domenica 9 agosto 2015

Essere Michael Jordan


di Gabriele Santoro

«Quando dice che “spiccò” il volo intende dire che scappò, vero? Fuggì?»
«No, intendo dire che volò via. Oh, sono tutte sciocchezze, sa, ma secondo la storia non scappò. Volò via. Solomon sapeva volare. Sa, come un uccello. Un giorno in cui era nei campi prese, corse in cima alla collina, fece un paio di giri su se stesso e si librò nell’aria. Tornò là da dove veniva. Lassù c’è un grande masso con due cocuzzoli che domina la vallata: porta il suo nome».

Canto di Salomone, Toni Morrison

Quand’è che saltare diventa volare? Michael Jordan amava che gli ponessero questa domanda. Ha cercato la risposta a lungo, invano, donandoci la grazia e i brividi dell’illusione propria del volo umano. Walter Ioos, fotografo di Sports Illustrated, ha provato a catturare lo spazio di quel secondo in sospeso. A Chicago, durante la gara delle schiacciate dell’All-Star Game 1988, bastò un cenno complice. Ioos era insoddisfatto degli scatti in archivio dall’anno precedente. Lo avvicinò tre ore prima del decollo: «Vorrei conoscere in anticipo la direzione che prenderai». Volle ritrarre il disegno delle contrazioni del suo volto. «Certo, te la indicherà il mio dito indice sul ginocchio. Te ne ricorderai?», gli disse. Poi lo fece spostare leggermente a destra per la condivisione di una fotografia che vantava la pretesa dei segreti.

Il campo da basket è stato il rifugio della coscienza e dell’orizzonte di senso più alto di Jordan. S’innalzava dalla linea del tiro libero per disegnare con elegante supremazia atletica parabole mai osate. Non è una storia semplice. È una storia imperfetta, dunque viva. È una storia da ultimo tiro, che affonda le radici nell’ultimo decennio dell’Ottocento sulle sponde di un villaggio fluviale. Dalla schiavitù razzista alla costruzione di un impero sportivo, economico, che ha segnato in profondità la cultura popolare americana novecentesca.


Il giornalista e docente universitario Roland Lazenby, che da vent’anni scruta e interroga l’alfabeto del mito, restituisce la giusta misura di un’icona globale con il suggestivo, pregevole studio Michael Jordan, la vita (66thand2nd, 784 pagine, 23 euro, traduzione di Giulio Di Martino). L’autore non ha la presunzione della definitività. Esaudisce l’ambizione propria di una ricerca dettagliata, empatica, che non ha misteri da svelare. Questo libro, fondato su una bibliografia sostanziosa e moltissime interviste, non è un’intervista impossibile. Lazenby apre soprattutto uno squarcio interessante sulla formazione del campione, sull’adolescenza del più forte giocatore di pallacanestro di sempre. Non è la celebrazione di un supereroe.

In North Carolina il bisnonno Dawson sopravvisse alla selezione naturale di un mondo primordiale, in cui il padrone bianco credeva di poter continuare a praticare impunemente la sopraffazione. Le zattere assemblate da Dawson per il commercio del legname erano resistenti quanto il suo corpo e la sua anima. Imparò a leggere e a scrivere nello stanzone della “Scuola comune per gente di colore”, gettando il seme di una famiglia nuova. Michael, il bisnipote, lo ha ricordato spesso con commozione: «Era forte. Sì, lo era. Eccome». La fibra era la stessa. Phil Jackson, mente e guida dei Bulls sei volte campioni Nba, la sapeva lunga. Per Natale era solito regalare ai propri giocatori un libro. Non a caso il primo testo destinato a Jordan è stato Canto di Salomone di Toni Morrison. Milkman, il giovane protagonista, compie un viaggio alla conquista della propria identità, così ricca di spiritualità e sogni, che coincide con l’origine della storia afroamericana. Dalla piantagione lo schiavo Solomon aveva spezzato le catene, spiccando il volo verso la terra madre, l’Africa. Il “mito degli africani volanti”. Michael, a modo suo, ha risalito il corso del fiume. Anch’egli ha invertito la rotta della storia.

“Possano i padri alzarsi in volo. E i figli conoscere il proprio nome”.

Nel 1954 James Raymond Jordan e Deloris Peoples, ancora adolescenti, s’incontrarono a una partita di pallacanestro, dove si accese la scintilla. Cavalcarono l’onda dei movimenti per i diritti civili e il clima di una radicale trasformazione culturale. Il 17 febbraio 1963 Michael nacque, perdendo sangue dal naso, in una famiglia del ceto medio, che aveva già acquisito la solidità economica. Un nucleo, che assecondò l’ascesa del prodigio, per poi essere frantumato da sentimenti feroci, dalle denunce post datate di presunti abusi sessuali perpetrati dal padre sulla sorella Sis, da conflitti sulla gestione del patrimonio. Deloris, protettiva e determinatissima, ha avuto un ruolo strategico decisivo nel percorso del figlio minore. All’età di nove anni Michael, avviato al baseball, promise di rimediare alla sconfitta olimpica, in piena Guerra Fredda, degli Usa contro la Russia a Monaco ’72. Promise di impossessarsi della “zona” dell’ultimo tiro di Sergej Alexandrovic Belov. Due anni dopo James gli comprò la prima palla e allestì un campetto casalingo, teatro di interminabili uno contro uno con il fratello Larry, anch’egli cestista promettente.

Lazenby individua in questa competizione, e nella predilezione del padre per il primogenito, una delle fonti dell’inesauribile competitività e voglia di dominare di Michael. Nel cuore degli anni Settanta il ragazzino odiava i bianchi come sedimento di una rabbia e di un dolore antichi. Uno “sporco negro” di troppo provocò la reazione pagata con l’espulsione da scuola: «Mi consideravo un razzista. Mi volevo ribellare». Curò il rancore con l’amore per il gioco e la consapevolezza del talento. Il perdono è un’energia da coltivare lungo la propria strada, quanto la forza di amare. Love of the game, proprio così, fece chiamare una clausola al primo contratto professionistico. Lui, solo lui, avrebbe potuto rispettare la passione, giocando a pallacanestro ovunque. Al rischio di patire infortuni sarebbe potuto scendere in campo a sua discrezione.

L’attendibile cronista Lacy Banks sottolinea come neanche Muhammad Ali sprigionasse la medesima mostruosa quantità di energia di Jordan. Erano storie distanti con attenzioni diverse alla giustizia sociale e alla politica. Gelò chi gli propose di sostenere la candidatura del democratico afroamericano Harvey Gantt, in corsa per il seggio in Senato quale rappresentante del North Carolina: «Anche i repubblicani comprano scarpe. Non sono un politico». Trasversale in quanto libero dalle implicazioni politiche, interessato agli affari, alla carriera o indifferente alle cause sociali?

Non andò mai allo scontro frontale con le contraddizioni, le ipocrisie della società statunitense. Le fece esplodere nelle esultanze e riverenze di chi, magari il giorno successivo alla partita, riprendeva ad alimentare i propri razzismi quotidiani. Le fece implodere, appropriandosi del business della multinazionale che sull’intuizione del mercante visionario Sonny Vaccaro lo aveva reso un oggetto. Michael Jordan trascese la razza, come nessun altro atleta nero. Post racial per usare il termine del suo manager, deus ex machina, David Falk. L’estetica era rassicurante, il lessico mass-mediale ben educato, tanto da renderlo un’icona della cultura popolare di massa.

Accorgersi e valorizzare il talento è un esercizio necessario, che sfugge ai più. Le qualità, per quanto abbaglianti, spesso sfumano nell’indifferenza della moltitudine. Jordan ha ascoltato la propria fortuna: gli allenatori, o meglio i maestri, e i contesti di squadra che seppero decostruire l’egoismo del più forte, codificare per quanto possibile la sua indecifrabilità. «Il mio talento più grande era di essere pronto a imparare. Anche se pensavo che il coach si sbagliasse, provavo ad ascoltare e imparare».

Nell’autunno 1979 Pop Herring prese carta e penna per il suo liceale. Una lettera, un gesto inusuale, per attirare l’interesse di University of North Carolina su un ragazzo, che non aveva indossato ufficialmente la canotta della Laney High School, ma del quale aveva intuito l’attitudine. L’adolescente sognava Magic Johnson, mentre nella selezione della prima squadra venne tenuto fuori dai centimetri di Leroy Smith. Allora la disciplina ruotava intorno ai centri di gravità. Herring lo portava all’alba in palestra, prima della scuola. Spese il proprio impegno per la formazione di quella guardia dall’atletismo straripante, versatile, elegante, tremendamente efficace per gli equilibri difensivi. Lì scelse il numero 23, ma soprattutto apprese la matematica dei grandi incontri.
Herring creò le condizioni affinché Jordan partecipasse all’elitario camp estivo Five Star, una vetrina dove implementare la propria reputazione. Pensavano fosse acerbo, che sarebbe rimasto in panchina: «Saltava sopra alla gente e aveva quel tocco. Emergeva la sua natura competitiva», ricorda lo scout d’eccezione Tom Konchalski. Lì Michael capì che tutto era possibile.

Mike Krzyzewski intendeva inserirlo a qualsiasi costo nel suo mirabile progetto a Duke. Tuttavia il destino era North Carolina, che con l’assistente Bill Guthridge si era messa da tempo sulle sue tracce. Trovò una squadra pronta per vincere e un allenatore che non aveva vinto mai. «Se Michael non fosse stato allievo di Dean Smith non sarebbe diventato così bravo nel gioco di squadra», ricorda Tex Winter. C’era un sistema, un’alchimia, dove il talento si traduceva nella pietra angolare dell’altruismo. Mai più di ventiquattro tiri a serata nei tre anni a NC.

Jordan si adattò alla radicalità di Smith, consolidando il proprio bagaglio di fondamentali. Guadagnò lo spazio senza particolari timidezze. «Buttala dentro Michael!», mormorò alla matricola. Correva l’anno 1982 e Smith comprese che quella era la volta buona. Stavolta l’ultima curva non l’avrebbe tradito. Al Louisiana Superdome North Carolina e Georgetown diedero spettacolo. Si assegnava qualcosa di più del titolo Ncaa. Venne scritto l’incipit della rivoluzione. All’epilogo mancavano una manciata di secondi. Michael andò su con la lingua fuori, morbido il rilascio della palla e il fruscio della retina per la vittoria. Non aveva capito quell’ultimo schema, ma tant’è: «Era già tutto deciso. Dal momento in cui ho segnato quel tiro, qualsiasi altra cosa mi è piovuta tra le mani. Se quel tiro non fosse entrato, non credo che sarei arrivato dove mi trovo oggi».

Gli allenatori, i rispettivi assistenti, seppero trovare le parole, i gesti che valgono la fiducia nel compagno, perché la vittoria è anche una questione di solidarietà. «Michael, chi è libero?» Il serafico Jackson lo ripeté tre volte. Quella volta si era spazientito sul serio. In gara cinque, contro i Lakers di Magic Johnson, la posta in palio era grossa: il primo titolo Nba che aprì il varco all’epopea di Chicago. «Paxson!», rispose dopo un silenzio imbarazzato. «Bene. Allora dagli quella cazzo di palla». Dopo il time out piovvero assist per i cinque canestri decisivi di Paxson. Sette anni di sconfitte ai Bulls avevano composto un mosaico di significati, elaborato un linguaggio comune: «Nella mia vita ho sbagliato più di novemila tiri. Ho perso quasi trecento partite. Ventisei volte i miei compagni mi hanno affidato il tiro decisivo e l’ho sbagliato. Ho fallito molte volte. Ed è per questo che alla fine ho vinto tutto».

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