martedì 20 febbraio 2018

Fisica e filosofia, una conversazione con Carlo Rovelli

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 1-19

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

«Perché l'Italia non affossi, non perda i vantaggi del proprio patrimonio di conoscenze e l'influenza culturale nel mondo penso che nel futuro debba avere il doppio dell'attuale numero di laureati. La loro freschezza serve al paese per essere efficienti, creativi, il saper cambiare con intelligenza non deve essere ristretto a una piccola fascia di popolazione. I paesi del mondo, in cui i laureati si pensano come la classe dirigente del domani, sono ormai sempre meno e in perdita. I laureati devono essere i cittadini nel futuro in tutti i paesi», sostiene Carlo Rovelli.

Il Direttore del Centre de Physique Théorique Università di Aix-Mairselle, che ha conquistato milioni di lettori su scala globale con i libri Sette brevi lezioni di fisica e L'ordine del tempo, ha inaugurato l'anno accademico dell'Università degli Studi Roma Tre con una Lectio magistralis, un'articolata riflessione sugli effetti molteplici e multidisciplinari della recente rivelazione delle onde gravitazionali, che ha toccato poi questioni dirimenti dell'università italiana.

Luca Pietromarchi, Magnifico Rettore dell'ateneo romano che si allarga con un nuovo polo a Ostia, ha anticipato Rovelli, evidenziando la complessità della sfida comune: coniugare l'esiguità atavica di risorse con il rinnovamento qualitativo necessario dell'istituzione che, usando le parole del Rettore, «si difende e resiste».

Rovelli, di università si parla molto poco, anche in campagna elettorale. Nel proprio intervento Pietromarchi ha definito scandaloso il sottofinanziamento dell'università italiana. Lei vede deteriorarsi la qualità e lo stato del diritto allo studio?
«L’Inghilterra ha più o meno il doppio di università dell’Italia, e la percentuale di laureati italiani è metà della media europea. È una ricetta chiara per l’insuccesso futuro del paese».

Secondo recenti dati Ocse, l'Italia registra una delle percentuali più basse di laureati, il 18%, e quella più alta di laureati nelle discipline umanistiche. Lo ritiene di per sé un problema ed è possibile determinare le ragioni che tengono distanti i giovani diplomati dagli studi tecnico-scientifici?
«Lo storicismo che caratterizza ancora la cultura nella scuola italiana ha il grande pregio di offrire una visione organica del sapere, ma il difetto di svalutare il sapere scientifico. Gli italiani escono dalla scuola secondaria con una cultura generale migliore di molti altri paesi, e una cultura scientifica di base molto peggiore. Sì, penso che sia qualcosa che sarebbe meglio per il paese correggere, soprattutto perché continua a nutrire il pressapochismo che è il peggiore difetto della nostra cultura». 

Però non è tutto da buttare.
«La qualità della scuola italiana, specialmente quella primaria, è fra le migliori del mondo.  L’educazione universitaria è ancora di altissima qualità, nonostante i tagli drammatici degli ultimi decenni. La ricerca italiana è fra le migliori del mondo, malgrado le minori risorse che il paese investe in ricerca rispetto agli altri Stati. Ci sono molte cose da migliorare, e sarebbe facilissimo: basterebbe portare la percentuale che il paese spende in educazione al livello degli altri paesi europei; ma non copriamoci il capo di cenere, resiste ancora un’ottima scuola. Ho insegnato in molte parti del mondo e ho avuto studenti da moltissime università, nel confronto i giovani italiani non hanno nulla da temere».

Perché con la scoperta delle onde gravitazionali gli ultimi due anni sono stati importantissimi per la scienza fondamentale?
«Lo sono stati non solo perché abbiamo questo secondo tipo di segnale della natura, le onde gravitazionali, oltre quelle elettromagnetiche. Abbiamo imparato moltissime cose in breve tempo. Ad esempio non sapevamo che esistessero buchi neri decine di volte più grandi del sole, che abbiamo visto cadere uno sull'altro. Il fatto di riuscire a vedere contemporaneamente le onde gravitazionali e quelle elettromagnetiche ci ha permesso di dire che viaggiano alla stessa velocità. Abbiamo guadagnato quattordici ordini di grandezza di conoscenza di uno dei parametri fondamentali del mondo, che oggi conosciamo cento miliardi di volte meglio». 

La questione è anche filosofica.
«Osservare i buchi neri distanti che cadono uno dentro l'altro ci insegna qualcosa di fondamentale sullo spazio e sul tempo, su questioni che hanno un risvolto filosofico importante, discusse dalla filosofia da anni. Lo scambio è reciproco. Einstein quando ha scritto la teoria della relatività generale studiava i filosofi, leggeva Kant da ragazzo, e vedere direttamente l'effetto del movimento dei buchi neri ha significato confermare la previsione di Einstein, non nel regime in cui l'avevamo sempre vista finora, che sono le piccole deformazioni dello spazio rispetto alla struttura dello spazio usuale, ma nel regime dove lo spazio è diverso. È la prima volta che veramente andiamo a vedere che lo spazio e il tempo sono profondamente diversi da quelli usuali intorno a noi. Si tratta di un sostegno empirico forte alla struttura concettuale che Einstein ci ha permesso di comprendere, chiudendo un grande arco che va da Aristotele a Newton».

L'”Ordine del tempo” in fondo mette insieme la fisica, una prospettiva filosofica, il suo lavoro di ricerca e una personale cifra letteraria. Ha capito la ragione della relazione speciale che ha costruito col lettore con questo tipo di impostazione e di scrittura?
«No, non l’ho capito, ma sono infinitamente grato ai miei lettori per questa relazione.  Forse è proprio l’aver voluto cercare, per quello che posso, di tessere una prospettiva unitaria, che non trascuri quello né quello che di fatto sappiamo nel mondo, né la nostra umanità. Nessuna conoscenza specialistica ha senso, se non come componente di una visione generale del mondo in cui le cose stanno insieme».  

Fare divulgazione scientifica, riuscendo a conquistare i lettori non solo in Italia, l'ha portata a ridefinire il ruolo dello scienziato nella società al tempo della Rete?
«Sì. Non è stato merito mio, è stato merito di diversi amici. Da ragazzo ho condiviso con una generazione il sogno di migliorare il mondo e la delusione di capire quanto è difficile; poi ho lasciato perdere e per la maggior parte della mia vita mi sono tenuto le mie idee per me, pensando che in fondo a nessuno interessavano, e che comunque non cambiavo certo le cose.  Poi a un certo punto degli amici, e anche dei miei studenti, hanno cominciato a dirmi: ci sono persone che ti ascoltano, hai una possibilità di dare un piccolo contributo di idee, se non lo fai te ne prendi la responsabilità. Mi hanno convinto.  Penso che gli scienziati prima di essere scienziati siano cittadini, coinvolti nel dibattito pubblico e nei problemi comuni. E questa è una responsabilità». 

C'è spazio per il sapere scientifico nella struttura dialettica spesso aggressiva dei social network?
«Sono uno strumento nuovo, con tutte le opportunità e le insidie delle novità. Non abbiamo ancora imparato ad usarli. Lo faremo. Ci vorrà del tempo. Le racconto un piccolo episodio. Mi ritengo una persona accorta e con senso critico; ma quest’estate mi sono commosso e indignato per un piccolo servizio visto su YouTube su una questione politica molto calda. Il video ha non poco orientato le mie opinioni. Solo più tardi, messo sull’allarme da un commento trovato in rete, mi sono reso conto che si trattava di propaganda russa falsa».

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