di Gabriele Santoro
ROMA – Robert Mugabe sarà ancora il padre-padrone dello Zimbabwe. Le elezioni legislative vinte dal Movimento Democratico di Morgan Tsvangirai, la pressione della comunità internazionale e dell’Unione Africana non hanno scalfito il sistema di potere del dittatore africano. Abbiamo intervistato padre Giulio Albanese, missionario comboniano e fondatore dell’Agenzia di stampa missionaria Misna, grande conoscitore della realtà africana e delle sue dinamiche geopolitiche.
Qual è la situazione dello Zimbabwe oggi, dopo le elezioni farsa che hanno mantenuto Robert Mugabe al potere? E’ credibile l’ipotesi di un governo di unità nazionale come avvenuto nella recente crisi keniota?
La situazione è molto diversa dal Kenya. I due candidati alla presidenza, Mwai Kibaki e Raila Odinga, erano freschi non venendo da un’esperienza di dittatura o comunque di lungo governo. Robert Mugabe è presidente dello Zimbabwe dal 1980, quando guidò il movimento di indipendenza del paese. Bisogna capire che Mugabe resta un eroe nell’immaginario della gente e ha anche avuto dei meriti. I problemi sono venuti fuori quando ha rifiutato una qualsiasi forma di alternanza al potere, come ha gestito il potere con la violenza di fronte alla crescita del movimento di opposizione. Oggi il paese è allo stremo: il 90% della popolazione fa fatica a sbarcare il lunario, l’inflazione è alle stelle, il rischio di inedia e pandemie incombe sul Paese. Proprio di recente ho ricevuto notizie da Harare che riferiscono di oltre 200 oppositori del regime costretti a rifugiarsi fuori dall’ambasciata statunitense, perché cacciate dai miliziani di Mugabe, per trovare accoglienza.
Come si è arrivati a questa situazione?
Lo Zimbabwe era considerato come un piccolo gioiello. Un Pil in costante crescita, un sistema di infrastrutture all’avanguardia e soprattutto era considerato il granaio dell’Africa australe. Il Paese ha iniziato ad arenarsi sulla riforma agraria: gli interessi dei grandi farmer, con il ruolo decisivo delle multinazionali, e il sistema violento di espropriazione dei terreni del governo di Mugabe hanno innescato un conflitto che ha paralizzato l’economia nazionale.
A differenza di altre volte la comunità internazionale si è mossa, definendo illegittima la consultazione elettorale. Ma la pressione esercitata su Mugabe non è servita a molto. Quante responsabilità ha l’Occidente in questa deriva?
Ragionando con obiettività non si può negare il ruolo negativo assunto dai Paesi occidentali, o comunque economicamente sviluppati, nell’intessere relazioni economiche con regimi dittatoriali salvo poi pentirsi. Il governo di Pechino, seguendo il principio del business, continua a fare affari con lo Zimbabwe di Mugabe affermando di non voler interferire con gli affari interni del Paese. Nel consesso africano Thabo Mbeki, presidente sudafricano, non ha combinato nulla di concreto rispetto a quelle che erano le proprie potenzialità. Si è dimostrato troppo tenero con Mugabe. Anche il Sudafrica ha il suo tornaconto economico nei rapporti con il vicino. Lo stesso vertice dell’Unione Africana di Charm El-cheick non ha espresso una condanna netta e inappellabile al padre padrone Mugabe, invocando l’opportunità di un governo di unità nazionale. Morgan Tsvangirai, leader dell’opposizione democratica, ha già provveduto a rimandare al mittente la proposta: “Un governo di unità Nazionale non risponderebbe ai problemi del Paese e non rifletterebbe la volontà del popolo”. Mugabe ha dimostrato un’arroganza senza pari: dopo aver perso le elezioni legislative e probabilmente anche quelle presidenziali al primo turno, con la minaccia della destabilizzazione ha mantenuto il potere.
Molti dubitano sulle facoltà intellettive e sulla stabilità mentale di Robert Mugabe.
Certamente non è più quello di prima. Molte sue uscite sono sintomo di uno stato di demenza. Quando era sano di mente ha fatto anche cose intelligenti, come nel ruolo assunto nella vicenda del Mozambico. Mugabe è un vecchio che ha trasformato una repubblica in una Monarchia, va messo da parte.
Un altro fronte africano caldo è il nord-Uganda e il Sudan. Dopo i trattati di pace del 2005 a Parigi il quadro geopolitico si è stabilizzato?
La situazione è decisamente migliorata soprattutto per le popolazioni del nord-Uganda, che non sono costrette a vivere con l’incubo delle razzie del Lord's Resistance Army di Joseph Kony. Una scheggia impazzita che trova ancora riparo, insieme ai resti del suo esercito, nel territorio congolese. Un movimento che si è macchiato di crimini indicibili, arruolando bambini soldato. È necessario trovare un modo per snidare Kony. In questo senso il mandato di cattura emesso nell’ottobre 2005 dalla Corte Penale Internazionale dell’Aja per crimini contro l'umanità non aiuta. Bisognava farlo uscire dalla clandestinità, come accaduto per Charles Taylor in Nigeria, e poi arrestarlo: è fondamentale togliere Kony dal suo contesto geopolitico.
Periodicamente in Africa spuntano gruppi di ribelli, ben armati e pronti a combattere in nome di Dio. Quali sono le reali ragioni che armano questi movimenti?
I cosiddetti Ribelli incarnano precisi interessi economici: dai minerali al petrolio. Il movimento di Kony era una estensione militare finanziata dal governo sudanese di Khartoum, che aveva interesse nel pieno controllo del bacino petrolifero del Sud del paese. Gli esempi possono essere molti. In Sierra Leone la guerra civile, con la vergogna dei bambini soldato, è stata fatta per il controllo della produzione diamantifera. In Angola, dopo anni di guerra civile è scoppiata improvvisamente la pace. Non per amore della pace, ma perché ci si è resi conto che serviva per portare avanti il business del petrolio. In Somalia e nel corno d’Africa, il controllo del petrolio, del gas e dell’uranio spiegano il conflitto tra le Corti Islamiche e le forze governative. La frase dell’economista francese Fredirick Bastiat sintetizza bene il quadro: “dove non passano le merci passano le armi”.
Molti paesi africani sono dominati ancora da padri padroni. Dal Gabon di Omar Bongo, presidente dal 1967, alla Libia di Gheddafi. Quale futuro per le classi dirigenti africane: esiste la possibilità di un ricambio generazionale?
Alle spalle di questi leader vetusti c’è una società civile vitale, che sta emergendo con forza. Per sostenerla è necessaria una vera cooperazione internazionale, che non si rifaccia solo alla sfera economica, ma investa nella formazione e nelle risorse umane del territorio. Occorre formare classi dirigenti oneste in grado di amministrare la Res publica. Scuole per la pubblica amministrazione sono importanti quanto i pozzi d’acqua, se non di più.