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di Gabriele Santoro
«È difficile da credere, ma questa è la mia prima volta a Roma». Ad accogliere Angela Davis nell'aula magna dell'Università Roma Tre c'era un pubblico che abbracciava almeno tre generazioni. Lei, studiosa e attivista carismatica ancora alimentata da un'energia intellettuale e corporea straordinaria, se n'è subito resa conto, ricambiando l'affetto: «Non so quante persone presenti in questa sala abbiano sostenuto quarantacinque anni fa la campagna per la mia libertà, ma vorrei esprimere loro la mia gratitudine. Senza la mobilitazione internazionale sarei ancora in carcere. Sabato è morto David Rice, all'età di 68 anni, nel penitenziario dove era recluso. Era un membro delle Pantere Nere e fu arrestato nel mio stesso periodo. Ha sempre rivendicato la propria innocenza di fronte alle accuse mosse. Ho lottato a lungo per la sua libertà».
Freedom is a constant struggle è la sua più recente pubblicazione, uscita negli Stati Uniti. Nella mattinata romana Davis ha toccato tutti i principali temi che compongono questa raccolta di interviste, interventi e saggi. Negli ultimi anni ha ribadito spesso quanto fossero errate le valutazioni che associavano il successo elettorale di Barack Obama alla caduta dell'ultima barriera razzistica. Lo ripete: «Roma non è stata costruita in un giorno». Come dimostrato dal Sudafrica della presidenza Mandela e dalle difficoltà della stagione successiva, gli anticorpi devono essere conquista quotidiana. Lei, critica contro la degenerazione del movimento afroamericano verso il fondamentalismo islamico, è preoccupata per l'insorgenza di nuove forme di razzismo, qual è per esempio il virus dell'islamofobia, per il quale accusa anche Donald Trump. Invita movimenti come Black lives matter a contestualizzarsi nello scenario internazionale dal quale trarne sostegno: «Quel che accade in Palestina non è differente da Ferguson, dalle violenze della polizia di cui sono vittime giovani afroamericani». Occorreva incalzare più a fondo Obama sulla questione razziale, metterla al centro dell'agenda, come sulla tutela dei diritti umani nel contrasto al terrorismo, dice.
Una giornalista televisiva prova a rubarle una risposta sulle elezioni statunitensi: «È una storia complicata, ragazza». Sorride e se ne va. In Freedom is a constant struggle leggiamo: «Certamente non penso che esistano partiti che possano costituire la nostra arena primaria, ma ritengo che l'arena elettorale possa essere utilizzata come terreno nel quale organizzarsi». Enfatizzando sempre la necessità di indipendenza, esprime però la maggiore vicinanza al senatore del Vermont Bernard Sanders. Non risparmia nulla alla famiglia Clinton e alla candidata Hillary: «Ho ascoltato Madeleine Albright invitare a votare Hillary Clinton, in quanto sarebbe la prima donna presidente degli Stati Uniti. Ci sono moltissime donne che non sosterrei mai. Nodi politici tuttora irrisolti rappresentano una precisa eredità clintoniana». Gli occhi di Davis si illuminano invece alla domanda di una studentessa sulla resistenza delle donne curde all'avanzata di Isis e alla repressione turca.
Davis, allieva di Adorno e Marcuse, studentessa nell'Europa degli anni Sessanta dove viveva quando nel 1966 il Black Panther Party fu fondato, s'iscrisse nel 1968 al Partito Comunista, per poi aderire al BPP, iniziando a lavorare per l'organizzazione a Los Angeles nell'ambito delle politiche educative. Quando le si domanda dei nuovi muri e dei fili spinati anti immigrati nel Vecchio Continente, Davis invoca il principio della cittadinanza globale: «Le barriere erette colpiscono la progenie storicamente affetta dalle conseguenze del colonialismo in Africa e nel Medio Oriente. Come insegna la storia del movimento per i diritti civili l'affermazione piena dei diritti di cittadinanza rappresenta sempre il primo passo fondamentale».
La ricetta per quel che rientra sotto il termine movimenti e in più in generale nell'essere pienamente cittadini è chiara: la battaglia non è mai del singolo, ma un impegno collettivo: «Dall'affermazione del capitalismo globalizzato e dell'ideologia neoliberista è particolarmente necessario sottolineare i rischi dell'individualismo – spiega –. Le lotte che siano contro il razzismo, la povertà o la repressione, sono destinate a fallire se non prendono coscienza dei rischi dell'individualismo capitalista».
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