di Gabriele Santoro
A Portella della Ginestra s’incontra la storia d’Italia, titolava un articolo de L’Unità. Era il trenta aprile del 1950. Nel giugno del 1983 Rocco Chinnici, un mese prima di essere ucciso dall’esplosione di un’autobomba, spiegò a Giuseppina Zacco, vedova di Pio La Torre, quanto fossero collegate le indagini su Portella della Ginestra e quelle sui delitti politici Reina, Mattarella e dello stesso La Torre.
Portella della Ginestra rappresenta il primo snodo chiave di vicende repubblicane, che hanno il tratto di episodi politici e al contempo appartengono alla storia criminale del nostro paese. Per usare le parole dello storico Salvatore Lupo è stata la prima strategia della tensione nella storia della Repubblica.
Nei pressi della Piana degli albanesi, gli undici morti, fra i quali due bambini e una donna incinta, e i ventisette feriti in un giorno di festa furono un atto politico reazionario, avverso all’anelito di redenzione e affrancamento dal sottosviluppo delle masse diseredate siciliane. Colpire il latifondo e spingere per una politica economica differente, erano le intenzioni. Un censimento del 1936 rilevava che all’epoca i quattro quinti degli addetti all’agricoltura non possedevano terra o erano contadini poveri.
Nella prefazione della significativa riflessione di La Torre Comunisti e movimento contadino in Sicilia, Rosario Villari fissa alcuni punti. Innanzitutto quell’esperienza di lotta fu d’ispirazione democratica e riformatrice. Da lì prese l’avvio la costruzione di una struttura politica e associativa moderna, basata sui partiti nazionali e non più su formazioni personalistiche e autonome locali.
La breccia era stata aperta da Fausto Gullo, un comunista, ministro dell’agricoltura nel secondo governo Badoglio. Nell’ottobre 1944 varò due decreti per l’assegnazione delle terre incolte e mal coltivate ai contadini, ovviando alla necessità di un aumento della produzione di grano, e per il miglioramento della ripartizione dei prodotti della mezzadria impropria a favore dei contadini lavoratori, con potenziali effetti positivi sui redditi. Tali provvedimenti si scontrarono con il potere del gabellotto mafioso, l’intermediario che prendeva in affitto la terra dei grandi agrari assenteisti per poi darla in subconcessione, a condizioni strozzinesche a mezzadri e coloni. In Sicilia alle elezioni del 20 aprile 1947 era accaduto poi un fatto nuovo e detonante: la sinistra, socialisti e comunisti uniti nel Blocco del popolo, aveva vinto, superando la Democrazia cristiana di Alcide De Gasperi.
Di fronte a una vera e propria lotta di liberazione dal dominio dei grandi proprietari terrieri, animata dal movimento contadino siciliano, e al mutare delle condizioni degli equilibri internazionali e interni dopo la Seconda Guerra Mondiale con la rottura dei governi di unità nazionale, dell’unità delle forze del CLN, si scatenò un ampio fronte reazionario di conservazione del quale a settant’anni dalla strage non sono stati delineati tutti i responsabili.
Dopo i morti di Portella della Ginestra in quattro anni furono uccisi 36 dirigenti sindacali. Lo storico Francesco Renda la definì un’ondata di terrorismo agrario mafioso: «La strage di Portella fu un’azione concertata. C’era un’intelligenza politica dietro il fatto che poi non si è riusciti a individuare». Il processo istruito a Palermo e poi spostato a Viterbo per legittima suspicione si concluse nel 1953. I giudici nella loro sentenza esclusero la natura politica dell’eccidio e l’esistenza dei mandanti. Resta la domanda: chi ha armato la banda di Salvatore Giuliano?
«E a Portella della Ginestra, con la presenza di tutto il popolo italiano, sarà data al mondo la testimonianza che la feroce strage del Primo Maggio 1947 – freddamente premeditata dalle classi reazionarie e ferocemente fatta consumare da un bandito che è l’espressione più genuina e nello stesso tempo più abietta dello stato di degradazione e di decomposizione di una casta antisiciliana, antisociale e antinazionale – non ha arrestato il moto dei nostri lavoratori e delle forze democratiche siciliane verso la liberazione», scrisse Girolamo Li Causi, primo segretario del Pci siciliano, il 30 aprile del 1950 su L’Unità.
Lo stesso Li Causi chiese e ottenne un’indagine apposita sulla strage di Portella della Ginestra. Nel febbraio del 1963 si era insediata la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia e sette mesi più tardi, seppur priva di modalità di indagini ben definite, su spinta di Li Causi iniziò a occuparsi dell’eccidio senza alcun risultato concreto già nei primi cinque anni di attività.
«Non è stata ancora raggiunta la verità, specialmente su chi quella strage ha ordinato. L’Antimafia – ha dichiarato nei giorni scorsi il Presidente del Senato Pietro Grasso – ha deliberato di pubblicare gli atti acquisiti a partire dal 1998. Quelli di prima sono già resi pubblici. Ma ci sono ancora molte zone d’ombra da esplorare. Bisogna che chi sa qualcosa metta a disposizione la propria conoscenza. Si deve pensare non solo agli archivi di stato ma anche a quelli dei singoli ministeri. Su questa ricerca ci sono stati proficui contatti con la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi».
La strage di Portella della Ginestra è stata rappresentata dalla cultura italiana, dal cinema alla letteratura fino al ruolo divulgativo della televisione. E spesso si rintraccia quel tono assolutorio di riduzione del male, nel quale si disperde qualsiasi urgenza di verità che invece hanno ancora i familiari delle vittime. Di fronte alla negazione, alla commemorazione che assomiglia all’oblio la resistenza consiste nella trasformazione del lutto. E Portella, ieri come oggi, ricorda davvero che cosa significhi lottare per la dignità del lavoro e la dimensione mai svanita dell’oppressore.
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