domenica 10 settembre 2017

Tutto è possibile, intervista a Elizabeth Strout

Il Messaggero, sezione Macro, pag. 23 

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

«Ciò che mi interessa principalmente è scrivere a proposito delle persone, senza accontentarmi di un solo sguardo», ha ripetuto spesso Elizabeth Strout, una delle autrici statunitensi più note, rispettate e ammirate. A Mantova, nei giorni del Festivaletteratura appena finito, è stata forse l'ospite più ricercata, circondata dall'affetto dei lettori.

Nel 2009 la consacrazione con la terza opera, Olive Kitteridge, che le è valsa il Pulitzer. Lei, originaria del Maine, a New York ha costruito la distanza necessaria a raccontare con una cura unica, asciuttezza e con empatia paesaggi interiori ed esteriori della provincia americana, scavando dentro esistenze ferite che ritroviamo nell'opera più recente.

Da circa una settimana è stato pubblicato in Italia il suo nuovo libro Tutto è possibile (Einaudi, 205 pagine, 19 euro, traduzione di Susanna Basso), che esplora ancora in una serie di racconti brevi l'ambiguità, la delicatezza della condizione umana e ciò che in fondo ci fa assomigliare all'estraneo: il sogno di essere compresi.


Strout, il personaggio di Charlie Macauley, un reduce per il quale la guerra non è mai finita, incarna il senso di Tutto è possibile e la ricerca che unisce i racconti che lo compongono. Fino a che punto la guerra è una questione privata?
«È vero. Amo Charlie. È privata, penso che lo sia e rimanga tale. Possiamo parlare della guerra, ed è tutt'altro che negativo, ma resta qualcosa di estremamente intimo, perché non è generalizzabile e non appartiene a tutti. Si tratta di un sentimento anche americano spesso ineludibilmente solitario».

Che cosa rappresenta per lei questo tema?
«Il mio interesse è maturato nel tempo. Lo affrontai già quando scrissi Abide with me (Resta con me, Fazi), perché quegli uomini, originari del Maine con tutto ciò che comporta, appena tornati dalla Seconda Guerra Mondiale non parlavano di quella esperienza. E realizzai che seppure non ne parlassero li consumava dentro. Continuando a scriverne, e in effetti il padre di Lucy Barton è un reduce, ho preso coscienza di quei solchi così profondi. A Charlie è toccata una sorte peggiore rispetto ai reduci della Seconda Guerra Mondiale, il Vietnam, perché nessuno voleva crederci. Hanno catturato il mio interesse uomini che vanno in guerra, ritornano a casa, e le ferite di coloro che non possono riprendere più una vita piena. E questo conta, ci coinvolge tutti».

Nel romanzo emerge l'urgenza, che non è pretesa, di essere accolti. Ciò che più impressiona di queste storie è lo stupore per la gentilezza, che giunge inattesa anche da estranei.
«Sì, succede nel romanzo, anche nel silenzio s'instaurano momenti di connessione che è comprensione. Nella domanda c'è veramente il significato del titolo Tutto è possibile, che riguarda quegli istanti di grazia che possono manifestarsi in modo inatteso alle persone che non credono più possa accadere loro. Il desiderio di essere compresi, e la paura di non esserlo, restano universali».

Quale ricchezza narrativa conserva la provincia?
«Ritengo che il mio interesse per la provincia statunitense dipenda soprattutto dall'illusione che coltivano le persone di una piccola città di conoscersi reciprocamente. Non è così, e lo adoro. Camminando lungo la strada principale di una cittadina le stesse persone si salutano da trent'anni senza sapere nulla dell'altro. Oppure sviluppano e sedimentano, spesso senza alcun fondamento, per anni un'idea su chi sia la persona che percorre le stesse strade. L'inconoscibilità in quanto scrittrice deve interessarmi. Il paesaggio interiore e quello esteriore disegnano, conducono al mio mondo: l'idea che ognuno abbia la propria vita ordinaria e poi esista un altro universo, e la mia scrittura è animata dal come interagiscono».

Il mestiere dello scrivere le ha consegnato una definizione soddisfacente di famiglia?
«Giusto, che cos'è una famiglia? Chi può conoscerla? La situazione si fa interessante, poiché non scegliamo la nostra famiglia e lei non ci sceglie, dunque si tratta di un universo di relazioni completamente differente da un'amicizia. Per uno scrittore è semplicemente entusiasmante gettare scompiglio fra il frastagliato mondo delle famiglie americane».

In Tutto è possibile ripropone con forza la questione della frattura e della dinamica fra classi sociali.
«Oggi i poveri sono sempre più poveri, mentre i ricchi sempre più ricchi. Finalmente in seguito all'elezione di Trump si è iniziato a sviluppare un discorso sulla persistenza delle classi e delle sperequazioni sociali, ma negli Stati Uniti è ancora un argomento tabù. Quando ero giovane si pretendeva che non ci fossero classi ed è folle perché sono sempre esistite».

Viviamo circondati da paure antiche e nuove. I suoi personaggi ne manifestano molte. In che modo riesce a esprimere l'incapacità di contestualizzarle ed elaborarle?
«È una questione centrale. A sessantuno compiuti non ho perso la fascinazione dell'ascoltare, dell'osservare e la meraviglia per ciò che anima le persone come la paura. Ora sento di poter comprendere più a fondo le emozioni. Per amare un personaggio, e devo ammettere che i miei li amo un po' tutti, deve suscitarmi un sentimento speciale. Non mi interessa che si comporti bene o metterlo all'indice. Deve trasmettermi quel sentimento, altrimenti non sarà parte del libro. Lo faccio entrando dentro di loro mentre bruciano, sono soli, riesco a scovarlo in qualche modo. Ciò mi fa sentire bene».

Torna Lucy Barton, il memoir col quale ha successo a New York sembra saper accogliere le storie di tutti in una terra che li accomuna, il paesino di Amgash – Illinois.
«La sua voce è particolare. Ho scritto con l'intento di lasciare molto spazio anche ai lettori, aprendo una porta per farli entrare con le proprie storie. Penso che dovrebbe essere sempre così, è un mio compito creare la condizione. Con il libro My name is Lucy Barton (Mi chiamo Lucy Barton, Einaudi) ho cominciato a farlo in modo deliberato».

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