Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 21
di Gabriele Santoro
di Gabriele Santoro
di Gabriele Santoro
Il progetto Blumkin (Editori Laterza, 263 pagine, 18 euro, traduzione di Silvia Ballestra) è un'inchiesta storica sui primi dieci anni della Rivoluzione russa, è un racconto di viaggio attraverso l'ex Unione Sovietica, dalle rive del Mar Nero a quelle del Baltico e dalla città di Odessa a San Pietroburgo, che si estende fino a Istanbul, alla regione di Guilan e sui sentieri irti del Tibet, seguendo le tracce del giovane rivoluzionario dai mille volti Jakov Blumkin.
«Gli scrittori si immaginano di scegliere le loro storie nel mondo. In realtà è il contrario. Sono le storie che scelgono gli scrittori. Le storie ci rivelano a noi stessi. Ci invadono. Insistono per essere raccontate – ha scritto l'indiana Arundhati Roy – . Da quando avevo 29 anni, l'età di Blumkin al momento della sua esecuzione, la sua storia mi perseguita. Mi attaccavo a questo eroe leggendario per mitigare il senso della sconfitta in un'epoca molto poco eroica, quella degli anni Ottanta», dice l'autore, il francese Christian Salmon. La sua immagine si sovrapponeva a quella di Blumkin come un ritratto di Dorian Gray. La valigia, che conteneva l'archivio di questo progetto trentennale, è diventata poco a poco un diario involontario della sua esistenza; ci ha ritrovato dentro i disegni della figlia piccola inseriti fra le pagine della deposizione di Blumkin davanti alla Tcheka.
Il 6 luglio del 1918 Blumkin, eseguendo l'ordine del suo partito SR di sinistra, assassinò l'ambasciatore tedesco, il Conte von Mirbach, come atto di ribellione alla pace di Brest-Litovsk siglata da Lenin con la Germania. Il diciassettenne non era solo un terrorista, era un poeta amico dei più grandi poeti della sua epoca, Esenin e Maïakovski. E al contempo era una spia, una sorta di James Bond sovietico che si ritrovò all'indomani della Prima Guerra mondiale nel cuore del grande gioco fra le potenze europee immerse nel conflitto che avrebbe ridisegnato la mappa a Oriente.
Salmon, in che modo si costruisce un'inchiesta così affascinante su un rivoluzionario come Blumkin, di cui è in dubbio perfino la data di nascita?
«Per molteplici ragioni Blumkin occupa nella storia del Ventesimo secolo un posto a sé stante, e finora non ha ottenuto l'attenzione che merita. Il mistero ha pesato a lungo sulle sue missioni, che in parte ho potuto ricostruire. È stato un uomo dai molti volti, meraviglioso, non il personaggio di un romanzo coerente, capace di cambiare identità, aspetto esteriore, età e personalità come si conviene a un agente dei servizi segreti. Amava dire che aveva vissuto nove vite come i gatti ed era un po' vero. Un caso unico di personalità multipla, un vero doppio. Le testimonianze su di lui sono contraddittorie: è una fiction bolscevica. Non c'è dubbio che sia veramente esistito. Il suo essere camaleontico, la sua plasticità in fondo molto moderna, mi interessano. Non ho ricercato una coerenza nelle sue tante vite, cancellando le contraddizioni, mi sono invece sforzato di ostentarle, di mostrare un uomo catturato nei riflessi della sua leggenda».
Può descrivere il suo rapporto con Trotsky?
«Trotsky gli salvò la vita dopo l'attentato contro l'ambasciatore tedesco. Blumkin, una volta convinto a riunirsi con i bolscevichi, fu perdonato. Annunciarono la sua esecuzione per calmare i tedeschi. Trotsky lo prese e mise al suo fianco, decidendo di testare questo giovane uomo dal temperamento focoso e lo mandò a eseguire azioni perigliose dietro le armate bianche in Ucraina, da dove rientrò pieno di ferite. Fu soprattutto il sicario e il segretario di Trotsky, di cui editò gli scritti militari. Per Blumkin rappresentava un padre, un professore, lo stratega che organizzò l'Armata Rossa e un amante della poesia. Un intellettuale e un uomo di azione. La loro relazione si fondava sulla lealtà. Blumkin pagherà con la propria vita la visita segreta a Istanbul, dove Trotsky fu esiliato da Stalin. Tradito dalla sua amata, fu arrestato e condannato a morte su ordine personale di Stalin. È stato il primo della lunga lista di vittime bolsceviche di Stalin».
Come si intersecarono arte e azione nell'avventura umana di Blumkin? In dieci anni, gli anni Venti figli del decennio precedente, la letteratura e la poesia russa, come non è accaduto con eguali altrove, hanno donato al mondo geni e quasi nessuno è morto in pace.
«Blumkin era un terrorista e un poeta. Era un esteta affascinato dalla violenza politica. Il celebre linguista Roman Jakobson, che l'aveva conosciuto all'inizio degli anni Venti, lo ricordava come un erudita capace di leggere l'Avesta, il libro sacro della religione preislamica dell'Iran, o qualche vecchio testo ebraico, e al contempo in grado di assassinare diplomatici. Ma aggiungeva: Blumkin tentava in tutti i modi di mettere a rischio la propria vita. Secondo Nadejda Mandelstam, la vedova del poeta, era raro vedere coabitare nello stesso uomo le qualità “di un amante autentico della poesia e di un omicida nato”. Lo stesso Mandelstam diede la definizione migliore: “Un Lord Jim Bolscevico”, poiché come scrisse Joseph Conrad della sua creatura, lo spirito del romantico l'aveva scelto per farne il personaggio».
La vicenda di Blumkin si contestualizza in quella più vasta della violenza del Ventesimo secolo. La violenza che segna il nostro tempo ha ridefinito il concetto stesso di terrorismo?
«Rispondo citando una frase di Ossip Mandelstam: “Una gioventù in assenza di narrazioni avanzava al principio del secolo. Il terrorismo offriva loro un racconto possibile”. La mancanza di utopia disegna un vuoto nel quale la violenza di radica. Quando l'esperienza non trova la propria forma espressiva in un luogo immaginario, che ho chiamato il “sud dell'esperienza”, allora la violenza può emergere in qualsiasi momento. In Francia la violenza terroristica, che ha ferito Parigi in due occasioni nel 2015, è stata l'opera di giovani i cui parenti avevano subìto la violenza coloniale e loro vite erano prive di un racconto credibile di quel che era accaduto. Uomini senza storie colpiti dalla Storia. Gli unici modelli in cui potevano identificarsi erano i combattenti delle guerre di liberazione, che non esitavano a compiere attentati».
Spesso nei suoi libri emerge quanto il nostro rapporto tra la realtà e la percezione di essa sia sempre meno distinguibile.
«In fondo tutti i miei libri sono inchieste sulla narrazione dell'esistenza, sui rapporti tra realtà e fiction e sulle macchine che costruiscono il racconto. Cerco nuove prospettive per penetrare la realtà. Che mi occupi di Kate Moss, Georges W. Bush o Yakov Blumkin metto alla prova il mio rapporto con il reale, tento di decostruire le storie che si raccontano per intravedere ciò che non sarà altro che un istante, un bagliore di verità. Non vedo altra ragione per scrivere dei libri, che non sia quella di condurre a una vita più reale».
In che modo rilegge oggi il suo lavoro Politica nell'era dello storytelling?
«Mi sembra che la storia politica recente abbia confermato e fissato alcuni aspetti della diagnosi elaborata in quel libro. L'elezione di Donald Trump negli Stati Uniti ha consacrato la vittoria della realtà televisiva sulla politica. L’homo politicus, di cui predivo l'estinzione, in effetti è sparito. Al suo posto abbiamo un “tele presidente” e un “Twitter presidente”. Trump è la metafora che illumina il nostro smarrimento politico, come un'apparizione fantomatica di ciò che producono la società americana e più in generale le società occidentali. Trump lancia una sfida al sistema non per riformarlo o trasformarlo, ma per ridicolizzarlo, e rappresenta il rischio di uscita dalla razionalità politica per scendere nel terreno delle passioni elementari, la paura e l'odio».
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