Lumsa News, praticantato giornalistico
di Gabriele Santoro
ROMA – Intervista a Ennio Remondino, giornalista del Tg1, attualmente corrispondente in Turchia. Per anni ha raccontato le vicende balcaniche e seguito i bombardamenti della Nato nella ex-Jugoslavia.
La guerra in Georgia nasce in Kosovo. Qual è il filo che lega le due vicende?
Aldilà del confliggere degli interessi strategici ed economici americani e russi nella sfera caucasica, per il controllo della materia prima e delle vie dell’energia, la guerra in Georgia pone serie questioni politiche e di diritto internazionale.
Kosovo e Georgia ripropongono l’equivoco sulla gestione delle istanze del separatismo etnico-religioso. Dopo il crollo del muro di Berlino e la fine della guerra fredda, in Europa sono esplose spinte separatiste. E’ stata superata l’antica regola sancita dalla pace di Westfalia: i confini degli Stati non si toccano. La vicenda jugoslava è l’emblema: con l’interferenza umanitaria, con la decisione unilaterale di chi avesse l’autorità per fare l’arbitro e con la politica dei due pesi e delle due misure si è giunti alla situazione attuale. In Bosnia dopo i bagni di sangue reciproci, gli accordi di Dayton hanno “costretto” tre gruppi etnici a convivere in uno stesso Stato. D’altra parte il Kosovo segna la vittoria della spinta all’identità etnica, che spezza la sacralità dell’unità nazionale. Nei Balcani, nel mondo, è un precedente pericoloso.
Nel 2004 Vladimir Putin avvertì la comunità internazionale: attenzione, se in Kosovo si procederà unilaiteralmente, sul fronte Caucaso la Russia avrà le mani libere. La logica unipolare dell’amministrazione Bush non ha preso le misure giuste e questo è il risultato.
Il ruolo dell’Europa. Ci sono due punti di vista. C’è chi ritiene l’Ue come unico interlocutore forte e credibile per mediare con Mosca e chi considera l’Europa ridotta all’impotenza dal ricatto energetico russo.
La debolezza dell’Europa è insita nella sua struttura: Bruxelles non è in grado di elaborare una politica estera unitaria. Fino a quando non si introdurrà il voto a maggioranza il rischio della paralisi decisionale è costante. L’aggregato di piccoli o medi stati baltici, ricchi di contraddizioni al loro interno, freschi di ingresso nell’Unione porta rivendicazioni del passato, che non possono conciliarsi con le scelte dei grandi d’Europa. Un esempio su tutti è la Polonia dei gemelli Kaczinsky. La stessa Gran Bretagna è una spina nel fianco, ognuno promuove la propria posizione. Non si può rompere con Mosca, ma la politica estera comunitaria è sempre targata Nato. Javier Solana è portatore di interessi atlantici, non europei.
La fine ingloriosa delle rivoluzioni a colori in Georgia e Ucraina, cavallo di battaglia dell’amministrazione Bush, segna il fallimento del tentativo di contenimento della Russia?
Le scorse elezioni il presidente georgiano Michail Saakashvili ha vinto con il 98% dei voti. Un tale risultato è difficile considerarlo come una prova di democrazia. Molta pubblicistica spiega come gli Stati Uniti, tramite munifiche Ong, siano dietro, finanziariamente e politicamente, a “spontanei” movimenti popolari che, a differenza del passato, senza la violenza ribaltano governi in nome della democrazia.
L’energia e le forniture di gas rappresentano uno snodo chiave. La Turchia che si è tenuta fuori dalla mischia, che ruolo è intenzionata a giocare?
La Turchia sta portando avanti una politica di potenza di area molto interessante.
Un governo che è riuscito a creare un’alchimia vincente tra Islam e capitalismo. Nel futuro ci saranno due poteri: chi possiede le risorse e chi le fa circolare. La Turchia vuole diventare un passaggio chiave per tutti, alternativo ai due blocchi. Stringe accordi petroliferi con l’Iran e l’Iraq, è l’unico paese di religione musulmana che ha fatto accordi commerciali e militari con Israele. Il paese della Mezza Luna, carente di petrolio, gestirà una risorsa sempre più preziosa: l’acqua. Per esempio, garantisce a Israele, sempre a rischio di crisi idriche, le acque del Tigri e dell’Eufrate in cambio di cooperazione antiterroristica. Il rapporto con l’Europa, al di là delle ragioni storiche, dipenderà dall’incontrarsi di reciproci interessi. Per la classe dirigente turca prospettare al paese un futuro europeo è un formidabile strumento politico per continuare nel processo riformatore e modernizzatore endogeno.
La Serbia e l’Europa. L’arresto di Karadzic ha facilitato il riavvicinamento di Belgrado a Bruxelles. E’ possibile un futuro europeo per i Balcani?
Più che l’arresto di altri criminali di guerra, libero c’è ancora solo Ratko Mladic; la domanda da porsi è se ci sia ancora spazio per l’annessione di altri paesi all’unione europea. L’ingresso della Serbia in Europa è molto difficile, per cause interne al paese e alla situazione generale dei Balcani.
Il governo Tadic, seppure abbia vinto le elezioni, non ha una maggioranza solida nel paese per forzare la mano ed è stato costretto a riciclare i voti del partito di Slobo Milosevic. Nella penisola balcanica i nodi irrisolti sono troppi, a partire dal Kosovo. Ma un riavvicinamento della Serbia all’Europa conviene a tutti.
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