giovedì 11 dicembre 2014

Spike Lee: «Negli Usa cresce la rabbia, battiamoci contro il razzismo. Un film sulla rivolta»

Il Messaggero, sezione Cultura&Spettacoli pag. 1-27,
11 dicembre 2014

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

L’INTERVISTA
A chi gli domanda per quale squadra di calcio faccia il tifo, Spike Lee risponde a propria volta con un'interrogazione: «Chi ha dipinto e a quale epoca risalgano gli affreschi di Palazzo Barberini?». Ieri, ospite della nona edizione della rassegna Il gioco serio dell'arte curata da Massimiliano Finazzer Flory, ha incontrato il pubblico romano, prima di godersi un rapido tour italiano all'insegna dello sport. Prima allo stadio Olimpico per la Champions League: «D'abitudine parteggio per il Manchester United, dunque una ragione in più per sostenere la Roma». Il suo nuovo film Sweet Blood Of Jesus parlerà di persone dipendenti dal sangue pur non essendo vampiri, «un'allegoria». Ma l'occasione è propizia per cercare di capire con il regista di Malcolm X che cosa stia avvenendo Oltreoceano, dove cresce il subbuglio per il susseguirsi di casi di uccisione di giovani afroamericani da parte della polizia.

Nei mesi scorsi, all'indomani della morte di Eric Garner, lei ha montato un breve video, che sovrappone le immagini di questo omicidio con quelle girate per Fa' la cosa giusta (1989), in cui l'afroamericano Radio Raheem viene strangolato con il manganello da un poliziotto. Trent'anni sono trascorsi invano?
«Qualcosa è cambiato, qualcos'altro evidentemente no. Nella relazione tra le forze di polizia e gli afroamericani, o le comunità ispaniche e asiatiche, permane un antico, odioso, retaggio violento. È deprimente che dopo venticinque anni su questo fronte non siano stati compiuti progressi significativi».

Lunedì Obama, nel corso di un'intervista al canale Black Entertainment Television, ha ammesso che il razzismo sia una malapianta ancora profondamente radicata nella società statunitense. Ha invitato i giovani a perseverare nella lotta contro la discriminazione, rinunciando alla violenza. Si ripropone il bivio che divise il reverendo King da Malcom X?
«In America molte persone sono arrabbiate. E mi piace affermare, senza paura di essere smentito, che non si tratta solo dei neri. Quand'è che prevarrà la giustizia? Se gli Stati Uniti suppongono di essere il faro mondiale dei sistemi democratici ciò non è ammissibile. Già le scelte politiche e militari post 11 settembre hanno messo molte presunte certezze in discussione. Non è il momento di riproporre quello schema. Il presidente Obama ha detto che si può e deve manifestare pacificamente. Non è di nessuna utilità alla causa appiccare il fuoco nel tuo quartiere o al vicinato. E non posso che essere d'accordo con lui. Posso aggiungere una cosa?»

Prego.
«L'interpretazione di Denzel Washington nel biopic Malcom X è stata una delle migliori nella storia del cinema. Avrebbe dovuto vincere l'Oscar. Lo ricordi».

Le manifestazioni possono contribuire al cambiamento?
«I gruppi di protesta, che hanno fatto il giro delle televisioni nel mondo, sono assai trasversali e compositi. Sono nutriti e uniti dal sentimento di incomprensione e rabbia verso l'amministrazione della giustizia, nello specifico nella figura del Grand jury. Non mi arrogo il ruolo di portavoce di nessuno, ma ho preso parte alle proteste a Staten Island. Sono sceso in strada con la mia bicicletta, e mi ha colpito l'energia vitale di quel movimento. Insomma i giovani credono ancora nel futuro».

Le decisioni dei Grand jury di Missouri e New York di non incriminare i responsabili delle morti di Michael Brown ed Eric Garner ci dicono che lo Stato, come altrove, rinuncia a giudicare se stesso?
«La mancata incriminazione dei poliziotti è un atto grave. Il legame del Grand jury con la polizia è promiscuo, tale che non lavorino duro, andando fino in fondo per la ricerca della verità. A comandare è la polizia, che non viene messa in stato d'accusa. In questi casi la giurisdizione dovrebbe passare a procuratori speciali, che garantiscano di essere sopra le parti».

Lei immagina di raccontare questa rivolta nella veste di documentarista?
«Molti mi chiedono di farlo. E ci sto seriamente pensando».

Lo sport nel cinema è spesso il pretesto per narrare altro. Nel suo He got game il basket divenne metafora di libertà, emancipazione e perfino redenzione. L'invasività nello sport della diretta televisiva e del suo linguaggio sta sottraendo le possibilità del cinema?
«No. Non intravedo questo rischio. Da sempre ho utilizzato diversi mezzi per rappresentare la mia disciplina preferita e non solo. Il cinema e lo sport moderno nacquero insieme. Nella declinazione dei diversi generi cinematografici offre ancora opportunità narrative».

È uscito recentemente un suo documentario dedicato al coach leggendario Phil Jackson, da qualche mese manager plenipotenziario dei suoi amati New York Knicks. Riuscirà a risollevarne le sorti?
«Domanda terribile. Prego affinché riesca in una missione quasi impossibile. Mi manca il vostro giocatore più forte, Gallinari, passato a Denver».


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