lunedì 18 settembre 2017

«La mia Africa tra speranza e disillusione». Una conversazione con il Nobel Wole Soyinka

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 21

di Gabriele Santoro


Lettura dell'intervista a Pagina 3 Rai Radio3

http://www.radio3.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-a8350ee7-7d0d-4b75-9d57-9f2d0cc83466.html

di Gabriele Santoro

«Soyinka, con la sua scrittura versatile è stato capace di sintetizzare la ricchissima eredità culturale del suo paese, miti e tradizioni antiche, insieme al patrimonio letterario e alle tradizioni della cultura europea», si legge nella motivazione con cui l'Accademia svedese nel 1986 assegnò a Wole Soyinka il Premio Nobel per la letteratura.

Poeta, drammaturgo e romanziere, intellettuale, classe 1934, ha sempre unito alla potente immaginazione e creatività un'ineludibile dimensione politica. È stato ospite d'onore del festival Pordenone legge, che si conclude oggi. Ha pubblicato circa venti opere fra testi teatrali, poesie e i due romanzi (Gli interpreti e L'uomo è morto) nuovamente tradotti e ripubblicati in Italia da Jaca book. Nato in un piccolo villaggio prossimo a Ibadan, nella parte occidentale della Nigeria, si è formato e ha sviluppato il proprio talento con un'esperienza fondamentale sul finire degli anni Cinquanta al Royal Court Art Theatre di Londra, per poi tornare in Nigeria.

Per aver invocato la tregua nella guerra civile nigeriana, fu arrestato nel 1967, accusato di cospirazione con i ribelli del Biafra, e trattenuto in carcere per ventidue mesi, dove appuntava sulla carta igienica le proprie poesie di libertà. Ha sfidato poi negli anni Novanta il regime di Sani Abacha. 

Soyinka, nel suo romanzo Gli interpreti, apparso nel 1965, i personaggi esplorano la distanza tra le alte promesse dell'indipendenza e la disillusione per le conquiste mancate. Dopo cinquant'anni che cosa è cambiato?
«Questo romanzo getta uno sguardo sulla mia generazione. Dopo aver studiato all'estero ci sentivamo invincibili, pronti a guidare la rinascita come avanguardia responsabile del riposizionamento dell'Africa nel mondo. Volevamo essere i liberatori del continente dal Sudafrica alla Rhodesia. Al potere invece a livello politico, culturale ed economico si instaurò una classe dirigente in larga parte corrotta, che ha messo i propri piedi sulle orme lasciate dalle vecchie potenze colonizzatrici. E non abbiamo finito di pagare il conto della disillusione».   

La figura di Mandela riempie ancora l'immaginario dei giovani africani, come è stato per la sua generazione? A dicembre l'African National Congress cambierà la propria leadership, è al tramonto la stagione controversa del presidente Zuma.
«Mandela è stato come un fratello maggiore. Dopo la sua liberazione, nel nostro incontro era esattamente l'immagine che mi aveva accompagnato negli anni: un uomo dal coraggio quieto. La sua lotta per la libertà e la dignità umana entrarono nelle mie poesie. Molti non sono stati d'accordo col suo spirito di riconciliazione, considerandolo troppo lento, intendevano produrre una rottura. L'ANC ora attraverserà una transizione delicata, che non deve compromettere ciò che è stato conquistato».

Nel 2040 l'Africa raggiungerà il miliardo di abitanti, il 56% dei quali vivrà in città rispetto al 14% del 1950. Qual è l'impatto culturale e sociale dell'urbanizzazione?
«È la sfida principale. In ogni paese africano questo fenomeno si presenta non strutturato, non governato. In Nigeria il boom petrolifero è stato il motore della crescita esponenziale dell'urbanizzazione e ciò ha colpito con crescente pressione le strutture preesistenti con il conseguente crack dei centri urbani, non pronti ad ammortizzare tale crescita. Senza investimenti pesanti sulle infrastrutture, sui servizi urbani la trasformazione non equivarrà al miglioramento delle condizioni di vita. Ed elemento da non sottovalutare è l'impatto della cultura che porta chi si sposta dalle zone rurali, la loro integrazione».

Fenomeno migratorio: che fare?
«Innanzitutto la responsabilità è alla fonte, i governi dei paesi africani non sono all'altezza delle necessità dei propri cittadini. Vige una gerontocrazia, cerchie ristrette di potere familistico che si arricchiscono alle spese della collettività. L'Europa non può però dimenticare il proprio ruolo secolare destabilizzante in Africa, vera e propria anima con le materie prime dello sviluppo occidentale. Occorre chiudere rotte che disseminano morti nel deserto e nel mare, ma è impossibile rimuovere la pressione migratoria senza risposte economiche e la cessazione dei conflitti».

Gli Stati Uniti, il presidente Carter, la accolsero, esule a causa della dittatura di Sani Achaba. Dopo la vittoria di Trump lei ha rinunciato alla sua green card.
«Mi indigna l'impoverimento del linguaggio, la retorica dell'esclusione. Il muro di Trump è già eretto nelle menti. Sono stato molto coinvolto culturalmente, politicamente, a livello emozionale nel movimento di liberazione dei neri d'America. Tutto ciò è una ferita e ho sentito la necessità del distacco con un gesto simbolico».

In questa stagione della sua vita che cosa rappresentano la scrittura e il teatro?
«La storia africana è inscindibile dalla diaspora, il mio impegno intellettuale si sta concentrando su questo campo accademico vasto e di immenso interesse. Sono cresciuto in un ambiente, la cultura yoruba, in cui tutto era in qualche modo teatro e resta un luogo straordinario di sperimentazione. Vorrei avere più tempo per scrivere, ma l'attivismo politico si intreccia sempre».

Che cosa ha dato la politica alla sua arte?
«Senza l'impegno politico non sarei stato lo scrittore, drammaturgo che sono. La letteratura e il teatro mi hanno consentito di elevarmi dall'intollerabile nella società, rispondendo politicamente. Ciò mi ha tramesso la pace per potermi occupare di arte. Il teatro è stato per me lo strumento più efficace per onorare la responsabilità sociale».

I suoi genitori erano cristiani. Qual è la radice dell'intolleranza religiosa in Nigeria?
«Soprattutto nell'ultimo ventennio la religione ha cominciato a mischiarsi con la politica. Boko Haram è il prodotto di decadi di tatticismo politico, sottovalutazione del problema e sostegno per interesse politico. Le relazioni interreligiose tra cristiani e musulmani in Nigeria si sono deteriorate mediante la speculazione politica sulla gente comune al di fine costruire il proprio potere, l'area di influenza. Occorre combattere la cultura dell'impunità nel terreno religioso, l'Africa è una parte essenziale nella sfida al fondamentalismo: non dimenticate anche le nostre vittime del terrorismo».

Lungo la strada, in nome di una Nigeria stabile e moderna, ha perso amici e uomini coraggiosi come Ken Saro-Wiwa. L'unità del gigante africano è a rischio?
«Spero di no, ma è fuori discussione che i nigeriani siano del tutto insoddisfatti dell'attuale struttura dello Stato, e domandano con determinazione crescente un cambiamento rispetto all'ipertrofica centralizzazione del potere a scapito delle differenze ed esigenze regionali in un paese così vasto. È diffuso un senso di alienazione, mentre nessun gruppo etnico dovrebbe essere oppresso. Tutto è negoziabile anche l'unità del paese, non il diritto delle persone a determinare il proprio futuro».

domenica 10 settembre 2017

Tutto è possibile, intervista a Elizabeth Strout

Il Messaggero, sezione Macro, pag. 23 

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

«Ciò che mi interessa principalmente è scrivere a proposito delle persone, senza accontentarmi di un solo sguardo», ha ripetuto spesso Elizabeth Strout, una delle autrici statunitensi più note, rispettate e ammirate. A Mantova, nei giorni del Festivaletteratura appena finito, è stata forse l'ospite più ricercata, circondata dall'affetto dei lettori.

Nel 2009 la consacrazione con la terza opera, Olive Kitteridge, che le è valsa il Pulitzer. Lei, originaria del Maine, a New York ha costruito la distanza necessaria a raccontare con una cura unica, asciuttezza e con empatia paesaggi interiori ed esteriori della provincia americana, scavando dentro esistenze ferite che ritroviamo nell'opera più recente.

Da circa una settimana è stato pubblicato in Italia il suo nuovo libro Tutto è possibile (Einaudi, 205 pagine, 19 euro, traduzione di Susanna Basso), che esplora ancora in una serie di racconti brevi l'ambiguità, la delicatezza della condizione umana e ciò che in fondo ci fa assomigliare all'estraneo: il sogno di essere compresi.


Strout, il personaggio di Charlie Macauley, un reduce per il quale la guerra non è mai finita, incarna il senso di Tutto è possibile e la ricerca che unisce i racconti che lo compongono. Fino a che punto la guerra è una questione privata?
«È vero. Amo Charlie. È privata, penso che lo sia e rimanga tale. Possiamo parlare della guerra, ed è tutt'altro che negativo, ma resta qualcosa di estremamente intimo, perché non è generalizzabile e non appartiene a tutti. Si tratta di un sentimento anche americano spesso ineludibilmente solitario».

Che cosa rappresenta per lei questo tema?
«Il mio interesse è maturato nel tempo. Lo affrontai già quando scrissi Abide with me (Resta con me, Fazi), perché quegli uomini, originari del Maine con tutto ciò che comporta, appena tornati dalla Seconda Guerra Mondiale non parlavano di quella esperienza. E realizzai che seppure non ne parlassero li consumava dentro. Continuando a scriverne, e in effetti il padre di Lucy Barton è un reduce, ho preso coscienza di quei solchi così profondi. A Charlie è toccata una sorte peggiore rispetto ai reduci della Seconda Guerra Mondiale, il Vietnam, perché nessuno voleva crederci. Hanno catturato il mio interesse uomini che vanno in guerra, ritornano a casa, e le ferite di coloro che non possono riprendere più una vita piena. E questo conta, ci coinvolge tutti».

Nel romanzo emerge l'urgenza, che non è pretesa, di essere accolti. Ciò che più impressiona di queste storie è lo stupore per la gentilezza, che giunge inattesa anche da estranei.
«Sì, succede nel romanzo, anche nel silenzio s'instaurano momenti di connessione che è comprensione. Nella domanda c'è veramente il significato del titolo Tutto è possibile, che riguarda quegli istanti di grazia che possono manifestarsi in modo inatteso alle persone che non credono più possa accadere loro. Il desiderio di essere compresi, e la paura di non esserlo, restano universali».

Quale ricchezza narrativa conserva la provincia?
«Ritengo che il mio interesse per la provincia statunitense dipenda soprattutto dall'illusione che coltivano le persone di una piccola città di conoscersi reciprocamente. Non è così, e lo adoro. Camminando lungo la strada principale di una cittadina le stesse persone si salutano da trent'anni senza sapere nulla dell'altro. Oppure sviluppano e sedimentano, spesso senza alcun fondamento, per anni un'idea su chi sia la persona che percorre le stesse strade. L'inconoscibilità in quanto scrittrice deve interessarmi. Il paesaggio interiore e quello esteriore disegnano, conducono al mio mondo: l'idea che ognuno abbia la propria vita ordinaria e poi esista un altro universo, e la mia scrittura è animata dal come interagiscono».

Il mestiere dello scrivere le ha consegnato una definizione soddisfacente di famiglia?
«Giusto, che cos'è una famiglia? Chi può conoscerla? La situazione si fa interessante, poiché non scegliamo la nostra famiglia e lei non ci sceglie, dunque si tratta di un universo di relazioni completamente differente da un'amicizia. Per uno scrittore è semplicemente entusiasmante gettare scompiglio fra il frastagliato mondo delle famiglie americane».

In Tutto è possibile ripropone con forza la questione della frattura e della dinamica fra classi sociali.
«Oggi i poveri sono sempre più poveri, mentre i ricchi sempre più ricchi. Finalmente in seguito all'elezione di Trump si è iniziato a sviluppare un discorso sulla persistenza delle classi e delle sperequazioni sociali, ma negli Stati Uniti è ancora un argomento tabù. Quando ero giovane si pretendeva che non ci fossero classi ed è folle perché sono sempre esistite».

Viviamo circondati da paure antiche e nuove. I suoi personaggi ne manifestano molte. In che modo riesce a esprimere l'incapacità di contestualizzarle ed elaborarle?
«È una questione centrale. A sessantuno compiuti non ho perso la fascinazione dell'ascoltare, dell'osservare e la meraviglia per ciò che anima le persone come la paura. Ora sento di poter comprendere più a fondo le emozioni. Per amare un personaggio, e devo ammettere che i miei li amo un po' tutti, deve suscitarmi un sentimento speciale. Non mi interessa che si comporti bene o metterlo all'indice. Deve trasmettermi quel sentimento, altrimenti non sarà parte del libro. Lo faccio entrando dentro di loro mentre bruciano, sono soli, riesco a scovarlo in qualche modo. Ciò mi fa sentire bene».

Torna Lucy Barton, il memoir col quale ha successo a New York sembra saper accogliere le storie di tutti in una terra che li accomuna, il paesino di Amgash – Illinois.
«La sua voce è particolare. Ho scritto con l'intento di lasciare molto spazio anche ai lettori, aprendo una porta per farli entrare con le proprie storie. Penso che dovrebbe essere sempre così, è un mio compito creare la condizione. Con il libro My name is Lucy Barton (Mi chiamo Lucy Barton, Einaudi) ho cominciato a farlo in modo deliberato».

mercoledì 6 settembre 2017

Johan Cruijff e la reinvenzione dello spazio

di Gabriele Santoro

Johan Cruijff sapeva accendere la fantasia come pochissimi altri. Ogni suo movimento con il pallone, che Nureyev associava alla danza, era totale e produceva un’eco di emozioni che non si è spenta. Esiste un riconoscimento costante per il gioco dell’Ajax forgiato da Rinus Michels, cuore e anima del Calcio Totale, per una civiltà calcistica avanzata che ha sedotto il mondo, segnando non solo la storia dei Paesi Bassi con il vero fine della bellezza.


Non conta soltanto vincere, ma soprattutto come lo si fa. «Correvano e si passavano la palla in un modo insolito, seducente, scorrevano attraverso il campo seguendo traiettorie ricercate, intricate, ipnotiche», scrive David Winner nel bel saggio Brilliant Orange (minimum fax, 362 pagine, 18 euro, traduzione a cura di Fabio Deotto), che è pure un’anatomia della nazione olandese capace del coraggio e dell’ingegno di attrezzarsi per vivere anche sotto al livello del mare.

«Non è un attaccante, ma fa tanti gol. Non è un difensore, ma non perde mai un contrasto. Non è un regista, ma gioca ogni pallone nell’interesse del compagno», diceva Alfredo Di Stefano, la Saeta rubia madridista, a proposito di Cruijff. Lui in un decennio stravolse il calcio olandese, che all’inizio degli anni Sessanta era ancora del tutto amatoriale, grezzo dal punto di vista tattico. Cruijff, all’epoca poco più che un ragazzino con i capelli lunghi, smilzo ma dall’energia incredibile, velocissimo, è stato l’avanguardia, l’icona di una rivoluzione culturale, politica e sociale che trasformò una piccola nazione puritana, austera e calvinista.

Il calcio è un gioco serio ma elegante, sosteneva Vic Buckingham, l’allenatore che preparò il terreno per il Calcio Totale dell’Ajax: trovarsi d’istinto, controllare sempre il possesso della palla, attaccare senza sosta, sentire come squadra un ritmo e suoni comuni. Dopo il grigiore del periodo postbellico, la battaglia contro la noia non era una cosa semplice e Cruijff come Best, figlio di un venditore di frutta e verdura tifosissimo dell’Ajax nonché amico del custode del campo, l’ha combattuta sul rettangolo verde con l’agilità, la sensibilità e lo stile incomparabile che assomigliavano alla gioia.

A venti anni dalla fine della seconda guerra mondiale, la ribellione giovanile con epicentro ad Amsterdam s’incrociò con quella di una generazione, non solo Cruijff, di calciatori dall’attitudine ribelle, dal talento e dalla sostanza straordinari. L’autore ricorda come la giocosità, talvolta surreale, anarchica e teatrale era interpretata da quella generazione come la chiave per un mondo migliore. La felicità della gente che riempiva lo stadio e l’essere acclamati per il proprio stile rappresentavano le vittorie più importanti.

Il nesso tra una rivoluzione culturale e quella calcistica sta negli obiettivi, stavano facendo tutti un’unica cosa in modi diversi. Ciò che unisce quelle due rivoluzioni è l’atteggiamento liberale nei confronti dell’autorità, dice l’autore. Cruijff provocava l’ordine costituito e smantellò la gerarchia del calcio olandese. Il suo individualismo era creativo, di sistema: «Noi olandesi diamo il meglio quando possiamo combinare il sistema con la creatività individuale. Cruijff è il rappresentante principale di questo approccio. Ha ricostruito questo paese dopo la guerra. Credo sia stato l’unico ad aver realmente capito gli anni Sessanta», argomenta il tecnico Louis Van Gaal.

È interessante anche un altro nesso che lo scrittore esplora, quello con l’architettura, lo sviluppo del concetto di città come opera d’arte totale: «Con quasi quarant’anni d’anticipo sulla scuola calcistica dell’Ajax, la Scuola d’architettura di Amsterdam trovò il modo di conciliare la disciplina collettiva con la creatività individuale». Il principio consiste nella correlazione fra i sistemi per un reciproco scambio di influenze al fine della nascita di un sistema unico, complesso. Le costruzioni dovevano essere ariose, efficienti, flessibili ed esteticamente giocose come è stato il sistema dell’Ajax. La flessibilità nell’interpretazione dei ruoli quanto lo scambio delle posizioni erano un ingrediente fondamentale per indossare quella maglia. Era questione d’istinto e memoria dei movimenti: una forma d’arte collaborativa come l’architettura.

Non è un paradosso la ricerca di un equilibrio prettamente offensivo, che partì dalla difesa aggressiva, con l’acquisto del miglior giocatore dell’allora Jugoslavia, l’inflessibile capitano del Partizan Belgrado, il libero Velibor Vasović.

La parola totaalvoetbal, concetto fondato su una nuova teoria di flessibilità spaziale, entrò a far parte del linguaggio olandese non prima del 1974. Termine utilizzato per descrivere il calcio in stile Ajax giocato dalla nazionale olandese nella Coppa del Mondo di quell’anno persa in finale. Dieci anni prima il decano del design olandese Wim Crouwel aveva lanciato il suo studio Total Design.

Dal 1971 per tre anni consecutivi l’Ajax vinse la Coppa dei Campioni. Il pilastro del gioco consisteva nel reinventare lo spazio a disposizione con nuove geometrie, che allargavano l’estensione fin lì percepita del campo stesso. Si trattava dunque di creare e occupare spazio nuovo, sistematizzando i movimenti senza uccidere la creatività. Si rintraccia così l’identificazione con la storia e la geografia dei Paesi Bassi, uno dei territori più affollati e rigidamente organizzati della terra in lotta costante contro l’invasione delle acque. La stessa origine della democrazia olandese risiede nella costruzione cooperativa delle dighe.

Il saggio s’intreccia in modo interessante con la storia novecentesca europea. Winner rievoca la ferita dell’occupazione nazista e del collaborazionismo con la pagina nera della deportazione degli ebrei da Amsterdam. Lo stadio dell’Ajax era vicino ai quartieri con la più forte presenza ebraica della città e la squadra era immersa nella cultura ebraica, avendo un grande seguito fra gli ebrei.

L’Ajax era un esperimento raro per lo sport professionistico di democrazia e di libertà di cui disponevano i giocatori. Era un equilibrio delicato fra responsabilità collettiva, uguaglianza e individualismo che poteva mettere però in discussione la disciplina e la coesione. Una votazione interna, quasi a rifiutare le necessità di una leadership forte, fece perdere la fascia da capitano a Cruijff e sancì il suo addio all’Ajax, destinazione Barcellona dove da calciatore e poi forse più da allenatore riuscì a infondere lo spirito del calcio offensivo.

«Se le persone dicono che il mio Barcellona giocava il calcio più bello al mondo, cos’altro chiedere?».

Cruijff, scomparso poco più di un anno fa a causa del cancro, mostrava l’audacia e il rifiuto proprio di chi crea. Non si limitò a soddisfare la domanda di calcio preesistente, la ricreò su presupposti differenti. Indicò al proprio mondo la possibilità di una sperimentazione estetica. Rese distinguibile la purezza della sua idea di calcio tanto da ingombrare un’eternità.