domenica 22 febbraio 2015

«Qui si processa uno scrittore per le sue frasi. Vorrei essere l’ultimo». Intervista a Erri De Luca


di Gabriele Santoro

«(…) Intanto riesci sempre a farmi sorridere. Il tuo mancato arresto dopo la battuta sui sospetti che stanno nei comitati centrali dimostra un po’ di inefficienza nell’apparato di polizia. È abbastanza normale stare in prigione nei regimi dispotici per reati di pensiero e di opinione. È ben più strano e amaro il carcere per gli stessi reati sotto le belle luci della ribalta democratica», scrisse qualche anno fa Erri De Luca all’amico fraterno, poeta bosniaco Izet Sarajlić.

Il 16 marzo lo scrittore napoletano sarà interrogato dalla pubblica accusa nel processo che a Torino lo vede accusato di istigazione a delinquere. Nel settembre del 2013 la ditta costruttrice della linea Tav Torino-Lione annuncia e poi sporge denuncia contro De Luca presso la procura della Repubblica del capoluogo piemontese. La querela si basa su frasi da lui rilasciate agli organi di stampa Huffington Post Italia e Ansa. Il querelante estrae dalle interviste due passaggi. Dalla prima: «La Tav va sabotata. Ecco perché le cesoie servivano: sono utili a tagliare le reti. Nessun terrorismo. Hanno fallito i tavoli del governo, hanno fallito le mediazioni: il sabotaggio è l’unica alternativa». Dalla seconda: «Resto convinto che il Tav sia un’opera inutile e continuo a pensare che sia giusto sabotare quest’opera».

Nel febbraio di un anno fa De Luca riceve copia dell’avviso di essere indagato. Il 5 giugno 2014 si svolge a porte chiuse l’udienza preliminare, durante la quale la difesa non chiede il ricorso al rito abbreviato. Quattro giorni dopo il giudice stabilisce il rinvio al giudizio al 28 gennaio scorso. Il senatore Luigi Manconi, fra gli altri, pone in merito una domanda centrale nella sua semplicità: «È mai possibile che vi sia ancora qualcuno che voglia la condanna di Erri De Luca per le parole da lui pronunciate?» L’autore di Montedidio affida la personale interpretazione e risposta sulla vicenda alle righe del pamphlet La parola contraria (Feltrinelli, 62 pagine, 4 euro).

De Luca, in che modo racconterebbe al suo amico Izet Sarajlić il procedimento che la vede imputato?
«Intanto lui commenterebbe questo processo con uno di quei sorrisi che gli disegnavano il volto. Per poi aggiungere che il Novecento continua a prolungare le proprie ombre sul secolo seguente. Ci illudevamo che le incriminazioni degli scrittori restassero materia di studio novecentesca. Mi è toccato in sorte di dover trattare questa specie di malattia civile, nella quale interpreto il malato ma pure il medico. Quest’ultimo sostiene che si deve arrivare il più presto possibile alla sentenza, e la mia difesa si muove nella direzione indicata. Nell’eventualità di verdetto avverso ripeto qui che non ricorrerò in appello. Il reato di parola contraria non necessita di seconda udienza. Qui si processa uno scrittore per le sue frasi. Vorrei essere l’ultimo a cui accade in Italia».

Nella Parola contraria afferma di aspirare all’istigazione di un sentimento di giustizia. Una giustizia nuova che si forma dal basso e sbatte contro la tutt’altra giustizia seduta sullo scranno del tribunale. Che cosa significa? Non le pare un passaggio scivoloso?
«Il passaggio citato intende stabilire una differenza tra giustizia e legalità. Considerano legale il fatto che l’Ilva di Taranto abbia potuto avvelenare un’area urbana, oltretutto senza dover neanche rimborsare i danneggiati. Considerano legale scavare una montagna piena di amianto. Considerano legale imporre a Terzigno una discarica senza impermeabilizzazione, sfruttando diciotto deroghe per arrivare a un risultato catastrofico. Esiste una legalità che è intrinsecamente criminale, contro la quale talvolta reagisce una volontà popolare di correzione: l’applicazione di giustizia, di un’altra giustizia».

Nel testo evidenzia una debolezza di fondo dell’impianto accusatorio. In sintesi, perché si dia istigazione alla violenza bisogna dimostrare la connessione diretta tra parole e azioni derivanti.
«L’osservazione non è mia, ma è stata espressa a mezzo stampa dal docente di diritto costituzionale Gaetano Azzariti. “Sul caso De Luca la pubblica accusa deve dimostrare che quelle parole siano diventate operative in fatti connessi”, ha detto. E questo la pubblica accusa non riesce a farlo. Da istigatore mi sarei aspettato una lista di istigati e di crimini commessi dai presunti istigati. Non c’è nessuno. Si tratta di un’istigazione astratta, sostanzialmente vuota. Nessuna circostanza della mia vita può servire a farmi passare da mandante o da mandato. Se avessi inteso il verbo sabotare in senso di danneggiamento materiale, dopo averlo detto sarei andato a farlo. Rivendico il diritto di adoperare quel verbo come pare e piace alla lingua italiana. Il suo impiego non è ristretto al significato di danneggiamento materiale, come pretendono i pubblici ministeri. Nella prima parte dell’udienza preliminare formularono una patetica richiesta all’ufficio politico della questura: segnalare degli episodi che sarebbero avvenuti in seguito alla mia intervista all’Huffington Post. Come se la lotta della Val di Susa fosse scaturita dalle mie dichiarazioni del settembre 2013. Questa incriminazione è un abuso. Vedremo come va a finire, non lo so».

Ha chiesto nei termini previsti alla pubblica autorità di costituirsi parte civile contro di lei?
«L’ho fatto, perché hanno definito opera strategica la linea Tav in Val di Susa. L’aggettivo strategico ha delle conseguenze militari. Quell’area è sottratta militarmente al dissenso. È un’area in cui si impiegano mezzi militari. Dunque, incriminato a causa della denuncia di una ditta privata, mi sarei aspettato che i ministeri coinvolti, attraverso l’Avvocatura dello Stato, si costituissero parte civile contro di me. Hanno deciso di non farlo. Per lo Stato ho parlato liberamente, non hanno intravisto nessuna conseguenza penale. Qualora condannato avrei voluto ripagare lo Stato e non una ditta privata».

Con quale stato d’animo asserisce nel libro che un pubblico ufficio di magistrati della Procura di Torino si muova a difesa privata della società Ltf sas? Non è grave mettere in discussione l’imparzialità propria del pm, cioè libero da pregiudizi in relazione alle parti e all’oggetto del processo?
«Nel mio caso la ditta ha indirizzato la denuncia in modo diretto a dei pubblici ministeri con nomi e cognomi, come se potesse sceglierseli all’interno della procura di Torino. Come se avesse una sorta di ufficio legale a propria tutela dentro alla procura della Repubblica. E poi effettivamente sono stati quei due pubblici ministeri ad avviare il procedimento giudiziario. Quella sede giudiziaria ha una linea di preferenza nei confronti della Tav ed esprime una linea di repressione del movimento di massa che vi si oppone. Negli ultimi anni hanno prodotto oltre mille incriminazioni per varie imputazioni. Dunque sì la Procura è schierata. Anche per le recenti condanne emesse contro attivisti incensurati, il tribunale torinese non ha ritenuto di concedere le attenuanti generiche. È un atto politico che sta a dimostrare la volontà di repressione di cui ho accennato».

La principale ragione d’opposizione all’opera afferisce alla tutela ambientale e alla salute pubblica?
«È un treno a bassa velocità. Vogliono perforare delle montagne che sono piene di rocce amiantifere. Si stima che il tunnel base, che si aprirà nel Comune di Susa, comporterà l’asportazione di 320mila tonnellate di rocce amiantifere. Pensiamo poi a tutto il materiale volatile che la perforazione disperderebbe. Non esito a definirla una catastrofe ambientale studiata e praticata deliberatamente. Si manifesta una volontà criminale di danneggiare una popolazione oltre che l’aria, l’acqua, il suolo di quella vallata. Per questo motivo seppure fosse un’opera indispensabile, la più urgente, non andrebbe realizzata. L’aggravante è che ci troviamo davanti a un progetto sostanzialmente inutile. L’interesse unico è di lucrare, come sempre avviene nei cantieri delle grandi opere pubbliche italiane».

Che cosa l’ha avvicinata al movimento?
«La repressione violenta di assembramenti e presidi pacifici, come avvenne in una notte buia a Venaus, ha rappresentato uno sfregio, uno schiaffo alla mia coscienza di cittadino, che mi ha fatto schierare fisicamente al fianco di quella lotta».

Ritiene che il conflitto con la costruzione di una prospettiva politica abbia agevolato la longevità del No Tav?
«Ecco, la repressione ha due sbocchi: sgombera o rinvigorisce la protesta. Talvolta riesce a scoraggiare, a disperdere. In Val di Susa non c’è riuscita. Ha saldato le fibre della comunità di quella vallata, che esteriorizzava diverse sensibilità. C’era anche chi era potenzialmente favorevole all’opera. Quella repressione ha rinsaldato il movimento di lotta e ha generato resistenza».

Il rischio di strumentalizzazioni, di infiltrazioni, di una pericolosa deriva violenta lei non l’ha mai percepito?
«Gli episodi in cui si è usciti dal seminato sono stati pochi e marginali, molto enfatizzati sì. Se volevano infiltrare, ci sono riusciti poco. L’opera non è stata bloccata, ritardata, ostacolata e sabotata finora da danneggiamenti o scontri, bensì dalla volontà politica di quella vallata. Dall’unità civile di una comunità che tiene insieme tutti gli strati della società e anche tutte le generazioni, dal ragazzino di scuola al vecchio partigiano. Lì ho potuto assistere a una lezione di unità e di democrazia».
Lei ha una certezza: il Tav Torino-Lione non vedrà mai la luce. Nell’eventualità si sbagliasse, come si può ricomporre la frustrazione di chi ha dedicato anni e porta i segni di un’opposizione?
«Cantavamo Noi non ci saremo. Per completare l’opera servirebbero così tanti anni, che io in ogni caso non riuscirei a vederne l’epilogo. Le evidenze acquisite dicono che non ce la faranno, ma in realtà ciò gli interessa relativamente. L’obiettivo è ramazzare quanto più denaro pubblico possibile, da spartire fra le ditte che si interfacciano con il potere politico. La mancata finalizzazione della Tav non sorprenderebbe nessuno. Da noi è come un modello economico di sviluppo: spendere denaro pubblico per foraggiare ditte private a prescindere da qualunque funzionamento e utilità dell’opera progettata. Paghiamo con denaro vero i castelli in aria. Qui si palesa un totale conflitto, o meglio convergenza, d’interessi sulle opere pubbliche, che non ci risparmia neanche il coinvolgimento delle mafie».

Quali riflessi collettivi potrà avere il carcere sul movimento?
«Per il momento non constato un effetto scaturito dalle detenzioni. Anche su chi ha già scontato isolamento e pene severe. Hanno retto l’impatto, sapendo che fuori c’è una solidarietà molto forte. La condizione generale di sovraffollamento dei penitenziari si è alleggerita per non dover pagare il conto all’Europa. Questa urgenza è parzialmente scemata, ma vorrei dire che le condizioni delle nostre carceri permangono pessime. Date le situazioni in cui versano non esito a parlare di istigazione al suicidio».

Le è successo di chiedere perdono ai sogni?
«Credo che nel corso dell’esistenza l’individuo possa cambiare idea su sé stesso, qualora sia un cambiamento intimo. La profondità della riflessione coincide con il fatto che ci vai a rimettere qualcosa. Nel caso contrario l’operazione è perlomeno sospetta. Non si rinnega e vende il passato per il proprio tornaconto. Se potessi incrociare il giovane che sono stato, vorrei che quel giovane riconoscesse in me il seguito della sua vita. Ho dei sentimenti di lealtà nei confronti delle ragioni di quella generazione e di quel lungo periodo di lotte politiche e sociali. Leale sì, fedele no. La fedeltà attiene alla comunità, perché la faccenda era collettiva. La comunità non c’è più, dunque è svanita la fedeltà fisica, ma la lealtà resta».

È un estremista triste? È vero che non sorride mai?
«Non mi piace ridere soltanto nelle fotografie, quelle in cui mi domandano di mettermi in falsa posa».

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