giovedì 2 marzo 2017

Mostar, la città sospesa

Questo reportage viene pubblicato in contemporanea anche da OBC Transeuropa (Osservatorio Balcani Caucaso) e Keller editore



di Gabriele Santoro

Jasmin Elezović ha gli occhi azzurri limpidi e troppi capelli bianchi per i propri ventinove anni. Sostiene che a Mostar, a oltre due decadi dalla fine del conflitto bellico, la sindrome Post traumatic stress disorder segna in forme diverse quasi tutti. Jasmin dice che ognuno l'affronta come riesce. La sua terapia consiste nel raccontare la città e la propria infanzia di bambino al tempo della guerra.


La casa di Jasmin era fisicamente la prima sulla linea del fuoco, dove gli scontri tra bosgnacchi e croati furono più violenti. Nel 1993 ha trascorso almeno sei mesi senza vedere la luce del sole, confinato nella vasca da bagno, il luogo meno esposto ai cecchini. "Ricordo la ferocia delle ferite e il tanto sangue – racconta – mia madre aveva medicinali e accoglievamo i feriti. Eravamo affamati. Si usciva di notte per raccogliere il cibo gettato dagli aerei. Oggi sembra di non essere mai felici, all'epoca se non altro eravamo liberi dall'ossessione di ciò che riusciremo a fare domani".

C'è un luogo all'interno della casa che Jasmin ricorda in particolare e definisce la stanza della luce: "Eravamo vicinissimi al quartier generale militare bosgnacco. Mio padre sapeva che l'elettricità, che alimentava quell'edificio, passava proprio sotto la nostra finestra. Un giorno riuscì a deviare il cavo e allacciò la corrente elettrica all'abitazione, ma non potevamo accendere la luce per evitare di essere presi di mira dai cecchini. Dunque con le coperte sopra a un lampadario allestimmo una sola stanza illuminata in modo soffuso. E a turno anche i vicini che venivano godevamo della luce".

Il padre, Ermin, bosgnacco, è uno dei quattro sopravvissuti del proprio squadrone composto da trenta soldati. Nei giorni del 1993 Ermin, che ora vive fuori Mostar in una casa immersa tra boschi e fiume, si divideva in due: fino a quando è stato possibile la notte cuoceva il pane e lo distribuiva; la mattina imbracciava le armi. Anche per un mese non si avevano sue notizie. Oggi fra i reduci la domanda sorge prepotente: perché abbiamo combattuto, per assistere all'agonia di uno stato incapace di autodeterminarsi che costringe i giovani all'emigrazione? E scricchiolano le certezze dell'appoggio dei veterani dentro ai partiti che hanno alimentato la guerra, prosperando nella costruzione della separazione su base etnica.

"Questo è il punto – spiega Jasmin – non posso porre questa domanda a mio padre, perché non conosce la risposta. La maggioranza fra chi ha combattuto non ti risponderà. La vendetta per l'uccisione di qualche persona cara, forse, ma la vendetta non può essere uno stile di vita. Hanno fatto la guerra per difendere la propria casa, la famiglia, per l'opportunità di sopravvivere. Nel 1995 Mostar era una città di rovine, e si stenta a ritrovarla. La fabbrica della paura non ha chiuso i battenti, foraggiata dalla politica che ha l'interesse a mantenere alta la tensione. Non sapendo risolvere il passato, perdiamo il presente".

Il vero inferno che ha distrutto la città è stata la cosiddetta seconda guerra di Mostar, nel 1993, quando strada per strada è deflagrato lo scontro tra musulmani e croati. Mostar era una storia cosmopolita plurisecolare, culturalmente rilevante, ora rischia di divenire tante piccole storie insignificanti. Jasmin fatica a orientarsi nella topografia interiore di una città che cambia il nome alle strade, cancellando progressivamente il passato. Tocca muri ancora squarciati, che sono il riverbero di ferite non suturate. I quartieri più distrutti sono irriconoscibili dopo la ricostruzione, è smarrita la consapevolezza dei luoghi e degli spazi, soprattutto del magnifico patrimonio artistico architettonico che univa Oriente e Occidente, dall'Impero Ottomano agli austroungarici.

Le riflessioni del giovane Elezović sfiorano e convergono con quelle del concittadino Predrag Matvejević, che nel 1998 scriveva: "O mia città, sei proprio tu? Nonostante tutto non c'era ragione alcuna perché tutto questo dovesse accadere, e in questo modo: perché si distruggessero le case, i templi, i ponti – il vecchio ponte sulla Neretva. Ogni spiegazione mi appare sconveniente. La guerra non ha bisogno di moventi particolari per cominciare e per giustificarsi (per tentare di giustificarsi). A un certo punto si nutre della propria insensatezza e malvagità. Le conseguenze diventano nuove motivazioni, e queste provocano a loro volta nuove conseguenze: il male si rafforza e si conferma col male. Un'alternanza di tal genere non si può arrestare. Simili guerre durano anche dopo che sono state deposte le armi".

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