Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 21
di Gabriele Santoro
Lettura dell'intervista a Pagina 3 Rai Radio3
http://www.radio3.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-a8350ee7-7d0d-4b75-9d57-9f2d0cc83466.html
di Gabriele Santoro
«Soyinka, con la sua scrittura versatile è stato capace di sintetizzare la ricchissima eredità culturale del suo paese, miti e tradizioni antiche, insieme al patrimonio letterario e alle tradizioni della cultura europea», si legge nella motivazione con cui l'Accademia svedese nel 1986 assegnò a Wole Soyinka il Premio Nobel per la letteratura.
Poeta, drammaturgo e romanziere, intellettuale, classe 1934, ha sempre unito alla potente immaginazione e creatività un'ineludibile dimensione politica. È stato ospite d'onore del festival Pordenone legge, che si conclude oggi. Ha pubblicato circa venti opere fra testi teatrali, poesie e i due romanzi (Gli interpreti e L'uomo è morto) nuovamente tradotti e ripubblicati in Italia da Jaca book. Nato in un piccolo villaggio prossimo a Ibadan, nella parte occidentale della Nigeria, si è formato e ha sviluppato il proprio talento con un'esperienza fondamentale sul finire degli anni Cinquanta al Royal Court Art Theatre di Londra, per poi tornare in Nigeria.
Per aver invocato la tregua nella guerra civile nigeriana, fu arrestato nel 1967, accusato di cospirazione con i ribelli del Biafra, e trattenuto in carcere per ventidue mesi, dove appuntava sulla carta igienica le proprie poesie di libertà. Ha sfidato poi negli anni Novanta il regime di Sani Abacha.
Soyinka, nel suo romanzo Gli interpreti, apparso nel 1965, i personaggi esplorano la distanza tra le alte promesse dell'indipendenza e la disillusione per le conquiste mancate. Dopo cinquant'anni che cosa è cambiato?
«Questo romanzo getta uno sguardo sulla mia generazione. Dopo aver studiato all'estero ci sentivamo invincibili, pronti a guidare la rinascita come avanguardia responsabile del riposizionamento dell'Africa nel mondo. Volevamo essere i liberatori del continente dal Sudafrica alla Rhodesia. Al potere invece a livello politico, culturale ed economico si instaurò una classe dirigente in larga parte corrotta, che ha messo i propri piedi sulle orme lasciate dalle vecchie potenze colonizzatrici. E non abbiamo finito di pagare il conto della disillusione».
La figura di Mandela riempie ancora l'immaginario dei giovani africani, come è stato per la sua generazione? A dicembre l'African National Congress cambierà la propria leadership, è al tramonto la stagione controversa del presidente Zuma.
«Mandela è stato come un fratello maggiore. Dopo la sua liberazione, nel nostro incontro era esattamente l'immagine che mi aveva accompagnato negli anni: un uomo dal coraggio quieto. La sua lotta per la libertà e la dignità umana entrarono nelle mie poesie. Molti non sono stati d'accordo col suo spirito di riconciliazione, considerandolo troppo lento, intendevano produrre una rottura. L'ANC ora attraverserà una transizione delicata, che non deve compromettere ciò che è stato conquistato».
Nel 2040 l'Africa raggiungerà il miliardo di abitanti, il 56% dei quali vivrà in città rispetto al 14% del 1950. Qual è l'impatto culturale e sociale dell'urbanizzazione?
«È la sfida principale. In ogni paese africano questo fenomeno si presenta non strutturato, non governato. In Nigeria il boom petrolifero è stato il motore della crescita esponenziale dell'urbanizzazione e ciò ha colpito con crescente pressione le strutture preesistenti con il conseguente crack dei centri urbani, non pronti ad ammortizzare tale crescita. Senza investimenti pesanti sulle infrastrutture, sui servizi urbani la trasformazione non equivarrà al miglioramento delle condizioni di vita. Ed elemento da non sottovalutare è l'impatto della cultura che porta chi si sposta dalle zone rurali, la loro integrazione».
Fenomeno migratorio: che fare?
«Innanzitutto la responsabilità è alla fonte, i governi dei paesi africani non sono all'altezza delle necessità dei propri cittadini. Vige una gerontocrazia, cerchie ristrette di potere familistico che si arricchiscono alle spese della collettività. L'Europa non può però dimenticare il proprio ruolo secolare destabilizzante in Africa, vera e propria anima con le materie prime dello sviluppo occidentale. Occorre chiudere rotte che disseminano morti nel deserto e nel mare, ma è impossibile rimuovere la pressione migratoria senza risposte economiche e la cessazione dei conflitti».
Gli Stati Uniti, il presidente Carter, la accolsero, esule a causa della dittatura di Sani Achaba. Dopo la vittoria di Trump lei ha rinunciato alla sua green card.
«Mi indigna l'impoverimento del linguaggio, la retorica dell'esclusione. Il muro di Trump è già eretto nelle menti. Sono stato molto coinvolto culturalmente, politicamente, a livello emozionale nel movimento di liberazione dei neri d'America. Tutto ciò è una ferita e ho sentito la necessità del distacco con un gesto simbolico».
In questa stagione della sua vita che cosa rappresentano la scrittura e il teatro?
«La storia africana è inscindibile dalla diaspora, il mio impegno intellettuale si sta concentrando su questo campo accademico vasto e di immenso interesse. Sono cresciuto in un ambiente, la cultura yoruba, in cui tutto era in qualche modo teatro e resta un luogo straordinario di sperimentazione. Vorrei avere più tempo per scrivere, ma l'attivismo politico si intreccia sempre».
Che cosa ha dato la politica alla sua arte?
«Senza l'impegno politico non sarei stato lo scrittore, drammaturgo che sono. La letteratura e il teatro mi hanno consentito di elevarmi dall'intollerabile nella società, rispondendo politicamente. Ciò mi ha tramesso la pace per potermi occupare di arte. Il teatro è stato per me lo strumento più efficace per onorare la responsabilità sociale».
I suoi genitori erano cristiani. Qual è la radice dell'intolleranza religiosa in Nigeria?
«Soprattutto nell'ultimo ventennio la religione ha cominciato a mischiarsi con la politica. Boko Haram è il prodotto di decadi di tatticismo politico, sottovalutazione del problema e sostegno per interesse politico. Le relazioni interreligiose tra cristiani e musulmani in Nigeria si sono deteriorate mediante la speculazione politica sulla gente comune al di fine costruire il proprio potere, l'area di influenza. Occorre combattere la cultura dell'impunità nel terreno religioso, l'Africa è una parte essenziale nella sfida al fondamentalismo: non dimenticate anche le nostre vittime del terrorismo».
Lungo la strada, in nome di una Nigeria stabile e moderna, ha perso amici e uomini coraggiosi come Ken Saro-Wiwa. L'unità del gigante africano è a rischio?
«Spero di no, ma è fuori discussione che i nigeriani siano del tutto insoddisfatti dell'attuale struttura dello Stato, e domandano con determinazione crescente un cambiamento rispetto all'ipertrofica centralizzazione del potere a scapito delle differenze ed esigenze regionali in un paese così vasto. È diffuso un senso di alienazione, mentre nessun gruppo etnico dovrebbe essere oppresso. Tutto è negoziabile anche l'unità del paese, non il diritto delle persone a determinare il proprio futuro».
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