venerdì 21 aprile 2017

Un'educazione milanese, operaia


di Gabriele Santoro

«Allora non sapevo che la mia era una famiglia proletaria. L’aggettivo mi sarebbe suonato ostico. Perché mio padre preferiva l’aggettivo “operaia”. Sapevo che da una parte c’erano i poveri dall’altra i ricchi, e in mezzo noi». Un’educazione milanese (Manni, 317 pagine, 16 euro), tra i dodici titoli in lizza per il Premio Strega, è il romanzo intimo di Alberto Rollo, che sa mantenere la responsabilità di raccontare una città, Milano, che fatica a dirsi.


Rollo ha camminato e cammina per la città, esprimendo «la certezza che Milano mi ha voluto, che appartenevo ai suoi sobborghi. Al suo popolo». Quanto siamo esposti all’educazione che la città con la sua vita, le sue forme e stratificazioni sociali anima? Che cosa vuol dire appartenere a una città? Questioni complesse, che l’autore affronta partendo da quella che definisce la lingua parlata dalla città del lavoro; un quartiere, storie e un codice comune senza cesure linguistiche proprie della migrazione. Nel 1909 il nonno arrivò al nord da Lecce. Rollo sostanzia nei ricordi un’appartenenza di classe forte, oggi invece così sfumata, privata della consapevolezza propria di una specie particolare di educazione milanese: «Un’educazione milanese non poteva prescindere dalle officine. È stata certamente una garanzia contro la volgarità», scrive.

L’esplorazione delle linee ferroviarie che intersecano la città coincide col tempo dell’infanzia. Il racconto della scoperta del mondo è un paesaggio dominato da ponti, ferrovie e scali ferroviari «che sono diventati il vero nodo politico ed economico della metamorfosi metropolitana». Rollo volge lo sguardo alla figura paterna, apprendista metalmeccanico all’età di dodici anni, essenziale nella stratificazione di un testo più ricco di un memoir. È domenica, i due perlustrano i luoghi della distruzione e della ricostruzione del secondo dopoguerra mondiale, della città poi d’acciaio del boom economico: «Milano aveva resistito, non lo vedevo? E non era la Milano dei potenti che aveva resistito, loro ci avrebbero mandato al macello».

Il lavoro, che nel lessico di Un’educazione milanese non è alienazione, costituisce il filo conduttore dell’intera riflessione: «Lavoro nel lessico famigliare non ha mai coinciso con “produrre” o “rendere”: significava semplicemente “fare”, “creare” e “sentire la fatica”. Concetti che la mia generazione si è impegnata, giunta la stagione degli eroici furori, a spezzare come aculei ideologici conficcati nel corpo della classe operaia. Col risultato di non comprenderne la specificità e di lasciarli dentro a marcire. E, marcito il concetto, sono marcite anche le parole».

In questo ritratto che è anche politico e sociale dell’Italia del secondo dopoguerra emergono il conflitto e la ribellione alla generazione dei padri, la passione del cinema e le sperimentazioni del teatro, i movimenti e la violenza di matrice politica da dentro o fuori. C’è la Milano attonita dopo la strage di piazza Fontana, e quella che svanisce nella dizione Milano da bere.

Al contempo Rollo esplora in profondità e con levità l’assenza, la potenza di un’amicizia, il venire meno di una generazione che «è stata la prima ad avere occhi diversi». La stessa promessa di rivoluzione, che l’autore storicizza essenzialmente tra il 1967 e il 1975, suggeriva che poi ognuno avrebbe ripreso posto nella classe di origine: «Al di là della tensione genericamente politica, quella necessità di trasformazione era vincolante come una preghiera: i primi a volerla abbattere erano nati dentro quella classe, la conoscevano, e vi sarebbero ritornati, con diversi livelli di consapevolezza». E ancora: «(Chiara) Aveva riconosciuto fra i primi la ricchezza culturale che la mescolanza di generazioni e provenienze sociali aveva provocato e fu tra i primissimi a riconoscere la drammatica evidenza che il gioco stava finendo, che era durato poco perché poco doveva durare, e che era arrivato il momento di serrare le porte, di schierarsi con i suoi diritti di nascita».

La biografia collettiva, che era un noi raffigurato in modo struggente, ora si confronta con gli esiti personali di trasformazioni sociali, urbanistiche ed economiche profondissime nelle quali risultiamo sospesi tra lo smarrimento e la ricerca di nuove identità composite. Rollo nella città che rincorre uno sviluppo verticale e gentrifica, ispeziona cantieri, fotografa lavori in corso, legge i progetti: «Voglio verificare se questo futuro rovesciato in un presente difficile, spesso volgare, spesso politicamente assordato di retorica, sappia rivelare, una volta di più, quel tessuto connettivo vivo e non compromesso che ha consentito a Milano di sopravvivere. Cerco ponti in cui lo spaesamento e il sentirmi a casa coincidano. E su quei ponti finiscono con l’apparire, tenere e meridiane, le figure che mi riconducono là dove io sono cominciato e dove è cominciata per me questa città».

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