giovedì 27 agosto 2015

Chiederò perdono ai sogni, un romanzo di padri e di figli


di Gabriele Santoro

– Verrà quel giorno, – disse il vecchio guardando Milton con troppa intensità.
– Certo che verrà, – rispose Milton e richiuse la bocca.
Ma il vecchio insisteva a fissarlo con un’avidità insoddisfatta, forse praticamente insaziabile.
– Certo che verrà, ripeté Milton.
– E allora, – disse il vecchio, – non ne perdonerete nemmeno uno, voglio sperare.
– Nemmeno uno, – disse Milton. – Siamo già intesi.
Una questione privata, Beppe Fenoglio

Quel giorno Jack era bello come la collera, sostenne Tyrone. Aveva gli occhi lucidi propri delle ultime volte. Le spalle larghe portavano il peso di una radice recisa. Jack disse al padre che non l’avrebbe più potuto chiamare figlio mio. Ora era un figlio di nessuno. «Era Tyrone Meehan, mio padre. Un cazzo di eroe, sì! A Belfast nessuno più pronuncia il tuo nome». Jack, ti voglio bene, ha ripetuto l’altro fino all’ultimo sguardo.

«I bambini arrivarono urlando, lanciando i sassi sui marciapiedi e spaccando le bottiglie contro il muro: “Arrivano i poliziotti! Entrano nel quartiere!”, gridò un piccoletto in maglia da calcio. Era sporco di fuliggine e sudore. Lo fermai. Stava tremando. “Mollalo veloce!” Guardò il mattone che teneva in mano e lo lasciò cadere. “Forza, di corsa!” Torna a casa da tuo padre!” “È in galera, mio padre!”, strillò il bambino correndo via». Correva l’anno 1969. Era quasi ferragosto nel quartiere nazionalista di Bogside a Derry, quando gli estremisti protestanti e la polizia nordirlandese, la Ruc, oggi PSNI, sferrarono un nuovo attacco: cinquecento case incendiate, millecinquecento persone sfollate, nove morti, il bilancio di tre giornate di battaglia.

Tyrone Meehan, già quarantaquattrenne, combattente di rilievo dell’Irish Republican Army e poi membro di spicco dello Sinn Féin, era dentro quell’ennesimo intreccio di rabbia, sangue e dolore. La gente del ghetto cattolico invocava la difesa dell’IRA, i volontari godevano del sostegno popolare. Quel giorno d’agosto sulle barricate Tyrone divenne un eroe, una medaglia luccicante sul petto. Cadde prigioniero del ricatto di una storia sbagliata, dei britannici, del suo esercito e della verità che della guerra è sempre la prima vittima. Lo ricorderanno come un traditore. Lui, non più capace di nutrirsi dell’odio, in fondo forse si limitò a chiedere perdono ai propri sogni.

«(…) Domenica ho avuto con me il bambino. Dice che quando sarà grande diventerà un volontario e ti tirerà fuori da quel posto orribile. Che Dio lo aiuti», scrisse la madre di Bobby Sands in una lettera giunta censurata al figlio, condannato nel 1977 a 14 anni di reclusione per possesso di armi da fuoco, detenuto e torturato nel campo di concentramento di Long Kesh.


Sorj Chalandon è riuscito a rendere testimonianza puntuale una questione privata, disegnando con precisione il quadro storico di un conflitto dalle proporzioni interiori ed esteriori enormi, che nel trentennio dagli anni Settanta agli albori del ventunesimo secolo ha fatto 3600 vittime e cinquantamila feriti, senza calcolare i danni psicologici. Chiederò perdono ai sogni (Keller, 286 pagine, 16.50 euro, traduzione di Silvia Turato) è un romanzo magnifico, struggente. È un romanzo di padri e di figli. Narra le necessità del rancore e del perdono impossibile. L’autore riapre ferite che hanno la misura dell’abisso, ed è interessante l’equilibrio trovato fra la realtà e quella narrativa.
Il protagonista della vicenda, il repubblicano Denis Donaldson, Tyrone Meehan per il lettore, dagli anni Ottanta confidente sotto scacco del controspionaggio britannico, l’MI5, e della polizia Special Branch focalizzata sull’Irlanda del Nord, è stato amico fraterno dello scrittore, a lungo corrispondente da Belfast per Libération. La scrittura non ha la pretesa di svelare le ragioni intime di un tradimento, seppure in qualche modo le raffiguri, mentre ha il coraggio di non arrendersi all’oblio, di interrogare i tormenti nella coscienza di una guerra considerata di liberazione.

Chalandon scrive con passione quel che sa di una vicenda, anche personalmente dolorosa, dall’epilogo violento dai contorni ancora oscuri. Due anni dopo l’esecuzione del traditore, Real Ira ha rivendicato l’omicidio punitivo, ma le indagini proseguono da nove anni. Sono oltre trecento le persone interrogate, novecento le lines of inquiry. Secondo gli inquirenti l’inchiesta è attiva ed è arrivata al quindicesimo supplemento d’indagine, che scadrà il due settembre. La famiglia ha accusato la Garda Síochána (la polizia della Repubblica d’Irlanda) per questo lento protrarsi. E ha messo all’indice la generale assenza della volontà politica di fare luce su quello che Gerry Adams, guida dell’ascesa dello Sinn Féin e del processo politico di allontanamento dalle sue originarie tendenze militariste, l’indomani del ritrovamento del cadavere, catalogò come un affare sporco, alludendo a un coinvolgimento dell’intelligence britannica. «Chi l’ha ucciso è contro il cambiamento. Condanniamo senza riserve il delitto. Ci dissociamo come chiunque supporti il processo di pace», dichiarò. Un caso che illustra molto dell’attuale situazione nordirlandese.

«(…) Dopo essermi compromesso, durante un periodo vulnerabile della mia vita», il combattente superò la linea di confine. A questa frase, pronunciata nella conferenza stampa del 2005 in cui ammise pubblicamente di essere stato una spia, Donaldson non ha aggiunto altro. Restano un mistero le circostanze in cui i servizi segreti lo reclutarono, per poi smascherarlo nel 2002 con un arresto spettacolare nell’ambito di un’operazione di polizia creativa, nota come Stormontgate. Secondo l’accusa Donaldson avrebbe guidato un presunto gruppo di spie della Provisional Irish Republican Army, che all’interno del parlamento di Stormont avrebbe raccolto una grande quantità di documenti e informazioni confidenziali. L’irruzione provocò un terremoto politico e un autentico spaesamento nello Sinn Féin e nei compagni con i quali aveva combattuto.

All’epoca Donaldson amministrava l’ufficio parlamentare del principale partito nazionalista nordirlandese. Negli anni Ottanta aveva diretto le relazioni internazionali del movimento dal Medio Oriente agli Stati Uniti, punto di contatto con l’influente comunità irlandese-americana. Viaggiava per l’Irlanda su mandato di Adams per valutare e selezionare una classe politica leale alla leadership dello Sinn Féin. Insomma era nel cuore delle attività politiche e al contempo una fonte preziosa per il nemico.

Donaldson ha affrontato la solitudine, come la morte. Attese la resa dei conti, l’appuntamento con i suoi assassini il 4 aprile 2006 nella casa del padre a Killybegs. Un luogo primordiale, privo di acqua corrente e luce elettrica, che proteggeva la memoria e lo guariva dalla guerra. Qui il giornalista gioca con i rimandi e salti temporali di un diario scritto da Donaldson nelle ultime settimane di vita, rinvenuto e secretato dalle autorità della Garda. Invano la famiglia, mediante i propri rappresentanti legali, chiede l’accesso al contenuto, a quelle righe che potrebbero spiegare qualcosa.

Tyrone lavò via la scritta catramata: TRADITORE. Il padre Patraig Meehan parlava la lingua gaelica, perché significava resistere. Lo rassicurava, perché in paradiso si parlava gaelico e anche là la pioggia sottile aveva il gusto del miele. «Quando cantava la nostra terra, tutti stavano a testa alta con gli occhi che si riempivano di lacrime. Ancor prima di essere cattivo, mio padre era un poeta irlandese». Non si era arreso allo smembramento dell’Irlanda, al Trattato del 1921 che sanciva la nascita dell’entità delle sei contee e alle armi deposte dall’Ira nel ’23. Un óglach dalla fierezza cristallina, un insubordinato, un refrattario nel nuovo Stato libero d’Irlanda. Pat morì con i sassi nelle tasche. Lasciò Tyrone orfano, non della sua lotta.

Fra i personaggi laterali del romanzo colpisce Tom Williams, diciott’anni senza infanzia. In lui Chalandon sembra aver voluto condensare i torti d’ottocento anni dell’ingerenza oppressiva britannica su un popolo che, ben prima del senso moderno di nazione, possedeva un’unità, un’identità culturale. Nelle membra dell’adolescente si vivificano l’espropriazione e l’accentramento delle terre operati da Enrico VIII, le parole d’imperio della figlia Elisabetta I che rese effettivo il controllo inglese: «Desideriamo che voi cerchiate di condurre quella barbara e rozza nazione alla civiltà con le buone maniere; tuttavia quando le circostanze lo impongano, dovete piegare con la forza coloro che non possono essere persuasi con la ragione»; la colonizzazione dell’Ulster, la provincia più compattamente gaelica e cattolica, con i capitali delle compagnie della City e i coloni inglesi, scozzesi; il genocidio e la deportazione attuati da Oliver Cromwell; la vetusta marcia Orangista, in scena ogni dodici di luglio, a celebrare la vittoria di Guglielmo III contro il deposto re cattolico Giacomo II nella battaglia del fiume Boyne nel luglio 1690, che sancì la conquista dell’Irlanda da parte dell’Inghilterra. Il volto scarnificato di Tom figurava la stessa miseria della Grande carestia.

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