mercoledì 25 novembre 2015

«Ridare la parola all'impossibile per ottenere il possibile» conversazione con Alfredo Reichlin

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di Gabriele Santoro

Il trenta settembre a Piazza Montecitorio, a pochi passi dal feretro di Pietro Ingrao, la voce di Alfredo Reichlin si è incrinata, rievocando la più grande passione laica, la politica come storia in atto. L’assillo del come non lasciare gli uomini soli davanti alla potenza inaudita del denaro condiviso con “la mente libera, cocciuta e assetata di conoscenza” dell’amico, che ora riposa nella sua Lenola.

La vita del novantunenne Reichlin è stata appassionata e piena. La passione per la vita sta ancora nel cucchiaino di zucchero per il caffè, che mi chiede di riempire per bene, non a metà, e nella pila di libri nuovi da leggere appoggiati sul divano. Qui ci interessa relativamente se è una storia di vinti o vincitori. Nato a Barletta nel 1925, si trasferì bambino a Roma, complice la crisi del ‘29 che aveva travolto la grande fabbrica chimica del nonno. Papà dannunziano, lui si scoprì l’eretico di famiglia. Al liceo divenne comunista. «Farai la fine di Cafiero mi diceva angosciata mia madre alludendo a quel suo parente anarchico, l’amico di Bakunin, di cui non sapeva niente, tranne che era morto pazzo, dopo aver regalato le sue terre ai contadini», ricorda. Non è andata così.


S’iscrisse al Pci dopo la liberazione. Nel 1945 iniziò a lavorare all’Unità, per poi diventarne direttore nel 1956, appena trentenne. Dissidi con Togliatti produssero il cambio alla direzione e il ritorno in Puglia quale segretario regionale. Eletto deputato nel 1968, dal 1973 fece parte della direzione del partito e della segreteria Berlinguer. Ha provato a dare il proprio contributo ideale, valoriale nella complessa mutazione Pci-Pds-Ds-Pd. «Non appartengo a quelli che si pentono del loro passato. Sì, sono stato comunista. Peggio, sono stato uno dei massimi dirigenti del Pci e non è che non veda errori e orrori e non li senta sulla mia pelle. Il fatto è che accanto a questi io ho la piena consapevolezza della parte che i comunisti hanno avuto nella lotta per la democrazia. Non era Stalin, ma la patria che ci chiamava. Lo stesso partito che però per il suo legame con l’Urss ha contribuito a rendere incompiuta la democrazia italiana», dice.

La necessità di mettere in campo una forte idea di ricostruzione del paese, ma inseparabile dalla lotta per il riscatto sociale. Questa è la storia di una democrazia difficile e di un’unità incompiuta. È il Pci che spiega la storia d’Italia oppure è la storia d’Italia che spiega il Pci? Si domanda e domanda Reichlin nella biografia, che si fa riflessione sull’oggi, La mia Italia (Donzelli, 149 pagine, 18 euro). Affiora l’irrequietezza per un lutto non elaborato, per la debolezza del modo in cui è stata gestita la crisi del Pci e la confluenza nel nuovo partito: «Chi come me viene dalla sinistra storica non può sentirsi innocente, se il nuovo soggetto politico in cui siamo approdati sembra così incerto, quasi senza un’anima e privo di un pensiero lungo sul futuro».

Reichlin pone al centro della sua analisi la potenza dell’economia che erode il potere della politica in quanto interesse generale. Denuncia quel che sappiamo, la concreta formazione di una plutocrazia mondiale mai vista prima. Livelli di concentrazione delle risorse paragonabili a prima della Rivoluzione francese. «L’egemonia della sinistra si ricostruisce mettendo al centro la persona umana e la sua liberazione», scrive. È vero quel che premette nella prima pagina: «Non è una predica, né un furbesco chiamarsi fuori». Ma è la nostalgia per la foto di gruppo di giovani intellettuali, che si mischiarono a tanti piccoli Di Vittorio, ad animare le pagine.

L’autore argomenta la crisi di una costituzione materiale, del modo di stare insieme. Considera il “nuovismo” renziano l’immagine di un paese “senza”, un’immagine sospesa nel vuoto. Afferma che il significato etico della politica si può ritrovare non in astratto, ma nell’asprezza della lotta e del fare.

La mia Italia è la storia di una generazione che non si è tirata indietro. Ugo Stille scrisse in memoria di Giaime Pintor: «La nostra amicizia significò allora un “crescere assieme”. Era un legame che faceva di ciascuno di noi quasi una parte dell’altro». Allora viene alla mente l’immagine più bella del libro pubblicato da Donzelli. Piombiamo nella Roma dell’otto settembre 1943, il trauma e la vergogna di una intera classe dirigente in fuga, la scomparsa dello Stato, i bombardamenti e la lotta partigiana. Reichlin arriva in bicicletta dai Castelli romani e incontra solo macerie. Cerca l’amico e compagno di scuola Luigi Pintor. Giaime, il fratello più grande, che era ufficiale dello Stato maggiore, chiede loro di accompagnarlo da Leopoldo Piccardi, al ministero dell’industria in via Veneto. Piccardi era il solo membro del governo rimasto a Roma e il Palazzo era completamente deserto. Il Cln vuole aprire i depositi militari e distribuire le armi. Poi attraversano Piazza dei Cinquecento per giungere a una caserma. Qui, ricorda Reichlin, un tranviere scende dalla vettura e si unisce ai soldati italiani. Continua a sparare fin quando resta steso a terra per quel possibile che è la democrazia.

Reichlin, vorrei cominciare dalla Puglia, dall’Ilva a Taranto. Un’impresa in perdita dove si muore. Il 17 novembre è deceduto Cosimo Martucci, operaio 49enne. Lo scorso giugno il trentacinquenne Alessandro Morricella è stato travolto dalla ghisa fusa e vapore, mentre lavorava alla base dell’altoforno numero 2. Che cosa ha rappresentato nella sua vita il centro siderurgico?
«È stato un impegno grandissimo, perché è venuta a Taranto negli anni in cui ero lì. Non avevamo nessuna esperienza di che cos’è una fabbrica come l’Ilva. Il problema generale che ci investì era l’idea che fosse l’inizio di una vera e propria industrializzazione della Puglia. L’impianto era grandioso, uno dei maggiori centri siderurgici d’Europa. Non avevamo le idee chiare sull’impatto ambientale, poiché non avevamo nessuna esperienza precedente in questo senso. Ci battevamo molto per rendere democratiche le assunzioni. Allora furono assunti migliaia di operai attraverso canali clientelari. E cercavamo di fondare in mezzo a questa massa del tutto nuova il sindacato. Ho trascorso molte giornate davanti ai cancelli, perché era l’unico modo di parlare direttamente con gli operai. Arrivavano camion, pullman da varie parti della Puglia. Non era facile farsi ascoltare durante i cambi di turno, comizi di cinque, dieci minuti. Creammo un’organizzazione. Lo fece essenzialmente la Fiom, ma allora i rapporti tra sindacato e partito comunista erano strettissimi, eravamo la stessa cosa. Il centro si è anche molto – troppo – esteso, perché non era così all’inizio. Avevo già la preoccupazione, l’assillo degli effetti sul rione Tamburi esposto alle nocività della produzione. Ricordo riunioni su riunioni fatte con i compagni del luogo».

La zuppa del demonio non bastava.
«A noi l’Ilva sembrò una svolta molto insufficiente. Quando si ruppe il triangolo industriale e venivano coinvolte Emilia, Marche e in parte Toscana, la nostra linea fondamentale era che lo sviluppo del Mezzogiorno sarebbe dovuto essere uno sviluppo basato su una trasformazione molecolare della società meridionale. Fondamentalmente creare capitale sociale. Non credevamo che potesse avvenire attraverso l’imposizione di industrie calate dall’alto. Io avevo chiarissimo in testa, credo di averlo anche molto scritto, che il modello di sviluppo sarebbe dovuto partire dalla massa reale dei lavoratori pugliesi che erano i contadini e quindi uscire prima di tutto dai patti colonici semi feudali. I socialisti mi accusarono di “agrarismo”, mentre invece ritenevo che questa fosse la linea più feconda, più avanzata, di suscitare dal basso come era avvenuto in Emilia. Pensavo, mi illudevo, che soprattutto in Puglia, dove era meno forte l’arretratezza (era primitiva: una cosa diversa), si potesse lavorare su un nuovo impasto tra la forza lavoro, erano lavoratori straordinari, e una piccola e media borghesia non di rendita ma attiva».

 Nel 1962 andò a Bari con il compito di dirigere il Pci regionale. Nella raccolta Dieci anni di politica meridionale ‘63-’73 si domandava retoricamente: «È stato industrializzato il Mezzogiorno?» Per poi rispondersi: «In realtà si è industrializzato ulteriormente il Nord». Che cosa è andato storto?
«Il problema fondamentale era quello di mutare la funzione del Mezzogiorno nella vita nazionale. La scelta dell’industrializzazione era stata fatta, avendo la Cassa abbandonato dall’inizio degli anni Sessanta gli investimenti massicci in agricoltura. Tutti gli incentivi erano stati dirottati nel finanziamento dei poli industriali. Parliamo di migliaia di miliardi tra pubblico e privato. Il Nord, grazie alla particolare condizione sociale e politica della realtà meridionale, ha potuto sfruttare le riserve della mano d’opera espulse dalla campagna, ha utilizzato le materie prime e i semilavorati dalle industrie di base e inoltre ha utilizzato la crescita del tessuto urbano meridionale per alimentare certi consumi. L’industrializzazione doveva essere in funzione dell’assetto civile e territoriale del Mezzogiorno e non del mercato. Ha dominato un feudalesimo moderno, espressione di un blocco di potere burocratico, speculativo, parassitario che è locale e nazionale insieme. La rapina delle risorse umane è ciò che mi ha più inquietato. Lo spostamento verso il Mezzogiorno dell’asse dello sviluppo industriale non poteva avvenire ottenendo qua e là qualche nuovo impianto, secondo la logica dei poli ma bloccando l’esodo».

I dati prodotti dal rapporto 2015 dello Svimez (desertificazione industriale, 576mila posti di lavoro persi e al Sud dal 2008 a oggi è raddoppiata la percentuale povertà assoluta) hanno riacceso, per qualche ora, una qualche forma di dibattito pubblico sulla questione meridionale. Lei nelle pagine de La mia Italia la mette al centro della crisi della nazione italiana.
«Nell’ultimo ventennio della questione meridionale non si è più parlato ed è una cosa vergognosa. Non ne ha parlato più neanche la sinistra. Come è noto, ero un dirigente del Pci e mi sono nutrito, ho profondamente condiviso, l’impianto gramsciano togliattiano della questione nazionale italiana. L’unità d’Italia è avvenuta attraverso una rivoluzione passiva, fondamentalmente una conquista regia.

La classe dirigente italiana, poi, compie al suo interno un patto scellerato. Io sono l’industria, produco e mi serve un mercato. Allora non c’era il mercato mondiale e il Mezzogiorno significava avere un mercato protetto. Venti milioni di abitanti totalmente dipendenti dall’ago all’automobile, dal prodotto del Nord e non arrivavano gli stranieri. È stato un enorme mercato che comportava – e questo era il patto – un sostegno alle capacità di consumo dei meridionali. E quindi trasferimenti: almeno un quinto del Pil meridionale è fatto di trasferimenti. Poi il sistema bancario non era in grado di svolgere nel Mezzogiorno la funzione di sostegno a uno sviluppo industriale omogeneo. Le risorse entravano nel circolo finanziario. Era un sistema insostenibile che bisognava cominciare a guardare apertamente in faccia. Non pensare che si trattasse di arretratezza o assenza di educazione. Negli ultimi venti anni, l’arresto dello sviluppo italiano è dovuto in buona parte al cambiamento del paradigma economico mondiale, la mondializzazione. I mercati sono diventati internazionali, il Mezzogiorno ha interessato ancora meno, perché si cercavano mercati ben più ampi».


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