martedì 7 giugno 2016

Nicola Pietrangeli racconta la Coppa Davis '76


di Gabriele Santoro

La vittoria della prima e finora unica Coppa Davis per l’Italia è stata una felicità triste. A quarant’anni di distanza da Santiago del Cile, Nicola Pietrangeli definisce così il successo e racconta a Minima et moralia quel viaggio complesso, cominciando da un episodio inedito: «All’inizio sulla targa della Coppa Davis, dove c’è scritto 1976, Italia, apparivano solo i nomi dei quattro giocatori. Sarebbe stata l’unica coppa che non citava anche il capitano. La mostrai al Presidente della Federazione Internazionale, che in cinque minuti rimediò allo sgarbo. Questo per far capire l’atmosfera che regnava nei rapporti fra me e il presidente della Federtennis italiana».


Paolo Galgani si ritrovò fra le mani qualcosa di prezioso, che non aveva contribuito a costruire. Diventato la guida del movimento tennistico nazionale, dopo l’uscita di scena di Giorgio Neri, danzò con interessata ambiguità nel clima scandito dalle grida: «Non si giocano volée contro il boia Pinochet!» Sono partiti solo perché io ancora non ero stato eletto, diceva l’avvocato fiorentino. Accadde una settimana dopo la partenza, poi è stato per un ventennio il presidente della Coppa Davis.

Pietrangeli rievoca un’altra scena, accennando qualcosa sull’essere classe dirigente in Italia: «In Cile Galgani comunicò a me e alla squadra che non avremmo partecipato al pranzo ufficiale. Si trattava di un affronto alla Federazione Internazionale, che minacciò di squalificarci per tre anni dalla Davis. L’ultimo giorno, quando è stata scattata la fotografia della premiazione, lo speaker annunciò la squadra vincitrice. In quel momento vedemmo riapparire il presidente, fino ad allora vestitosi sempre fin troppo casual, in giacca, cravatta e distintivo. Piombò in campo e si avvicinò alla Davis. Il Presidente della Federazione Internazionale la prese e me la consegnò: “La do a Nicola”. Lì sono cominciati i miei guai. Ho imparato che, soprattutto in Italia, le vittorie hanno molti genitori, mentre le sconfitte sono tutte orfane».

Negli anni della dittatura cilena non abbiamo smesso di importare il rame e c’erano le Fiat da vendere. Ma loro no, quell’unione di talenti non sarebbe dovuta partire, avrebbero dovuto rinunciare a quel che amavano fare in nome di una sorta di resistenza passiva che non assomigliava alla vita.
In libreria c’è Sei chiodi storti (66thand2nd, 150 pagine, 17 euro), firmato dal giornalista Dario Cresto-Dina, un racconto polifonico di un sabato pomeriggio dolce amaro, il 18 dicembre 1976, che si fa ritratto personale e collettivo di una generazione, di un talento tecnico «che mai prima e mai dopo si è trovato tutto assieme così denso e composito in un gruppo e in una stagione: superbia, distacco, poesia, sacrificio e rabbia». La straordinaria coppia di doppio composta da Panatta e Bertolucci regolò in quattro set Cornejo e Fillol. Loro come l’altra metà del cielo azzurro, Tonino Zugarelli e Corrado Barazzutti con Pietrangeli, hanno affidato a Cresto-Dina le sensazioni, le memorie e la propria versione dei fatti, che coincide almeno in un punto: è stato giusto partire per il Cile. Nel caso contrario il regime pinochetista avrebbe celebrato, si sarebbe intestato un titolo del tutto immeritato. L’Italia concluse quell’edizione della Davis con 25 partite vinte e appena 4 sconfitte.

Quel dono all’esistente che è stato Johan Cruiyff, quanto avrebbe voluto incantare per una frazione di pace oltre la vergogna degli assassini della giunta militare argentina? Cruiyff, come egli stesso raccontò, non partecipò al mondiale 1978, a causa di un tentativo di sequestro di cui fu vittima la famiglia a Barcellona. Dunque la scelta non avrebbe avuto alcuna connotazione politica. Chissà con Cruiyff ai tempi supplementari la finale Argentina-Olanda all’Estadio Monumental sarebbe finita diversamente, arginando la propaganda, l’autolegittimazione vana di un regime, infine l’usurpazione del gioco. Cambiando campo, scenario, in fondo Raul Barandiaran e i rugbisti di Mar del Plata hanno difeso anche la libertà di continuare a giocare con la palla ovale.

Raulito calciava forte e con precisione la palla ovale. Un drop che non mirava ai pali, cercava il cielo. La dittatura militare aveva strappato uno a uno i fiori di campo, ribelli, della squadra di rugby La Plata. I torturatori si erano accaniti con ferocia vana sui corpi e sui cuori resistenti dei campioni. I bravi ragazzi del burbero sciancato Hugo Passarella alla fine hanno vinto nel segno di una resistenza vitale. Dal campionato non si sono ritirati; non sono scappati: per ogni titolare ucciso entrava una promessa del vivaio fino alla sconfitta del regime. A Barandarian è toccato il destino di chi sopravvive. A noi la fortuna di ascoltarlo.

Ma resta la domanda di fondo: lo sport se, quando e come dovrebbe fermarsi? Correva l’anno 1976 e Pietrangeli aveva le idee chiare nel merito della questione spinosa. Lea Pericoli, che è stata con lui anche a Santiago, dice che perdere quella Davis lo avrebbe sfregiato. Adriano Panatta non smette di ringraziarlo per averli portati in Cile. L’unico merito che “Er Francia”, così ribattezzarono il tredicenne Nicola a Piazza di Spagna, lui nato a Tunisi da madre russa e padre italiano, si prende in quel successo, che ha dialogato con virtù e dolori propri della solitudine.

In Sei chiodi storti, quelli che Panatta portava con sé per scaramanzia, Pietrangeli ricorda così la buona notizia di Ascenzietto: «Sapevo poco di Barazzutti e Zugarelli, qualcosa in più di Bertolucci. Panatta invece si può dire che lo avevo visto nascere. Il padre Ascenzio era il custode del Circolo Parioli e anche un amico per quella banda di adolescenti padrona del club e della quale facevo parte. Un giorno arriva tutto trafelato e dice: “Ao’ me nasce un fijo”. Ascenzietto automaticamente. Poi mi trasferii all’Eur e lo dimenticai fino a quando il maestro Simon Giordano mi porta in campo un ragazzino che, assicura, riuscirà a stupirmi. Cominciamo a palleggiare e dopo un paio di colpi lui scende a rete. Gli dico: “Ehi vacci piano, fammi riscaldare”. E lui: “Quando famo la partita?” Dieci anni dopo mi strapperà il titolo italiano».

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