di Gabriele Santoro
Una città lineare, che si estende per circa un chilometro, le cui prime abitazioni vennero assegnate nel decennio successivo alla progettazione e attualmente conta oltre seimila abitanti con una quota parte di occupazioni considerate abusive. Complessivamente si calcolano 1202 appartamenti e si prevede di ricavare 103 nuovi alloggi al quarto dei nove piani della struttura, originariamente destinato ai servizi.
Lo scorso dicembre l’architetta Laura Peretti, con lo Studio Insito che dirige, si è aggiudicata con un premio di centomila euro il bando, che richiedeva proposte per modificare il sistema degli spazi comuni del corpo principale del complesso edilizio, al fine di ottenere una nuova qualità urbana e spaziale. L’intento dichiarato è di assicurare una migliore vivibilità e sicurezza per gli abitanti di un luogo a lungo trascurato dalle istituzioni, alienato dall’altra città. La disponibilità di risorse per una prima fase di lavori è stata stanziata ed è pari a 7.2 milioni di euro. Il completamento dell’iter progettuale (fase preliminare, definitiva ed esecutiva) è previsto entro un anno e mezzo. Nell’ipotesi di Peretti saranno necessari circa sei anni per la concretizzazione di tutti gli interventi studiati. Il costo totale dell’opera di rammendo, di ricucitura topografica e valorizzazione dovrebbe attestarsi attorno ai venti milioni di euro.
Il progetto non riguarda gli alloggi, ma la viabilità e il recupero delle aree verdi; ripensa le connessioni urbane dell’edificio, le sue coperture introducendo criteri di efficienza energetica e avrà un contributo artistico di Mimmo Paladino. Il 7 settembre è stato effettuato il primo sopralluogo nell’area, per poi elaborare il disegno concettuale entro il termine dato del 18 novembre. La giuria internazionale, che ha valutato 45 progetti, ha premiato il gruppo Peretti con questa motivazione: «Affronta meglio i temi richiesti dal concorso, perché esprime la capacità di controllare alle varie scale la complessità, a livello paesaggistico, urbano, della circolazione interna all’edificio e dello spazio pubblico». La riqualificazione di Corviale è stata definita «la prima e più significativa sperimentazione di rigenerazione urbana delle periferie romane».
Peretti, qual è stata la sua esperienza di Corviale prima di approcciare il progetto?
«Molti anni fa da studentessa. Ci sono tornata, da abitante di Roma, perché insegnavo alla Cornell University e ci portavo i miei studenti. L’ho scoperto decisamente di più nel recente contatto diretto che all’epoca degli studi. Quando l’Ater ha bandito il concorso, prima di effettuare il sopralluogo collettivo, ero poco convinta. Poi sono venuta via con l’impressione opposta».
Quali sensazioni le destano la struttura, la sua storia e i suoi dolori?
«Lo percepivo come un edificio un po’ eroico per questa grande volontà di salvare l’agro romano. Era molto visibile l’intenzione dell’architetto di creare una diga architettonica ed è stata una cosa molto importante. È stato uno dei pochi momenti nella storia dell’architettura italiana in cui, al di fuori della dittatura, abbiamo avuto il compimento di un pensiero politico espresso e reso realtà. Stando a lungo lontana dalla città non ho vissuto il carico di sofferenza sociale concentratosi nell’area. Oggi ho trovato Corviale un luogo non degradato socialmente, con risorse vitali, che ha problemi comuni ad altre zone. C’è una storia di questo edificio che appartiene sicuramente al suo entrare nella città e diventare un pezzo di città vero. C’è una questione demografica, come nel resto del paese. L’invecchiamento può produrre un ripiegamento. Corviale è stato la risoluzione di un problema abitativo e sicuramente ne ha creati degli altri. È successo perfino a un edificio molto più semplice da gestire come l’Unité d’Habitation di Marsiglia. Ha patito un periodo di abbandono fortissimo e adesso ha il comitato degli inquilini; ed è motivo di orgoglio di tutta la gente che abita lì tenerlo nelle condizioni in cui venne progettato».
Perché tuttora anche a livello internazionale questo edificio attira simile attenzione?
«Dovremmo fare una mostra dal titolo Corviale e i suoi fratelli. Questa dimensione che a noi sembra gigantesca non è assolutamente una cosa incredibile: Vienna rossa, Mosca, la Francia stessa; ci sono tantissimi esempi di edifici con dimensioni addirittura più grandi di Corviale. È così famoso, intanto perché è un gran pezzo di architettura, al di là di tutti i difetti evidenziabili. Come per altri edifici di architetti è stato capito dopo molto tempo, come succede quando gli edifici non sono così sbagliati. Ci sono ovviamente degli errori, ma in un pezzo di città nuova è un po’ difficile non commetterne. È un’architettura fatta da un architetto molto bravo, ma è stata costruita un po’ fuori tempo massimo. La costruzione di Corviale è stata come un rigurgito di un’ideologia che era ormai alla fine. Altre utopie architettoniche di quel tipo in altri luoghi in Europa non sono state condotte a termine. È diventato l’icona di un periodo, la sua solidificazione, la rappresentazione non solo ideale. A Roma esistono altri chilometri».
Ritiene che la creatura di Fiorentino fosse già nata male e in che modo si cura dopo un lungo abbandono?
«Non è nato rotto, ma ideologicamente forzato. Penso che abbiamo rivelato alcune potenzialità di Corviale. Abbiamo lavorato su Corviale come struttura urbana e non edificio. Il concorso chiedeva, senza toccare le case, di mettere a posto quello che non funziona: il rapporto con la città e quello con il suolo, l’attacco a terra. Essendo un edificio costruito in maniera molto razionale con un sistema strutturale ripetitivo, non ha dunque un’articolazione strutturale tale per cui non si possa metterci le mani. Si pensava che l’edificio dovesse essere completamente autonomo, dovesse essere una città di per sé e che si esaurisse in sé e per sé».
Come definirebbe il vostro disegno d’intervento: rammendo, ricucitura topografica, rigenerazione urbana?
«È talmente un grande rammendo che è la ricucitura di un crinale tra città e campagna. La definizione più corretta credo sia una ricucitura topografica innanzitutto: riuscire a ritrovare l’identità del luogo quasi prima dell’insediamento. Qui il rapporto tra suolo ed edificio non è in armonia. Mi auguro che venga fatto, perché è vitale per Roma, per Corviale. Stiamo parlando comunque di un paese, perché settemila persone rappresentano un paese. Stiamo dando a persone che ora hanno solo un’abitazione dei servizi per i quali pagano le tasse. Un grosso progetto di rigenerazione è una grande opportunità per Roma. Oggi tutto quello che è vuoto, viene occupato, vige la legge del più forte. Lo spazio per la sopravvivenza è una cosa, quello per vivere un’altra».
Ha già sentito Renzo Piano?
«Sposo in pieno l’idea del rammendo fra parti di città che sono strappate. Il nostro mestiere è dover rispondere alla domanda: come facciamo la città? E oggi che la città c’è, non c’è bisogno di costruire inutilmente, soprattutto nelle periferie che spesso sono state costruite senza un pensiero organico. Detesto l’idea dell’archistar che arriva, fa il suo oggetto e poi se ne va. Costruire la città vera non significa cementificare; costruire una città vuol dire creare rapporti fra le parti. Utilizzare quello che abbiamo già e renderlo urbano nel senso della civitas, renderli luoghi. Visto che Corviale è un pezzo di periferia molto cospicua spero mi capiterà l’opportunità di parlarne con Piano».
In che cosa consiste la prima fase dei lavori?
«La road map significa seguire il principio di realtà dei finanziamenti. I primi interventi puntano alla razionalizzazione di tutti i corpi scala, perché c’è una situazione di disordine assurda, di astrusità e rigidità dei percorsi con cui oggi il residente deve fare i conti. Sulla percorribilità verticale attualmente non ci si può contare. Per ogni corpo scala ci sarà un nuovo ascensore a norma e un atrio di accesso. L’accesso al proprio appartamento è uno degli aspetti più importanti, ognuno desidera avere una sorta di percorso personalizzato e questo al Corviale non è consentito. Abbiamo allora provato a ricompartimentare questo chilometro di edificio in senso individuale, modificando la strada che corre parallela all’edificato e che impedisce un accesso personalizzato e la realizzazione di piazze o sistemi di variazione. Abbiamo interpretato il fondamentale criterio della permeabilità, richiesto dal bando di concorso, come la necessità di mettere a sistema questa situazione, restituendo senso individuale all’accesso all’appartamento. Riconsiderare la connessione urbana dal piano terra e il piano garage. Fare il primo spostamento della strada, via Poggio Verde, in modo di poter cominciare la piazza. La strada deve diventare un generatore di spazio. Riassumendo: riportare a terra gli ingressi, fare gli atri, le scale e la piazza. Poi andranno concretizzati criteri di efficienza energetica, copertura con pannelli solari, un piano di illuminazione, giardini pensili».
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