venerdì 28 dicembre 2018

«Così la Brexit ha lacerato il Regno Unito». Intervista ad Anthony Cartwright

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 29

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Da Martin Amis ad Ali Smith, attraversando la Middle England di Jonathan Coe, le questioni sociali, politiche e i sentimenti sollecitati dalla Brexit sono già materia narrativa per gli scrittori d’oltremanica.

Alla fine di gennaio, la casa editrice 66thand2nd porterà in Italia il nuovo romanzo di Anthony Cartwright, classe 1973, dal titolo evocativo e di successo The Cut (Il taglio), che immerge il lettore nella terra di mezzo inglese incarnata dalla Brexit. Sono due i protagonisti della storia creata dall’autore. Cairo Jukes, originario di Dudley, città natia di Cartwright, è un ex boxeur simbolo della working class in crisi d’identità. Grace Trevithick, una documentarista affermata, si allontana dalla Londra cosmopolita e benestante per cercare di comprendere nelle viscere del Black Country le ragioni della Brexit. Nonostante le diversità d’estrazione e condizione socioeconomica, riesce a costruire con Cairo un dialogo interessante. «Pensate che il voto sia legato solo all’immigrazione e che siamo tutti razzisti. Vi assicuro che è molto più complesso di così», dice Cairo.

L’opera non è estemporanea, ma s’inserisce in un percorso letterario e di ricerca ben strutturato da Cartwright, capace di raccontare le contraddizioni della Gran Bretagna contemporanea impoverita a causa della deindustrializzazione. I personaggi dei suoi romanzi, da Heartland a Iron Towns, ritraggono lo smarrimento della società britannica dinnanzi alla progressiva erosione delle sicurezze acquisite nel tempo e le reazioni che manifestano paure profonde.



Cartwright, c’è già una fessura tra il prima e dopo Brexit?
«Sì, credo si avverta il senso profondo di una frattura. Il voto ha acuito ed esposto le divisioni e i rancori preesistenti. La situazione è resa molto instabile dalla rottura della tradizionale lealtà all’appartenenza politica. Sulla Brexit il frazionamento interno ai partiti è trasversale. Siamo piombati in una trincea di visioni politiche di scarso respiro, animate dai pregiudizi. Nutro la sola speranza che si affrontino le diseguaglianze sociali ed economiche, capaci di generare risentimenti aspri».

Chi sono i cosiddetti “Brexiteers”?
«È una coalizione bizzarra composta dall’ala più intransigente del Partito Conservatore, degli estremisti dell’UKIP, da elementi del vecchio establishment britannico ancora ossessionati dai sogni dell’Impero. Ma è più cruciale il sostegno di una parte significante della classe operaia inglese e gallese. La maggioranza delle persone, che hanno sostenuto la Brexit, non sono espressione dell’estrema destra. Questo è stato un grande e costante abbaglio dei commentatori e politici schierati per l’Europa. Invece di costruire un dialogo con gli elettori scettici e disillusi, si è preferito chiamare circa diciotto milioni di persone razzisti o fascisti».

Quali paure e speranze hanno condizionato il referendum?
«La paura, che ha influenzato gli elettori, è il prodotto di quarant’anni di crescente divario sociale e di un senso d’impotenza diffuso nella popolazione. Le speranze provenivano dall’idea errata, ma effettivamente persuasiva, di riprendere il controllo sui politici, sulle élite dominanti che hanno servito così male il paese. Con queste paure e speranze il voto sull’Unione Europea è ciò che potremmo definire il “danno collaterale”. Non credo che i cittadini siano entrati nelle urne col pensiero rivolto integralmente all’Europa. Si è trattato più di una questione insulare di divisioni parrocchiali. Questo è stato uno degli errori più gravi commessi da chi ha deciso d’indire il referendum».

I giovani hanno votato per l’Europa. Lei ritiene sia anche uno scontro tra generazioni?
«La Gran Bretagna è un paese ancora molto ricco, in cui un bambino su quattro vive in condizione di povertà. Questo dato, citando le parole del recente report del Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla materia, non è semplicemente una disgrazia, ma una calamità sociale e un disastro economico. È evidente che per i giovani ci siano molte meno opportunità rispetto ai genitori ma anche ai nonni. La diseguaglianza mai così ampia nei livelli di benessere resta la spaccatura più pericolosa delle nostre società».

Che cosa ha rappresentato la Brexit per la working class britannica?
«Una certezza è che sulla classe operaia graverà l’impatto più forte, qualunque sia l’esito di questo processo. Un governo oltranzista e l’assenza di un accordo con l’UE sono le cose più pericolose per noi e per i popoli europei. Il voto è stato un ultimo lancio di dadi, un azzardo. Viviamo in un paese in cui molte persone sono disperate; un paese ricco in cui le persone sono sempre più povere».

Quanto può resistere il pensiero obliquo del Partito Laburista sul tema?
« In questo contesto frammentato il partito laburista è apparso cauto, danzando come un equilibrista. Nonostante la maggioranza dei laburisti abbia votato per restare nell’Unione Europea, è anche il partito di riferimento della classe operaia delle regioni industriali dell’Inghilterra e del Galles, che si è espressa a favore della Brexit. La rabbia, in quella che una volta era il cuore della nostra industria e dei laburisti, è reale e assolutamente giustificata».

Qual è l’impatto sul lavoro culturale di questa stagione politica e sociale turbolenta?
«È vero che la Brexit ha generato una reazione artistica soprattutto nella narrativa. Penso che la letteratura possa offrire meglio della politica un senso di apertura. Consente di porre le questioni irrisolte ed è attenta alle sfumature, alla complessità, quando la politica e soprattutto gli attuali politici sembrano intenti a dare risposte riduttive e categoriche a questioni di difficile soluzione».

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