lunedì 28 gennaio 2019

«Siedi il bambino». L'Accademia della Crusca e le osservazioni sulla lingua in Rete

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 1-23

di Gabriele Santoro



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 a Pagina 3 Rai Radio3


di Gabriele Santoro

Vittorio Coletti, linguista e consigliere dell’Accademia della Crusca, si è misurato con una richiesta rivolta da numerosi cittadini alla Crusca: «è lecito costruire il verbo sedere con l’oggetto diretto di persona: “siedi il bambino, siedilo lì”?». A distanza di venti giorni dalla pubblicazione, la sua consulenza linguistica ha suscitato reazioni polarizzate con critiche istintive alle riflessioni del linguista.

È ammessa dunque la costruzione transitiva di sedere? «Si può rispondere di sì – asserisce Coletti. Ormai è stata accolta nell’uso, anche se non ha paralleli in costrutti consolidati con l’oggetto interno come li hanno salire o scendere (le scale, un pendio). Non vedo il motivo per proibirla e neppure, a dire il vero, per sconsigliarla. Ma certo è problematico definirla transitiva, perché la prova di volgere il verbo al passivo non sembra per ora reggere, come del resto non regge per altri verbi in costruzione transitiva non passivabile».

Nella spiegazione di Coletti, sedere, come altri verbi di moto, ammette in usi regionali e popolari sempre più estesi anche l’oggetto diretto e che in questa costruzione ha una sua efficacia e sinteticità espressiva che può indurre a sorvolare sui suoi limiti grammaticali. 

«L’uso secolare della lingua presenta molte variazioni della stessa. L’utilizzo transitivo di verbi tipicamente intransitivi è documentato ampiamente nel tempo. L’analisi scientifica della lingua porta alla luce fenomeni, che sono ai margini ma possono anche prevalere. Ciò non significa che oggi non ci sia una norma vigente da rispettare. Gli usi e passaggi dall’intransitivo, come evidenzia l’analisi di Coletti, rispecchiano una dinamica interna della lingua i verbi che s'influenzano uno con l’altro. Non è ignoranza, bensì un movimento dei significati delle parole», spiega Franco Sabatini.

Il Presidente onorario dell’Accademia della Crusca si sofferma anche su un aspetto della polemica emersa sui social network; la presunta prevalenza nel Meridione d’Italia di questo utilizzo. «Questi slittamenti verso un uso più semplice, qual è quello del verbo transitivo, sono più frequenti nel parlato quotidiano casalingo. Non è una questione geografica di nord e sud, perché li usiamo ovunque. La battuta sulla presunta rivincita del sud, con un uso attribuito all'ignoranza, è una bestialità. Per esempio, “uscire il bambino” si documenta nello scrittore piemontese Beppe Fenoglio».

Le domande, dalle quali è nato l’articolo di Coletti, evocano soprattutto situazioni di ambito domestico, spesso caratterizzato dalla rapidità di linguaggio per affrontare determinate circostanze: per esempio quando c’è urgenza di far sedere, mettere seduto, posare su una sedia o un divano un bambino. In questo significato l’uso transitivo di sedere è registrato in qualche dizionario, ad esempio nel GRADIT ma non compare nello Zingarelli 2019. Si tratta di una costruzione nata, probabilmente, dall’assorbimento nel verbo semplice del composto causativo fare più sedere, una procedura sintetica che riguarda da tempo anche altri verbi di moto.

I quesiti sono l’occasione per un’osservazione più ampia:  «C’è un processo in corso che non riguarda solo l’italiano, ma tutte le lingue europee – evidenzia Coletti. Si tratta dello spostamento dei verbi di movimento che finiscono per avere il complemento oggetto. Si sta estendendo oltre i fenomeni locali. È difficile e non ha senso proibirlo. Lo si può sconsigliare negli usi più formali della lingua, ma in quelli pratici e familiari non vedo lo scandalo».

È dunque una forzatura sulla norma, sulla grammatica, però nell'uso procede perché ha una sua funzionalità. Tuttavia la sua ammissibilità è circoscritta a determinati ambiti, non a scuola per esempio. «Come consulenti dell'Accademia – dice Coletti, cerchiamo di descrivere la ragione per cui accade un fenomeno linguistico e i suoi margini di ammissibilità. Sul verbo sedere c'era una pressione dalla realtà del suo utilizzo che ha suscitato la curiosità. In questi contesti domestici non è possibile scandalizzarsi come se fosse un errore».

Ma che cosa s'intende per una maggiore flessibilità nell'accogliere l'utilizzo di espressioni considerate errate? «Innanzitutto la quantità della sua diffusione. Ciò che registro nella consulenza è anche nel dizionario di De Mauro. La liceità è contestualizzata e la forzatura si collega alla funzionalità espressiva». Coletti è parzialmente stupito dalla reazione sui social: «Di fronte ai movimenti della lingua c'è una sensibilità dell'opinione pubblica favorita dalla diffusione dei social media. Trovo positivo il dibattito, perché si riflette sulla lingua che è vitale. L'unico invito è a leggere integralmente i testi di cui si discute, per non incorrere in analisi destituite di fondamento».

venerdì 25 gennaio 2019

Lipsia a trent'anni dalla caduta del Muro di Berlino

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 1-23

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

A Lipsia le “Montagsdemonstrationen”, le proteste non violente del lunedì, tracciarono non solo simbolicamente la strada che condusse alla caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989.

All’alba di quell’anno, l’aria a Lipsia, epicentro della Ddr e sede del colosso industriale VEB TAKRAF che raggruppava ventisei imprese, era irrespirabile. I confini della città erano pieni di crateri di lignite e le fabbriche a carbone l’annerivano. Nelle chiese, luoghi relativamente sottratti al controllo poliziesco statuale, la protesta degli ambientalisti, che rappresentarono il primo nucleo della rivolta pacifica, si saldò con quella di chi mirava ad abbattere la frontiera tra le due Germanie per riconquistare piena libertà di movimento e d’espressione. Coltivando ancora l’idea di riformabilità dall’interno del sistema, contestavano allo Stato socialista di aver tradito il socialismo e non sognavano il capitalismo.

All’inizio in piazza marciavano poche centinaia di persone, poi il fiume s’ingrossò rapidamente. Una data fondamentale è il 4 settembre 1989. Dinnanzi alla centralissima Nikolaikirche, che già dal 1982 accolse chi si riuniva per invocare cambiamenti radicali, mille persone portarono per la prima volta in piazza striscioni che recitavano: «Per un paese aperto con cittadini liberi» e «Restiamo qui, ma vogliamo le riforme». 

Il nove ottobre settantamila persone invasero il principale anello stradale della città. E per la prima volta la polizia, i gruppi antisommossa dell’esercito e la Stasi non intervennero, segno evidente di cedimento. La settimana successiva affluirono trecentomila persone. I manifestanti, partendo dalla Nikolaikirche, sfilarono spesso davanti all’edificio, la “Runde ecke”, in cui l’8 febbraio del 1950 s’insediò il Ministero per la Sicurezza di Stato, la Stasi, che trascorse poi quasi mezzo secolo ad ascoltare e spiare la vita dei cittadini. Trent’anni fa, il 4 dicembre del 1989, Tobias Hollitzer era fra i trenta temerari che occuparono la struttura, che oggi è uno spazio museale.

«Erano davvero giornate in cui le cose cambiavano in modo estremamente veloce e non c’era una reale pianificazione – spiega Hollitzer, direttore del Museo. Avevamo promesso di restare pacifici, a patto di poter sapere: la Stasi non doveva dunque assolutamente distruggere gli atti e i fascicoli dell’archivio. La Stasi, scudo e spada del partito unico, era sinonimo di repressione in ogni ambito dell’esistenza e soprattutto di ciò che era sconosciuto. Questi segreti suscitavano molto interesse. Dal 1992 si è potuto richiedere l’accesso agli atti per conoscere quali dossier avessero raccolto. Le ricerche negli archivi non sono concluse e attirano la generazione dei nipoti».

Nel 1992 il Bürgerbewegung Neues Forum pubblicò una lista con i nomi di 4500 informatori della Stasi. Una goccia nell’oceano: si stima fossero 180000. Ricostruire la fiducia tra i cittadini stessi e l’autorità statuale ha costituito una delle sfide più insidiose della riunificazione. «Il principale ricordo, che conservo dell’ingresso della “Runde ecke”, sono i sacchi di posta originale ammassati nelle stanze – prosegue Hollitzer. Già in quelle ore il museo ha cominciato a esistere, preservando dalla sparizione i documenti. Nel maggio del 1990 si tenne una prima esposizione con il lavoro dei Bürgerkomitee, comitati costituiti dai cittadini occupanti e nucleo di pratica democratica».

Il Museo è parte integrante e un simbolo della città. La metà dei suoi visitatori provengono dall’estero, circa il 20% invece dalle regioni della Germania dell’est. Ed è stato scelto di non cambiare la sua struttura originale con i pavimenti in linoleum, carta da parati giallo scuro e i vecchi strumenti di spionaggio.

All’ingresso del complesso museale campeggia uno slogan significativo dell’epoca: «Wir sind das volk». Lo slogan “Noi siamo il popolo” raffigurò la rottura del senso di rappresentanza in uno Stato totalitario, che in modo martellante si dichiarava al servizio del popolo. Nel periodo più critico della transizione verso la Germania unita questo stesso slogan fu riadattato: «Wir sind das volk aber nicht ohne arbeit» (Siamo il popolo, ma che è senza lavoro).

Dopo il processo di privatizzazione e la chiusura di molte fabbriche Lipsia conobbe l’esodo di centomila lavoratori con un’acutissima crisi economica e demografica, oggi superata con costose politiche sociali. Dal Duemila ha vissuto una profonda trasformazione e rinascita urbanistica. Il dato della disoccupazione si attesta su quello nazionale del 7%, ma per alcune fasce di popolazione lo schema dei blocchi contrapposti è ancora paradigmatico ed esprime un senso di alienazione nella Germania riunificata.

«Soprattutto negli ultimi cinque anni la memoria storica è sempre più oggetto della strumentalizzazione politica. La complessità, le difficoltà della riunificazione e ciò che è andato storto dopo il Novanta non possono cancellare il senso di una rivoluzione pacifica, della scelta consapevole della democrazia parlamentare e l’abbattimento della frontiera», conclude Hollitzer.

domenica 6 gennaio 2019

Quella danza meravigliosa chiamata tennis

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 22

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

«Il problema di fondo, da cui discendono tutti gli altri, è che il gioco in sé non si lascia quasi raccontare. I colpi si possono descrivere, le partite ricostruire, le crisi o gli stati di grazia evocare, ma l’elemento che lega tutto, e senza il quale il resto non ha senso – la meravigliosa fluidità che rende questa danza con una palla diversa da qualsiasi altro sport – si sottrae alle parole».

Con questa premessa, Matteo Codignola sa restituire al tennis la dimensione stratificata e profonda delle storie che l’hanno animato, quando era libero dalle regole dettate dal professionismo e dal mercato. Nel libro Vite brevi di tennisti eminenti (Adelphi, 290 pagine, 22 euro) Codignola intesse venti racconti, che interpretano altrettante fotografie in bianco e nero capaci d’ispirare la narrazione.

Gottfried von Cramm, il più forte giocatore a non avere mai vinto Wimbledon, apre la raccolta. Von Cramm, scrive l’autore, è l’ultimo sopravvissuto di un’epoca in cui i risultati contavano molto meno della pura bellezza di un colpo. Negli anni più difficili, non tradì mai la passione per il tennis. Von Cramm disse no al corteggiamento del regime nazista, pagando col carcere l’omosessualità, per poi tornare sul campo con la consueta eleganza.

Maureen Connolly, nota come Little Mo, appare in una fotografia con un’espressione perplessa. Lei appena diciottenne vinse i quattro tornei dello Slam e scomparve appena trentaquattrenne: un tempo piccolo illuminato dal coraggio. Nel suo sguardo, dopo un colpo non andato a segno, c’è il dialogo interiore e con l’ambiente esterno di un tennista, che corrisponde alla costruzione del tempo di una partita.

Le parole pronunciate dalla piccola ragazza con la racchetta grande testimoniano la progressiva trasformazione del tennis al femminile: «Ora le donne con le gonne corte e i pantaloncini hanno una maggiore libertà nei movimenti. Corrono anche più veloce, perché non pensano ad apparire posate sul campo. Si allenano di più per divenire buone atlete. Molte più donne vanno a rete e mostrano confidenza con la volèe e lo smash. Le racchette sono incordate in modo più saldo e consentono di colpire veloce e forte».

Fra i ritratti colpisce quello di Jaroslav Drobny. Il padre, dopo anni di servizio nella Marina austroungarica, all’inizio degli anni Venti era il custode del migliore circolo di tennis di Praga. Jaroslav cominciò a giocare all’età di cinque anni e alla bellezza sapeva abbinare l’agonismo. «Drob era un giocatore naturale, immensamente dotato, partito dal serve and volley per approdare a un gioco a tutto campo molto fluido e crudele. Quella gentilezza di tocco aveva sempre fatto passare in secondo piano le sue straordinarie doti di agonista, manifestate in partite estreme». Nel 1953, a Wimbledon, entrò nella memoria collettiva del tennis con uno dei match più lunghi, segnato da scambi da venti o trenta colpi, rarissimi sull’erba in quegli anni.

Alla domanda più semplice e più alta, il fuoriclasse Ilie Năstase risponde: «Che cos'è il tennis? Il gioco più strano che sia mai esistito».

venerdì 28 dicembre 2018

«Così la Brexit ha lacerato il Regno Unito». Intervista ad Anthony Cartwright

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 29

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Da Martin Amis ad Ali Smith, attraversando la Middle England di Jonathan Coe, le questioni sociali, politiche e i sentimenti sollecitati dalla Brexit sono già materia narrativa per gli scrittori d’oltremanica.

Alla fine di gennaio, la casa editrice 66thand2nd porterà in Italia il nuovo romanzo di Anthony Cartwright, classe 1973, dal titolo evocativo e di successo The Cut (Il taglio), che immerge il lettore nella terra di mezzo inglese incarnata dalla Brexit. Sono due i protagonisti della storia creata dall’autore. Cairo Jukes, originario di Dudley, città natia di Cartwright, è un ex boxeur simbolo della working class in crisi d’identità. Grace Trevithick, una documentarista affermata, si allontana dalla Londra cosmopolita e benestante per cercare di comprendere nelle viscere del Black Country le ragioni della Brexit. Nonostante le diversità d’estrazione e condizione socioeconomica, riesce a costruire con Cairo un dialogo interessante. «Pensate che il voto sia legato solo all’immigrazione e che siamo tutti razzisti. Vi assicuro che è molto più complesso di così», dice Cairo.

L’opera non è estemporanea, ma s’inserisce in un percorso letterario e di ricerca ben strutturato da Cartwright, capace di raccontare le contraddizioni della Gran Bretagna contemporanea impoverita a causa della deindustrializzazione. I personaggi dei suoi romanzi, da Heartland a Iron Towns, ritraggono lo smarrimento della società britannica dinnanzi alla progressiva erosione delle sicurezze acquisite nel tempo e le reazioni che manifestano paure profonde.



Cartwright, c’è già una fessura tra il prima e dopo Brexit?
«Sì, credo si avverta il senso profondo di una frattura. Il voto ha acuito ed esposto le divisioni e i rancori preesistenti. La situazione è resa molto instabile dalla rottura della tradizionale lealtà all’appartenenza politica. Sulla Brexit il frazionamento interno ai partiti è trasversale. Siamo piombati in una trincea di visioni politiche di scarso respiro, animate dai pregiudizi. Nutro la sola speranza che si affrontino le diseguaglianze sociali ed economiche, capaci di generare risentimenti aspri».

Chi sono i cosiddetti “Brexiteers”?
«È una coalizione bizzarra composta dall’ala più intransigente del Partito Conservatore, degli estremisti dell’UKIP, da elementi del vecchio establishment britannico ancora ossessionati dai sogni dell’Impero. Ma è più cruciale il sostegno di una parte significante della classe operaia inglese e gallese. La maggioranza delle persone, che hanno sostenuto la Brexit, non sono espressione dell’estrema destra. Questo è stato un grande e costante abbaglio dei commentatori e politici schierati per l’Europa. Invece di costruire un dialogo con gli elettori scettici e disillusi, si è preferito chiamare circa diciotto milioni di persone razzisti o fascisti».

Quali paure e speranze hanno condizionato il referendum?
«La paura, che ha influenzato gli elettori, è il prodotto di quarant’anni di crescente divario sociale e di un senso d’impotenza diffuso nella popolazione. Le speranze provenivano dall’idea errata, ma effettivamente persuasiva, di riprendere il controllo sui politici, sulle élite dominanti che hanno servito così male il paese. Con queste paure e speranze il voto sull’Unione Europea è ciò che potremmo definire il “danno collaterale”. Non credo che i cittadini siano entrati nelle urne col pensiero rivolto integralmente all’Europa. Si è trattato più di una questione insulare di divisioni parrocchiali. Questo è stato uno degli errori più gravi commessi da chi ha deciso d’indire il referendum».

I giovani hanno votato per l’Europa. Lei ritiene sia anche uno scontro tra generazioni?
«La Gran Bretagna è un paese ancora molto ricco, in cui un bambino su quattro vive in condizione di povertà. Questo dato, citando le parole del recente report del Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla materia, non è semplicemente una disgrazia, ma una calamità sociale e un disastro economico. È evidente che per i giovani ci siano molte meno opportunità rispetto ai genitori ma anche ai nonni. La diseguaglianza mai così ampia nei livelli di benessere resta la spaccatura più pericolosa delle nostre società».

Che cosa ha rappresentato la Brexit per la working class britannica?
«Una certezza è che sulla classe operaia graverà l’impatto più forte, qualunque sia l’esito di questo processo. Un governo oltranzista e l’assenza di un accordo con l’UE sono le cose più pericolose per noi e per i popoli europei. Il voto è stato un ultimo lancio di dadi, un azzardo. Viviamo in un paese in cui molte persone sono disperate; un paese ricco in cui le persone sono sempre più povere».

Quanto può resistere il pensiero obliquo del Partito Laburista sul tema?
« In questo contesto frammentato il partito laburista è apparso cauto, danzando come un equilibrista. Nonostante la maggioranza dei laburisti abbia votato per restare nell’Unione Europea, è anche il partito di riferimento della classe operaia delle regioni industriali dell’Inghilterra e del Galles, che si è espressa a favore della Brexit. La rabbia, in quella che una volta era il cuore della nostra industria e dei laburisti, è reale e assolutamente giustificata».

Qual è l’impatto sul lavoro culturale di questa stagione politica e sociale turbolenta?
«È vero che la Brexit ha generato una reazione artistica soprattutto nella narrativa. Penso che la letteratura possa offrire meglio della politica un senso di apertura. Consente di porre le questioni irrisolte ed è attenta alle sfumature, alla complessità, quando la politica e soprattutto gli attuali politici sembrano intenti a dare risposte riduttive e categoriche a questioni di difficile soluzione».