di Gabriele Santoro
ROMA – Sandro Joyeux ha costruito la vita sulla
strada. Il viaggio rappresenta la fonte creativa di una musica che emana
un’energia pura, fondendo la tradizione autoriale francese con i ritmi afro. La
sua chitarra, e la straordinaria abilità nella tecnica percussiva con cui
incanta, hanno attirato l’attenzione di Tony Esposito, Pino Daniele ed Eugenio Bennato,
che l’hanno voluto al proprio fianco in scena. Ora per lui in calendario c’è la
partecipazione con alcune date (oggi a Milano e il 10 maggio a Palermo)
al festival Suona francese, promosso dall’Ambasciata di Francia e dall’Institut français, che fino al 30 giugno prevede ottanta concerti in quaranta città
italiane.
«L’elettronica ha contraffatto la musica - dice Joyeux -.
Oggi si può fare un album al computer, utilizzando dei software: in questo modo
la si tradisce. Anche quando dovesse accadere un black-out elettrico, io posso
continuare a suonare. I miei album vogliono mettere al centro la ragione
acustica, che sarà eterna. I viaggi e gli scambi segnano sempre un’evoluzione
del mio bagaglio e stile. Da ragazzo, il cosmopolitismo di Parigi mi ha
influenzato profondamente: nei vicoli dei quartieri andai a cercare il mondo, e
lo trovai».
In tenera età un grave problema all’udito sembrò
precludergli una passione primigenia. La distanza dal padre italiano alimentò
la necessità interiore della ricerca artistica. Inventarsi un’esistenza, in
fuga da qualcosa, dall’inquietudine dell'assenza. A dieci anni l’ingresso nel
coro della Radio Nazionale francese; poi il Conservatorio e il rapimento per
quello strumento che suonerà per le strade d’Europa, guadagnandosi la giornata
cantando Bob Marley e Georges Brassens.
«Ho viaggiato per farmi la pelle. Ero senza soldi. In fondo
i musicisti hanno sempre dovuto girare per nutrirsi. Partivo alle 4 della notte
dal mercato ortofrutticolo, ai confini della città, insieme ai camionisti,
compagni di traversata, di passaggio in passaggio destinazione Firenze, dove abitava mio padre. Ora però
prendo il Frecciarossa, anche se preferisco gli intercity o i regionali, perché
s’incontra un’Italia più verace. La vostra tradizione musicale, sterminata e
preziosa, è stata un fattore di contaminazione fondamentale».
L’Africa lo attrae. «Mi manca Bamako, dannazione alla
guerra». Prima il Marocco, per poi andare alla scoperta dell’immenso del
patrimonio ritmico e strumentale dell’area subsahariana: spartiti non ne trova,
si studia a orecchio e reinterpreta la lezione orale dei maestri. Su tutti il cantautore, icona, maliano Boubacar
Traore. I testi delle canzoni sono il risultato di un importante studio sui
dialetti locali e lavoro di meticciato linguistico. A chi rincorre confini,
Joyeux ricorda come le lingue che parliamo derivino dalle relazioni e
reciproche influenze tra civiltà.
Nelle migrazioni del menestrello Roma è una tappa chiave:
nel 2009, dall’amicizia con Giuliano Miliati, nasce un sodalizio. I live romani
registrano progressivamente il tutto esaurito: la ricchezza culturale e la
potenza emotiva trasmessa contagiano il pubblico, creando un’atmosfera
coinvolgente. Sul palco, oltre alla voce e alla chitarra di Joyeux, salgono la
calebasse, il tama, la kora, lo jambé e il shekere. «La ragione sociale è un
elemento essenziale della mia arte. Voglio che la gente canti; si avvicini al
proprio bambino interiore e si prenda il rischio di cantare in varie lingue,
perché apre la mente».
Il chitarrista errante porta la propria musica in tutti
luoghi in cui essa s’identifica. Nelle terre dove i braccianti agricoli vengono
schiavizzati dal caporalato; con un microfono e le percussioni consente loro di
ritrovare le radici; sognando l’emancipazione. O nelle scuole, come la Pisacane
a Tor Pignattara, in cui il 97% degli studenti è di origine straniera.
Recentemente sono diventati attori per un giorno, realizzando con gli
universitari della Rome University of Fine Arts un videoclip del brano Kingston,
che è un richiamo forte ai diritti dell’infanzia negati. L’album esplora
molteplici sonorità con tredici musicisti, provenienti da cinque paesi diversi,
che eseguono brani originali e rivisitazioni di canzoni simbolo del continente
africano.
«Vado spesso in quella scuola - conclude Joyeux -. I ragazzi
hanno mostrato un’incredibile naturalezza sul set. Chi nega il cosmopolitismo
non conosce il passato e non comprende il senso di marcia dell’essere umano; si
oppone all’evidenza. L’eredità coloniale presenta ancora il conto alla Francia.
Si respira rabbia nella banlieue, anche se manca la coscienza politica.
L’Italia è in tempo per scegliere politiche virtuose, dalle quali dipenderà la
costruzione di una società inclusiva e plurale».
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