Il celebre linguista Roman Jakobson, che l'aveva conosciuto all'inizio degli anni Venti, lo ricordava come un erudita capace di leggere l'Avesta, il libro sacro della religione preislamica dell'Iran, o qualche vecchio testo ebraico, e al contempo in grado di assassinare diplomatici. Ma aggiungeva: Blumkin tentava in tutti i modi di mettere a rischio la propria vita. Secondo Nadejda Mandelstam, la vedova del poeta, era raro vedere coabitare nello stesso uomo le qualità “di un amante autentico della poesia e di un omicida nato”. Lo stesso Mandelstam diede la definizione migliore: “Un Lord Jim Bolscevico”, poiché come scrisse Joseph Conrad della sua creatura, lo spirito del romantico l'aveva scelto per farne il personaggio».

La vicenda di Blumkin si contestualizza in quella più vasta della violenza del Ventesimo secolo. La violenza che segna il nostro tempo ha ridefinito il concetto stesso di terrorismo?
«Rispondo citando una frase di Ossip Mandelstam: “Una gioventù in assenza di narrazioni avanzava al principio del secolo. Il terrorismo offriva loro un racconto possibile”. La mancanza di utopia disegna un vuoto nel quale la violenza di radica. Quando l'esperienza non trova la propria forma espressiva in un luogo immaginario, che ho chiamato il “sud dell'esperienza”, allora la violenza può emergere in qualsiasi momento. In Francia la violenza terroristica, che ha ferito Parigi in due occasioni nel 2015, è stata l'opera di giovani i cui parenti avevano subìto la violenza coloniale e loro vite erano prive di un racconto credibile di quel che era accaduto. Uomini senza storie colpiti dalla Storia. Gli unici modelli in cui potevano identificarsi erano i combattenti delle guerre di liberazione, che non esitavano a compiere attentati».

Spesso nei suoi libri emerge quanto il nostro rapporto tra la realtà e la percezione di essa sia sempre meno distinguibile.
«In fondo tutti i miei libri sono inchieste sulla narrazione dell'esistenza, sui rapporti tra realtà e fiction e sulle macchine che costruiscono il racconto. Cerco nuove prospettive per penetrare la realtà. Che mi occupi di Kate Moss, Georges W. Bush o Yakov Blumkin metto alla prova il mio rapporto con il reale, tento di decostruire le storie che si raccontano per intravedere ciò che non sarà altro che un istante, un bagliore di verità. Non vedo altra ragione per scrivere dei libri, che non sia quella di condurre a una vita più reale».

In che modo rilegge oggi il suo lavoro Politica nell'era dello storytelling
«Mi sembra che la storia politica recente abbia confermato e fissato alcuni aspetti della diagnosi elaborata in quel libro. L'elezione di Donald Trump negli Stati Uniti ha consacrato la vittoria della realtà televisiva sulla politica. L’homo politicus, di cui predivo l'estinzione, in effetti è sparito. Al suo posto abbiamo un “tele presidente” e un “Twitter presidente”. Trump è la metafora che illumina il nostro smarrimento politico, come un'apparizione fantomatica di ciò che producono la società americana e più in generale le società occidentali. Trump lancia una sfida al sistema non per riformarlo o trasformarlo, ma per ridicolizzarlo, e rappresenta il rischio di uscita dalla razionalità politica per scendere nel terreno delle passioni elementari, la paura e l'odio».