giovedì 30 marzo 2017

Vendere la cittadinanza



di Gabriele Santoro

Il passaporto svizzero consente al suo possessore di viaggiare senza necessità di visto in 170 paesi, su un totale di 196, quello afgano appena in ventotto Stati. «Nonostante tutte le chiacchiere sul mondo interconnesso e senza più frontiere, essere nati con il passaporto sbagliato è ancora una grossa sfortuna. Nel mondo moderno le frontiere sono ancora ben presenti, ma possono essere spianate, pagando il giusto prezzo», scrive la giornalista Atossa Araxia Abrahamian nel reportage Cittadinanza in vendita (La Nuova Frontiera, 144 pagine, 15.50 euro, traduzione a cura di Angela Ricci), da oggi in libreria. Nel 2014, secondo i dati di Bloomberg, chi ha investito nella cittadinanza ha speso circa due miliardi di dollari in passaporti.


Che cosa diventa la cittadinanza quando è del tutto dissociata dall’impegno civile, dall’identità e dal riconoscimento politico? The Cosmopolites: The coming of the Global Citizen, titolo originale dell’opera, raffigura l’emersione, per usare le parole di Christian Kalin, della concezione della cittadinanza quale risultato di contributi versati allo Stato. «La cittadinanza ha più che altro il valore di un lasciapassare globale, simile a una carta American Express, piuttosto che essere un modo per identificare in maniera significativa il proprio posto nel mondo», osserva l’autrice. Il passaporto è immesso sul mercato come un prodotto qualsiasi, cavalcando i paradossi della globalizzazione liberista.

Kalin ha almeno cinque passaporti ed è il presidente della Henley & Partners, una società privata di consulenza che aiuta i ricchi a comprarsi cittadinanze e permessi di soggiorno, e dà consigli ai paesi su come venderli. I clienti di Kalin sono per lo più Stati caraibici ed europei. Lui è un punto di riferimento di un’industria in ascesa. Abrahamian documenta il caso di scuola della Federazione di Saint Kitts e Nevis, lo Stato sovrano più giovane e più piccolo delle Americhe, sia per superficie che per popolazione. Nel 1984, un anno dopo aver dichiarato la propria indipendenza dalla Gran Bretagna, le isole aggiunsero al decreto sulla naturalizzazione un programma di “cittadinanza in cambio d’investimenti”.

Nel 2006 Kalin intuì il business a Saint Kitts e Nevis, dove la fallimentare industria dello zucchero è stata soppiantata da quella dei passaporti, tre anni più tardi col valore aggiunto dell’accesso senza necessità di visto all’area Schengen garantito ai detentori di passaporto nevisiano. Kalin lo rivendica come merito personale per le pressioni fatte sui legislatori dell’Unione Europea. Tre mesi di attesa senza la necessità di recarsi sull’isola e 200.000 dollari per candidarsi alla cittadinanza per una ristretta élite di milionari russi, cinesi e mediorientali. Nel 2006 l’affare dei passaporti non superava l’1% del Pil del paese; nel 2014 ha raggiunto il 25% con un boom nel settore edilizio grazie alla promessa di un rapido accesso alla cittadinanza in cambio di investimenti. I passaporti rappresentano la principale merce di esportazione di Saint Kitts e Nevis. Le spese procedurali, che ammontano a 50.000 dollari per richiedente, hanno costituito in media il 7% del Pil negli ultimi cinque anni rispetto al 5% dell’industria manifatturiera.

C’è dunque chi spende centinaia di migliaia di dollari per una cittadinanza, per il privilegio offerto dal mercato di abbattere qualsivoglia frontiera, mentre è sempre più ristretta la libertà di viaggiare di chi difende il bene fondamentale, la propria vita. Questi cittadini globali che evadono la costrizione anzitutto economica di un’unica patria, ampliando il portfolio di passaporti, ma poco hanno a che fare con il cosmopolitismo. Oggi in maniera completamente legale e attraverso strumenti legittimi, si può diventare cittadino di Saint Kitts e Nevis, Antigua e Barbuda, Grenada, del Commonwealth della Dominica, di Malta, Bulgaria, Cipro e Austria. Il prezzo dei documenti va dai 200.000 dollari (Dominica) a diversi milioni di euro (Austria, Malta).

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