Il frutto che era proibito raccogliere si trovava sull'Albero della Conoscenza. Il significato è che tutte le sofferenze sono dovute al tuo desiderio di capire com'è che vanno le cose. Saresti potuto rimanere nel Giardino dell'Eden se solo avessi tenuto chiusa la tua fottuta bocca e non avessi fatto alcuna domanda. Frank Zappa - Playboy, 2 maggio 1993
giovedì 30 marzo 2017
Vendere la cittadinanza
di Gabriele Santoro
Il passaporto svizzero consente al suo possessore di viaggiare senza necessità di visto in 170 paesi, su un totale di 196, quello afgano appena in ventotto Stati. «Nonostante tutte le chiacchiere sul mondo interconnesso e senza più frontiere, essere nati con il passaporto sbagliato è ancora una grossa sfortuna. Nel mondo moderno le frontiere sono ancora ben presenti, ma possono essere spianate, pagando il giusto prezzo», scrive la giornalista Atossa Araxia Abrahamian nel reportage Cittadinanza in vendita (La Nuova Frontiera, 144 pagine, 15.50 euro, traduzione a cura di Angela Ricci), da oggi in libreria. Nel 2014, secondo i dati di Bloomberg, chi ha investito nella cittadinanza ha speso circa due miliardi di dollari in passaporti.
Che cosa diventa la cittadinanza quando è del tutto dissociata dall’impegno civile, dall’identità e dal riconoscimento politico? The Cosmopolites: The coming of the Global Citizen, titolo originale dell’opera, raffigura l’emersione, per usare le parole di Christian Kalin, della concezione della cittadinanza quale risultato di contributi versati allo Stato. «La cittadinanza ha più che altro il valore di un lasciapassare globale, simile a una carta American Express, piuttosto che essere un modo per identificare in maniera significativa il proprio posto nel mondo», osserva l’autrice. Il passaporto è immesso sul mercato come un prodotto qualsiasi, cavalcando i paradossi della globalizzazione liberista.
Kalin ha almeno cinque passaporti ed è il presidente della Henley & Partners, una società privata di consulenza che aiuta i ricchi a comprarsi cittadinanze e permessi di soggiorno, e dà consigli ai paesi su come venderli. I clienti di Kalin sono per lo più Stati caraibici ed europei. Lui è un punto di riferimento di un’industria in ascesa. Abrahamian documenta il caso di scuola della Federazione di Saint Kitts e Nevis, lo Stato sovrano più giovane e più piccolo delle Americhe, sia per superficie che per popolazione. Nel 1984, un anno dopo aver dichiarato la propria indipendenza dalla Gran Bretagna, le isole aggiunsero al decreto sulla naturalizzazione un programma di “cittadinanza in cambio d’investimenti”.
Nel 2006 Kalin intuì il business a Saint Kitts e Nevis, dove la fallimentare industria dello zucchero è stata soppiantata da quella dei passaporti, tre anni più tardi col valore aggiunto dell’accesso senza necessità di visto all’area Schengen garantito ai detentori di passaporto nevisiano. Kalin lo rivendica come merito personale per le pressioni fatte sui legislatori dell’Unione Europea. Tre mesi di attesa senza la necessità di recarsi sull’isola e 200.000 dollari per candidarsi alla cittadinanza per una ristretta élite di milionari russi, cinesi e mediorientali. Nel 2006 l’affare dei passaporti non superava l’1% del Pil del paese; nel 2014 ha raggiunto il 25% con un boom nel settore edilizio grazie alla promessa di un rapido accesso alla cittadinanza in cambio di investimenti. I passaporti rappresentano la principale merce di esportazione di Saint Kitts e Nevis. Le spese procedurali, che ammontano a 50.000 dollari per richiedente, hanno costituito in media il 7% del Pil negli ultimi cinque anni rispetto al 5% dell’industria manifatturiera.
C’è dunque chi spende centinaia di migliaia di dollari per una cittadinanza, per il privilegio offerto dal mercato di abbattere qualsivoglia frontiera, mentre è sempre più ristretta la libertà di viaggiare di chi difende il bene fondamentale, la propria vita. Questi cittadini globali che evadono la costrizione anzitutto economica di un’unica patria, ampliando il portfolio di passaporti, ma poco hanno a che fare con il cosmopolitismo. Oggi in maniera completamente legale e attraverso strumenti legittimi, si può diventare cittadino di Saint Kitts e Nevis, Antigua e Barbuda, Grenada, del Commonwealth della Dominica, di Malta, Bulgaria, Cipro e Austria. Il prezzo dei documenti va dai 200.000 dollari (Dominica) a diversi milioni di euro (Austria, Malta).
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venerdì 10 marzo 2017
La lotta permanente dei Pugni neri di Città del Messico 1968
di Gabriele Santoro
Il racconto della progressiva presa di coscienza di non essere solo corpi dentro a un movimento aerobico è forse l’aspetto più interessante che emerge dal lavoro dell’autore, che ha compiuto un viaggio negli Stati Uniti sulle tracce di un gesto, addentrandosi nell’intreccio qui davvero inscindibile tra politica, società e sport. Tommie e John si accorgono che nella propria infanzia e nell’adolescenza non c’è stato nulla normale, è dunque necessario porre le domande taciute anche dentro casa. È necessario non abituarsi all’assenza di libertà.
«Se torno vivo da Memphis» aveva detto Martin Luther King, «prepareremo una grande marcia il giorno dell’inizio delle Olimpiadi, a Città del Messico».
Quei due pugni chiusi erano una preghiera di solidarietà, una preghiera di speranza per un paese separato che presumeva di essere un’entità univoca. Tommie Smith e John Carlos non sono nati solo per correre più veloci degli altri, avevano qualcosa da dire al mondo immersi in una lotta permanente, che a quasi cinquant’anni dalle Olimpiadi di Città del Messico 1968 non è finita. «Grazie allo studio, – scrive Lorenzo Iervolino in Trentacinque secondi ancora (66thand2nd, 288 pagine, 23 euro) – Tommie si era accorto di essere solo un puntino nel disegno più vasto della lotta che i neri stavano portando avanti».
Il racconto della progressiva presa di coscienza di non essere solo corpi dentro a un movimento aerobico è forse l’aspetto più interessante che emerge dal lavoro dell’autore, che ha compiuto un viaggio negli Stati Uniti sulle tracce di un gesto, addentrandosi nell’intreccio qui davvero inscindibile tra politica, società e sport. Tommie e John si accorgono che nella propria infanzia e nell’adolescenza non c’è stato nulla normale, è dunque necessario porre le domande taciute anche dentro casa. È necessario non abituarsi all’assenza di libertà.
«Se torno vivo da Memphis» aveva detto Martin Luther King, «prepareremo una grande marcia il giorno dell’inizio delle Olimpiadi, a Città del Messico».
«Perché torna laggiù?» gli aveva chiesto John, superando un’insolita timidezza.
«Lo sciopero dei netturbini va avanti, devo essere là con loro» aveva risposto King.
«Intendevo: perché torna laggiù dopo che hanno promesso di ucciderla?».
«Ci torno per sostenere chi non può esserci. E anche per sostenere chi non vuole esserci».
Nel 1968 il Progetto olimpico per i diritti umani era ormai parte integrante delle lotte per il riconoscimento dei diritti civili e aveva ricevuto tanto il pieno supporto del Reverendo King jr., quanto quello del Black Panther Party. Il 4 aprile 1968, quando hanno ammazzato la forza dell’amore, Carlos si trovava in tournée a Trinidad, la seconda della sua carriera e discusse con il capo delegazione della squadra statunitense: «King non era un presidente né un eroe degli Stati Uniti. Non c’è motivo di abbassare la bandiera in suo onore», asserì quest’ultimo. John raggiunse l’asta bianca, tirò le cordicine e fece scendere la Star Spangled Banner tra gli applausi del pubblico.
Sulla pista di Città del Messico Smith incise il record del mondo, 19.83, sulla distanza dei duecento metri. Carlos, anni dopo, disse di averlo lasciato vincere, perché il compagno teneva particolarmente alla medaglia d’oro. Sull’argomento i due non si metteranno mai d’accordo, ma la storia l’hanno scritta insieme: la bandiera statunitense è stata issata assecondando il tempo dei loro due pugni neri sospinti verso il cielo. Smith, Carlos e Norman, velocista australiano, proletario dall’anima nobile che si associò all’essenza della ribellione, rivendicano l’intuizione del Black power salute, sono tre pezzi di verità sovrapponibili sulla genesi del gesto che scosse il mondo ed è tuttora rievocato come uno dei momenti in cui lo sport diventa qualcosa di più.
Il razzismo pretendeva di allontanare Tommie, John e Peter, la pista li ha resi inseparabili. Il 16 ottobre 1968, alle ore 20.41 circa, la solitudine, che assomigliava alla paura, nel tunnel verso il podio olimpico divenne solidarietà e amicizia. Quel paio di guanti e di calzini neri con le scarpe tenute in mano non sono dissociabili dalla moltitudine di giovani in giacca e cravatta e dalle giovani sull’Edmund Pettus Bridge a Selma, assiepati con il volto scoperto davanti alla polizia con le maschere antigas e manganelli. Norman, a chi gli ricordava quanto la sua solidarietà sul podio avesse oscurato la singolare impresa sportiva e compromesso l’apice della carriera, confessò che l’orgoglio di esserne stato parte l’avrebbe accompagnato fino all’ultimo giorno della propria vita.
Le medaglie pesano nella geopolitica sportiva, dunque non le hanno sottratte al medagliere, ma hanno pensato di potersi prendere con l’oblio le esistenze di chi aveva disobbedito. Il Progetto olimpico per i diritti umani, organizzazione che trovava ragione nell’opposizione al razzismo anche nello sport, era andato allo scontro con il presidente del Cio Avery Brundage. Non era bastato arruolare Jesse Owens, velocista nero, quattro medaglie d’oro a Berlino nel 1936 sotto lo sguardo accigliato del Führer Hitler che al rientro in patria non gli valsero neanche una stretta di mano alla Casa Bianca, per tenere sotto controllo i ragazzi.
Tommie, John e Peter, per anni assediati, accusati, disconosciuti, hanno pagato un prezzo alto per la propria scelta. Resta una fotografia iconica, che in fondo esprime l’ispirazione del potere più significativo, quello di non rinunciare mai alla propria parola.
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Nel 1968 il Progetto olimpico per i diritti umani era ormai parte integrante delle lotte per il riconoscimento dei diritti civili e aveva ricevuto tanto il pieno supporto del Reverendo King jr., quanto quello del Black Panther Party. Il 4 aprile 1968, quando hanno ammazzato la forza dell’amore, Carlos si trovava in tournée a Trinidad, la seconda della sua carriera e discusse con il capo delegazione della squadra statunitense: «King non era un presidente né un eroe degli Stati Uniti. Non c’è motivo di abbassare la bandiera in suo onore», asserì quest’ultimo. John raggiunse l’asta bianca, tirò le cordicine e fece scendere la Star Spangled Banner tra gli applausi del pubblico.
Sulla pista di Città del Messico Smith incise il record del mondo, 19.83, sulla distanza dei duecento metri. Carlos, anni dopo, disse di averlo lasciato vincere, perché il compagno teneva particolarmente alla medaglia d’oro. Sull’argomento i due non si metteranno mai d’accordo, ma la storia l’hanno scritta insieme: la bandiera statunitense è stata issata assecondando il tempo dei loro due pugni neri sospinti verso il cielo. Smith, Carlos e Norman, velocista australiano, proletario dall’anima nobile che si associò all’essenza della ribellione, rivendicano l’intuizione del Black power salute, sono tre pezzi di verità sovrapponibili sulla genesi del gesto che scosse il mondo ed è tuttora rievocato come uno dei momenti in cui lo sport diventa qualcosa di più.
Il razzismo pretendeva di allontanare Tommie, John e Peter, la pista li ha resi inseparabili. Il 16 ottobre 1968, alle ore 20.41 circa, la solitudine, che assomigliava alla paura, nel tunnel verso il podio olimpico divenne solidarietà e amicizia. Quel paio di guanti e di calzini neri con le scarpe tenute in mano non sono dissociabili dalla moltitudine di giovani in giacca e cravatta e dalle giovani sull’Edmund Pettus Bridge a Selma, assiepati con il volto scoperto davanti alla polizia con le maschere antigas e manganelli. Norman, a chi gli ricordava quanto la sua solidarietà sul podio avesse oscurato la singolare impresa sportiva e compromesso l’apice della carriera, confessò che l’orgoglio di esserne stato parte l’avrebbe accompagnato fino all’ultimo giorno della propria vita.
Le medaglie pesano nella geopolitica sportiva, dunque non le hanno sottratte al medagliere, ma hanno pensato di potersi prendere con l’oblio le esistenze di chi aveva disobbedito. Il Progetto olimpico per i diritti umani, organizzazione che trovava ragione nell’opposizione al razzismo anche nello sport, era andato allo scontro con il presidente del Cio Avery Brundage. Non era bastato arruolare Jesse Owens, velocista nero, quattro medaglie d’oro a Berlino nel 1936 sotto lo sguardo accigliato del Führer Hitler che al rientro in patria non gli valsero neanche una stretta di mano alla Casa Bianca, per tenere sotto controllo i ragazzi.
Tommie, John e Peter, per anni assediati, accusati, disconosciuti, hanno pagato un prezzo alto per la propria scelta. Resta una fotografia iconica, che in fondo esprime l’ispirazione del potere più significativo, quello di non rinunciare mai alla propria parola.
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giovedì 9 marzo 2017
A Mostar sulle tracce della guerra
il Tascabile, nuova rivista enciclopedica, edita da Treccani.
di Gabriele Santoro
Scriveva Predrag Matvejević nel 1998: “nell’autunno scorso mi sono diretto pieno di speranza alla volta di Mostar, il mio paese natale. Ne sono tornato con i brividi addosso. Il dopoguerra sembrava altrettanto duro quanto la guerra stessa. Nel giorno in cui si recupera dalla Neretva la parte centrale dell’arco del vecchio ponte, assisto a questo avvenimento con una strana emozione. Abbiamo visto gli ingegneri ungheresi che sollevavano con una grande gru, su una zattera, il troncone dello Stari Most che non univa solo le due sponde di questa città, ma altresì le vie dell’Oriente e dell’Occidente. Tornerà a farlo?”.
Scriveva Predrag Matvejević nel 1998: “nell’autunno scorso mi sono diretto pieno di speranza alla volta di Mostar, il mio paese natale. Ne sono tornato con i brividi addosso. Il dopoguerra sembrava altrettanto duro quanto la guerra stessa. Nel giorno in cui si recupera dalla Neretva la parte centrale dell’arco del vecchio ponte, assisto a questo avvenimento con una strana emozione. Abbiamo visto gli ingegneri ungheresi che sollevavano con una grande gru, su una zattera, il troncone dello Stari Most che non univa solo le due sponde di questa città, ma altresì le vie dell’Oriente e dell’Occidente. Tornerà a farlo?”.
Nell’odierna Mostar la risposta rimane sospesa. Su un pilone del principale cantiere edilizio per il turismo – sarà un albergo della multinazionale statunitense Marriott a pochi passi dal centro storico della città – campeggia la scritta “War is not over”. La guerra non è finita, ma nessuno la può vincere. La pulizia etnica non ha cancellato l’antica traccia multiculturale di questa terra, dove il sole splende anche d’inverno, l’aria è pulita come l’acqua dei fiumi Neretva e Radobolja che l’attraversano. Nel marzo del 1995, quando le armi tacevano da qualche mese, la diplomazia internazionale chiuse in un cassetto il censimento demografico, appaltato ai tecnici del governo svedese. Era materia politica esplosiva. Secondo l’ultimo censimento, risalente a tre anni fa, a fronte di circa 100mila abitanti la componente croata cattolica è superiore di non più di mille unità rispetto a quella bosgnacca musulmana con una crescita della presenza serba, quasi sparita durante il conflitto. Il censimento generale bosniaco del 2013 rispetto a quello del 1991 segnala un calo della popolazione pari al 13%, meno 585.411. A Mostar abitavano oltre 120mila persone.
Per comprendere fisicamente Mostar occorre arrampicarsi sui ruderi della Staklena Banka, una costruzione mai portata a termine, poi utilizzata dai cecchini durante la guerra poiché mira l’intero contesto urbano. A ovest sulle alture della collina Planinica è stata recentemente dipinta una bandiera croata gigantesca e a poca distanza distrutto il maestoso memoriale Partizansko Groblje, dedicato ai partigiani antifascisti della Seconda Guerra Mondiale. Sull’altro versante, a est, sul monte Fortica si legge “BiH Volimo te”, Bosnia ed Erzegovina ti amiamo.
Marco Secchi/Getty Images |
L’economia locale, insieme al turismo estivo e agli investimenti di chi ha vissuto la diaspora, non potrebbe fare a meno dei venticinquemila studenti che vengono soprattutto dall’Erzegovina, dal centro della Bosnia e in percentuale minore da altri luoghi di uno Stato la cui architettura istituzionale appare sempre più nella sua incoerenza e farraginosità nell’erogazione dei servizi. Per il sistema sanitario pubblico un abitante della Federazione Croato-Musulmana del Cantone Hercegovačko-Neretvanski, nel quale rientra Mostar, non può ricevere cure nel confinante Cantone di Sarajevo. A Mostar perfino per la raccolta urbana dei rifiuti ci sono quattro società, più una quinta che in realtà rimane una scatola vuota: avrebbe dovuto inglobare le altre.
C’è una foto simbolo del dopoguerra, che ritrae la scuola di musica dopo gli interventi di stabilizzazione della struttura. La facciata crivellata di colpi di arma da fuoco, l’intonaco a pezzi, le finestre sventrate. Oggi l’edificio è completamente ristrutturato, ma resta chiuso, l’amministrazione non consegna le chiavi; spaventa la funzione aggregante evocata dalla sua storia. Racconta Vladimir Corić, classe 1987, portavoce dell’OKC Abrašević:
Sono nato a Belgrado. Mia madre è serba, mio padre è mostarese. Tornammo qui nel 1991 per il suo lavoro. Prima della guerra Mostar aveva il numero più elevato di matrimoni misti dell’intera Jugoslavia. La linea bellica più dolorosa è quella tracciata dentro alle famiglie. Questo luogo diviso non si salva. Amiamo questa terra, non lo Stato governato col principio dell’etnocrazia, che è inefficiente. Il sistema politico è troppo frammentato per reggere la sfida della rinascita, finiti gli aiuti, e non attira investimenti.
Sulla linea del fuoco, Bulevard Narodne Revolucije, il viale della rivoluzione nazionale, dove nel ‘93 croati e musulmani si fronteggiarono più violentemente, è stato rivitalizzato un edificio che fisicamente non appartiene a nessuno dei due versanti e testimonia che riconciliazione non è una parola vuota, ricreando un tessuto e una produzione culturale condivisa. Il centro culturale e musicale giovanile OKC Abrašević è l’ottavo ponte di Mostar, l’unico caso in tutta l’ex Jugoslavia di luogo, che si autofinanzia, restituito alla funzione pubblica culturale sottraendolo a un’operazione immobiliare con il sostegno economico della Catalogna. È la principale sala concerti della città con band che giungono da tutto il mondo, è centro di discussione politica per i giovani delle due sponde della Neretva.
Questa città è piena di ponti, ne sono stati ricostruiti sette dei dieci distrutti durante la guerra, ma pochi ancora li attraversano: a est i musulmani, a ovest i croati. Il 70% degli attuali abitanti è arrivato dopo la guerra, per programmazione politica e fuga soprattutto dall’est Erzegovina, e non aveva la cultura urbana dei mostaresi. Lo stesso destino di Vukovar, altra città martoriata come Mostar, che contava 84.000 abitanti fra croati, serbi, ungheresi, cechi e altri in un nucleo urbano cosmopolita. Il cosmopolitismo era il principale nemico da abbattere con la guerra.
Marco Secchi/Getty Images |
Nel 1997 con la spinta degli aiuti internazionali (5.1 miliardi di dollari furono stanziati per il primo programma per la ricostruzione, a fronte di danni stimati nell’ordine dei 15-20 miliardi con 1.2 milioni di rifugiati) la Bosnia toccò una crescita pari al 34%, poi si è progressivamente ridimensionata, 5% all’inizio del secolo, fino alla palude della crisi comunemente fatta risalire al 2009. Il reddito pro capite non ha ancora raggiunto il livello anteguerra e un terzo dell’economia è sommersa. Mostar con l’alto tasso di disoccupazione non si astrae dal contesto bosniaco, anzi ne è l’emblema. I giovani, che possono, emigrano. L’anno scorso in 90.000 hanno lasciato la sola Croazia.
Il due novembre nel paese si sono svolte le elezioni amministrative ed è l’unica città a non aver votato. Lo stesso giorno cinquemila mostaresi si sono ribellati allo stallo e hanno inscenato un simulacro elettorale. Dopo aver allestito vere e proprie urne, si sono recati a votare. Come spiega Dzenana Dedić, responsabile della Local Democracy Agency e figura di raccordo fondamentale con l’Europa durante la ricostruzione,
il nostro attuale problema principale è l’accordo di pace di Dayton, fondamentale per il disarmo e per fermare le uccisioni, che non può però continuare a essere la nostra costituzione. Non promuove una visione comune, istituzionalizza de facto un’ingestibile divisione etnica. Mostar contiene in scala ridotta tutti i travagli della Bosnia ed Erzegovina. I fondamentali processi democratici sono sospesi, tutto è in mano alle leadership dei partiti, privi di democrazia interna, gli stessi che hanno condotto la guerra. Da otto anni non c’è il consiglio comunale. Formalmente il sindaco, per decisione del parlamento, rimane l’ultimo eletto, espressione del partito croato Hdz, mentre l’Sda bosniaco musulmano guida l’ufficio del bilancio. Non trovano un accordo per tornare al voto, che tuteli l’equa rappresentanza senza che prevalgano gli interessi di una delle fazioni, ma spartiscono il potere. È una diarchia che condanna la città alla separazione.
Dedić è nata a Mostar, ha cinquantuno anni. Le hanno bruciato la casa, che era situata a pochi passi dall’ufficio in cui lavora ed è stata espulsa a est della città. Ricorda la fila delle macchine che nel 1992 abbandonarono in fretta e furia Mostar all’arrivo dei carri armati dell’Armata popolare jugoslava. Ma il vero inferno è stata la cosiddetta seconda guerra di Mostar, nel 1993 quando è deflagrato lo scontro musulmano croato. “Non mi abituerò mai alla spartizione su base etnica di una città che rappresentava ante litteram il multiculturalismo, la conversazione tra diversi – dice Dedić –. Eravamo una storia plurisecolare culturalmente rilevante, stiamo riscrivendo tante piccole storie insignificanti”.
Matej Divizna/Getty Images |
Alla fine del conflitto i dati del catasto, ora riunificato e in fase di digitalizzazione, sono stati sottratti per riscrivere la storia e geografia, tanto quanto la toponomastica. Fino al 1990 il corpo della città non conosceva sviluppo illegale. Strade e infrastrutture erano armonizzate, e le opere fondamentali restano tuttora quelle del periodo 1945-’65. Oggi l’urbanistica risponde al principio e all’intento politico della divisione della città, manca un orientamento comune. La principale opera pubblica, che procede a rilento, è l’impianto di depurazione per evitare l’inquinamento della Neretva, poi c’è un corridoio stradale, 5 C, tormentato. Il budget delle casse comunali serve appena alla piccola manutenzione corrente.
“L’operazione di ricostruzione del patrimonio urbanistico e culturale, a cominciare dal Ponte Vecchio nel 2004, a Mostar è la più riuscita nell’intera Bosnia e direi in Jugoslavia – spiega Senada Demirović Habibija, architetta del dipartimento di programmazione urbanistica, impiegata nei progetti di recupero dell’Old Town –. Spesso questa città è comparata a Belfast, Berlino. Ma occorre ricordare che qui è sempre esistito un terreno comune. Costruire senza rispettare ciò, ci sta ferendo più dei danni di guerra. Di conquista in conquista, nei secoli, non si era mai smarrita l’importanza dell’eredità culturale precedente e stratificata. La guerra del 1992-’95 attenta soprattutto a questa eredità”.
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giovedì 2 marzo 2017
Mostar, la città sospesa
Questo reportage viene pubblicato in contemporanea anche da OBC Transeuropa (Osservatorio Balcani Caucaso) e Keller editore
di Gabriele Santoro
Jasmin Elezović ha gli occhi azzurri limpidi e troppi capelli bianchi per i propri ventinove anni. Sostiene che a Mostar, a oltre due decadi dalla fine del conflitto bellico, la sindrome Post traumatic stress disorder segna in forme diverse quasi tutti. Jasmin dice che ognuno l'affronta come riesce. La sua terapia consiste nel raccontare la città e la propria infanzia di bambino al tempo della guerra.
La casa di Jasmin era fisicamente la prima sulla linea del fuoco, dove gli scontri tra bosgnacchi e croati furono più violenti. Nel 1993 ha trascorso almeno sei mesi senza vedere la luce del sole, confinato nella vasca da bagno, il luogo meno esposto ai cecchini. "Ricordo la ferocia delle ferite e il tanto sangue – racconta – mia madre aveva medicinali e accoglievamo i feriti. Eravamo affamati. Si usciva di notte per raccogliere il cibo gettato dagli aerei. Oggi sembra di non essere mai felici, all'epoca se non altro eravamo liberi dall'ossessione di ciò che riusciremo a fare domani".
C'è un luogo all'interno della casa che Jasmin ricorda in particolare e definisce la stanza della luce: "Eravamo vicinissimi al quartier generale militare bosgnacco. Mio padre sapeva che l'elettricità, che alimentava quell'edificio, passava proprio sotto la nostra finestra. Un giorno riuscì a deviare il cavo e allacciò la corrente elettrica all'abitazione, ma non potevamo accendere la luce per evitare di essere presi di mira dai cecchini. Dunque con le coperte sopra a un lampadario allestimmo una sola stanza illuminata in modo soffuso. E a turno anche i vicini che venivano godevamo della luce".
Il padre, Ermin, bosgnacco, è uno dei quattro sopravvissuti del proprio squadrone composto da trenta soldati. Nei giorni del 1993 Ermin, che ora vive fuori Mostar in una casa immersa tra boschi e fiume, si divideva in due: fino a quando è stato possibile la notte cuoceva il pane e lo distribuiva; la mattina imbracciava le armi. Anche per un mese non si avevano sue notizie. Oggi fra i reduci la domanda sorge prepotente: perché abbiamo combattuto, per assistere all'agonia di uno stato incapace di autodeterminarsi che costringe i giovani all'emigrazione? E scricchiolano le certezze dell'appoggio dei veterani dentro ai partiti che hanno alimentato la guerra, prosperando nella costruzione della separazione su base etnica.
"Questo è il punto – spiega Jasmin – non posso porre questa domanda a mio padre, perché non conosce la risposta. La maggioranza fra chi ha combattuto non ti risponderà. La vendetta per l'uccisione di qualche persona cara, forse, ma la vendetta non può essere uno stile di vita. Hanno fatto la guerra per difendere la propria casa, la famiglia, per l'opportunità di sopravvivere. Nel 1995 Mostar era una città di rovine, e si stenta a ritrovarla. La fabbrica della paura non ha chiuso i battenti, foraggiata dalla politica che ha l'interesse a mantenere alta la tensione. Non sapendo risolvere il passato, perdiamo il presente".
Il vero inferno che ha distrutto la città è stata la cosiddetta seconda guerra di Mostar, nel 1993, quando strada per strada è deflagrato lo scontro tra musulmani e croati. Mostar era una storia cosmopolita plurisecolare, culturalmente rilevante, ora rischia di divenire tante piccole storie insignificanti. Jasmin fatica a orientarsi nella topografia interiore di una città che cambia il nome alle strade, cancellando progressivamente il passato. Tocca muri ancora squarciati, che sono il riverbero di ferite non suturate. I quartieri più distrutti sono irriconoscibili dopo la ricostruzione, è smarrita la consapevolezza dei luoghi e degli spazi, soprattutto del magnifico patrimonio artistico architettonico che univa Oriente e Occidente, dall'Impero Ottomano agli austroungarici.
Le riflessioni del giovane Elezović sfiorano e convergono con quelle del concittadino Predrag Matvejević, che nel 1998 scriveva: "O mia città, sei proprio tu? Nonostante tutto non c'era ragione alcuna perché tutto questo dovesse accadere, e in questo modo: perché si distruggessero le case, i templi, i ponti – il vecchio ponte sulla Neretva. Ogni spiegazione mi appare sconveniente. La guerra non ha bisogno di moventi particolari per cominciare e per giustificarsi (per tentare di giustificarsi). A un certo punto si nutre della propria insensatezza e malvagità. Le conseguenze diventano nuove motivazioni, e queste provocano a loro volta nuove conseguenze: il male si rafforza e si conferma col male. Un'alternanza di tal genere non si può arrestare. Simili guerre durano anche dopo che sono state deposte le armi".
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