di Gabriele Santoro
«(…) Intanto
riesci sempre a farmi sorridere. Il tuo mancato arresto dopo la
battuta sui sospetti che stanno nei comitati centrali dimostra un po’
di inefficienza nell’apparato di polizia. È abbastanza normale
stare in prigione nei regimi dispotici per reati di pensiero e di
opinione. È ben più strano e amaro il carcere per gli stessi reati
sotto le belle luci della ribalta democratica», scrisse qualche anno
fa Erri De Luca all’amico fraterno, poeta bosniaco Izet Sarajlić.
Il 16 marzo lo
scrittore napoletano sarà interrogato dalla pubblica accusa nel
processo che a Torino lo vede accusato di istigazione a delinquere.
Nel settembre del 2013 la ditta costruttrice della linea Tav
Torino-Lione annuncia e poi sporge denuncia contro De Luca presso la
procura della Repubblica del capoluogo piemontese. La querela si basa
su frasi da lui rilasciate agli organi di stampa Huffington Post
Italia e Ansa. Il querelante estrae dalle interviste due passaggi.
Dalla prima: «La Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano:
sono utili a tagliare le reti. Nessun terrorismo. Hanno fallito i
tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è
l’unica alternativa». Dalla seconda: «Resto convinto che il Tav
sia un’opera inutile e continuo a pensare che sia giusto sabotare
quest’opera».
De Luca, in che
modo racconterebbe al suo amico Izet Sarajlić il procedimento che la
vede imputato?
«Intanto lui
commenterebbe questo processo con uno di quei sorrisi che gli
disegnavano il volto. Per poi aggiungere che il Novecento continua a
prolungare le proprie ombre sul secolo seguente. Ci illudevamo che le
incriminazioni degli scrittori restassero materia di studio
novecentesca. Mi è toccato in sorte di dover trattare questa specie
di malattia civile, nella quale interpreto il malato ma pure il
medico. Quest’ultimo sostiene che si deve arrivare il più presto
possibile alla sentenza, e la mia difesa si muove nella direzione
indicata. Nell’eventualità di verdetto avverso ripeto qui che non
ricorrerò in appello. Il reato di parola contraria non necessita di
seconda udienza. Qui si processa uno scrittore per le sue frasi.
Vorrei essere l’ultimo a cui accade in Italia».
Nella Parola
contraria afferma di aspirare all’istigazione di un sentimento di
giustizia. Una giustizia nuova che si forma dal basso e sbatte contro
la tutt’altra giustizia seduta sullo scranno del tribunale. Che
cosa significa? Non le pare un passaggio scivoloso?
«Il passaggio
citato intende stabilire una differenza tra giustizia e legalità.
Considerano legale il fatto che l’Ilva di Taranto abbia potuto
avvelenare un’area urbana, oltretutto senza dover neanche
rimborsare i danneggiati. Considerano legale scavare una montagna
piena di amianto. Considerano legale imporre a Terzigno una discarica
senza impermeabilizzazione, sfruttando diciotto deroghe per arrivare
a un risultato catastrofico. Esiste una legalità che è
intrinsecamente criminale, contro la quale talvolta reagisce una
volontà popolare di correzione: l’applicazione di giustizia, di
un’altra giustizia».
Nel testo
evidenzia una debolezza di fondo dell’impianto accusatorio. In
sintesi, perché si dia istigazione alla violenza bisogna dimostrare
la connessione diretta tra parole e azioni derivanti.
«L’osservazione
non è mia, ma è stata espressa a mezzo stampa dal docente di
diritto costituzionale Gaetano Azzariti. “Sul caso De Luca la
pubblica accusa deve dimostrare che quelle parole siano diventate
operative in fatti connessi”, ha detto. E questo la pubblica accusa
non riesce a farlo. Da istigatore mi sarei aspettato una lista di
istigati e di crimini commessi dai presunti istigati. Non c’è
nessuno. Si tratta di un’istigazione astratta, sostanzialmente
vuota. Nessuna circostanza della mia vita può servire a farmi
passare da mandante o da mandato. Se avessi inteso il verbo sabotare
in senso di danneggiamento materiale, dopo averlo detto sarei andato
a farlo. Rivendico il diritto di adoperare quel verbo come pare e
piace alla lingua italiana. Il suo impiego non è ristretto al
significato di danneggiamento materiale, come pretendono i pubblici
ministeri. Nella prima parte dell’udienza preliminare formularono
una patetica richiesta all’ufficio politico della questura:
segnalare degli episodi che sarebbero avvenuti in seguito alla mia
intervista all’Huffington Post. Come se la lotta della Val di Susa
fosse scaturita dalle mie dichiarazioni del settembre 2013. Questa
incriminazione è un abuso. Vedremo come va a finire, non lo so».
Ha chiesto nei
termini previsti alla pubblica autorità di costituirsi parte civile
contro di lei?
«L’ho fatto,
perché hanno definito opera strategica la linea Tav in Val di Susa.
L’aggettivo strategico ha delle conseguenze militari. Quell’area
è sottratta militarmente al dissenso. È un’area in cui si
impiegano mezzi militari. Dunque, incriminato a causa della denuncia
di una ditta privata, mi sarei aspettato che i ministeri coinvolti,
attraverso l’Avvocatura dello Stato, si costituissero parte civile
contro di me. Hanno deciso di non farlo. Per lo Stato ho parlato
liberamente, non hanno intravisto nessuna conseguenza penale. Qualora
condannato avrei voluto ripagare lo Stato e non una ditta privata».
Con quale stato
d’animo asserisce nel libro che un pubblico ufficio di magistrati
della Procura di Torino si muova a difesa privata della società Ltf
sas? Non è grave mettere in discussione l’imparzialità propria
del pm, cioè libero da pregiudizi in relazione alle parti e
all’oggetto del processo?
«Nel mio caso la
ditta ha indirizzato la denuncia in modo diretto a dei pubblici
ministeri con nomi e cognomi, come se potesse sceglierseli
all’interno della procura di Torino. Come se avesse una sorta di
ufficio legale a propria tutela dentro alla procura della Repubblica.
E poi effettivamente sono stati quei due pubblici ministeri ad
avviare il procedimento giudiziario. Quella sede giudiziaria ha una
linea di preferenza nei confronti della Tav ed esprime una linea di
repressione del movimento di massa che vi si oppone. Negli ultimi
anni hanno prodotto oltre mille incriminazioni per varie imputazioni.
Dunque sì la Procura è schierata. Anche per le recenti condanne
emesse contro attivisti incensurati, il tribunale torinese non ha
ritenuto di concedere le attenuanti generiche. È un atto politico
che sta a dimostrare la volontà di repressione di cui ho accennato».
La principale
ragione d’opposizione all’opera afferisce alla tutela ambientale
e alla salute pubblica?
«È un treno a
bassa velocità. Vogliono perforare delle montagne che sono piene di
rocce amiantifere. Si stima che il tunnel base, che si aprirà nel
Comune di Susa, comporterà l’asportazione di 320mila tonnellate di
rocce amiantifere. Pensiamo poi a tutto il materiale volatile che la
perforazione disperderebbe. Non esito a definirla una catastrofe
ambientale studiata e praticata deliberatamente. Si manifesta una
volontà criminale di danneggiare una popolazione oltre che l’aria,
l’acqua, il suolo di quella vallata. Per questo motivo seppure
fosse un’opera indispensabile, la più urgente, non andrebbe
realizzata. L’aggravante è che ci troviamo davanti a un progetto
sostanzialmente inutile. L’interesse unico è di lucrare, come
sempre avviene nei cantieri delle grandi opere pubbliche italiane».
Che cosa l’ha
avvicinata al movimento?
«La repressione
violenta di assembramenti e presidi pacifici, come avvenne in una
notte buia a Venaus, ha rappresentato uno sfregio, uno schiaffo alla
mia coscienza di cittadino, che mi ha fatto schierare fisicamente al
fianco di quella lotta».
Ritiene che il
conflitto con la costruzione di una prospettiva politica abbia
agevolato la longevità del No Tav?
«Ecco, la
repressione ha due sbocchi: sgombera o rinvigorisce la protesta.
Talvolta riesce a scoraggiare, a disperdere. In Val di Susa non c’è
riuscita. Ha saldato le fibre della comunità di quella vallata, che
esteriorizzava diverse sensibilità. C’era anche chi era
potenzialmente favorevole all’opera. Quella repressione ha
rinsaldato il movimento di lotta e ha generato resistenza».
Il rischio di
strumentalizzazioni, di infiltrazioni, di una pericolosa deriva
violenta lei non l’ha mai percepito?
«Gli episodi in
cui si è usciti dal seminato sono stati pochi e marginali, molto
enfatizzati sì. Se volevano infiltrare, ci sono riusciti poco.
L’opera non è stata bloccata, ritardata, ostacolata e sabotata
finora da danneggiamenti o scontri, bensì dalla volontà politica di
quella vallata. Dall’unità civile di una comunità che tiene
insieme tutti gli strati della società e anche tutte le generazioni,
dal ragazzino di scuola al vecchio partigiano. Lì ho potuto
assistere a una lezione di unità e di democrazia».
Lei ha una
certezza: il Tav Torino-Lione non vedrà mai la luce.
Nell’eventualità si sbagliasse, come si può ricomporre la
frustrazione di chi ha dedicato anni e porta i segni di
un’opposizione?
«Per il momento
non constato un effetto scaturito dalle detenzioni. Anche su chi ha
già scontato isolamento e pene severe. Hanno retto l’impatto,
sapendo che fuori c’è una solidarietà molto forte. La condizione
generale di sovraffollamento dei penitenziari si è alleggerita per
non dover pagare il conto all’Europa. Questa urgenza è
parzialmente scemata, ma vorrei dire che le condizioni delle nostre
carceri permangono pessime. Date le situazioni in cui versano non
esito a parlare di istigazione al suicidio».
Le è successo di
chiedere perdono ai sogni?
«Credo che nel
corso dell’esistenza l’individuo possa cambiare idea su sé
stesso, qualora sia un cambiamento intimo. La profondità della
riflessione coincide con il fatto che ci vai a rimettere qualcosa.
Nel caso contrario l’operazione è perlomeno sospetta. Non si
rinnega e vende il passato per il proprio tornaconto. Se potessi
incrociare il giovane che sono stato, vorrei che quel giovane
riconoscesse in me il seguito della sua vita. Ho dei sentimenti di
lealtà nei confronti delle ragioni di quella generazione e di quel
lungo periodo di lotte politiche e sociali. Leale sì, fedele no. La
fedeltà attiene alla comunità, perché la faccenda era collettiva.
La comunità non c’è più, dunque è svanita la fedeltà fisica,
ma la lealtà resta».
È un estremista
triste? È vero che non sorride mai?
«Non mi piace
ridere soltanto nelle fotografie, quelle in cui mi domandano di
mettermi in falsa posa».