di Gabriele Santoro
Quando tutto sembra perduto, la memoria assomiglia a uno scorcio di futuro. Aleppo, ora frammentata e piena di macerie, era un ponte tra Occidente e Oriente pieno di bellezza. Prima della guerra era il centro industriale, finanziario e la città più popolosa della Siria con oltre due milioni di abitanti. Un luogo fecondo di scambi, culla della musica araba e famosa per la cucina, che resta nell'immaginario un'idea di convivenza possibile nella sempre più conflittuale area mediterranea.
Nei secoli Aleppo ha attirato viaggiatori da tutto il mondo: aveva il suq più esteso in Medio Oriente, che si sviluppava lungo dodici chilometri. Per stare al Novecento, Agatha Christie, che l'amava molto, arrivò ad Aleppo sul Taurus Express e iniziò il suo giallo Assassinio sull’Orient Express (1934) con Hercule Poirot dallo stesso luogo e treno. La città ha resistito all'imporsi violento dell'omogeneità culturale, che aleggia dopo gli esiti devastanti del conflitto siriano ancora in corso. Serviranno anni e decine di miliardi di dollari per restituire una vita non solo economica alla città, che però è piena di confini, di ferite visibili e invisibili difficili da curare.
Il lavoro dello storico londinese Philip Mansel, che è fra gli ospiti internazionali del Festival èStoria, condensato nel libro Aleppo – ascesa e caduta della grande città commerciale siriana (LEG, 312 pagine, 22 euro, traduzione di Vincenzo Valentini) consente di disegnare il ritratto e toccare lo spirito di una città davvero unica, posando lo sguardo oltre la guerra e l'impoverimento della diaspora odierna.
Il lavoro dello storico londinese Philip Mansel, che è fra gli ospiti internazionali del Festival èStoria, condensato nel libro Aleppo – ascesa e caduta della grande città commerciale siriana (LEG, 312 pagine, 22 euro, traduzione di Vincenzo Valentini) consente di disegnare il ritratto e toccare lo spirito di una città davvero unica, posando lo sguardo oltre la guerra e l'impoverimento della diaspora odierna.
Mansel, nel corso dei secoli quali condizioni favorirono il cosmopolitismo ad Aleppo?
«La geografia, l'Islam e l'Impero Ottomano. Aleppo è situata fra l'Anatolia e l'Arabia, il Mediterraneo, il deserto e l'Eufrate. Dalle sue origini ha tenuto insieme greci, turchi, arabi, curdi, armeni e molti altri. Nel 637 spalancò le porte alle armate arabo musulmane, probabilmente considerandole più forti e meno oppressive di quelle dell'Impero Romano. Nella città è fiorita però una comunità ebraica, che ha conservato uno dei più antichi manoscritti della Torah. Ad Aleppo non esistevano grandi santuari religiosi che stimolavano la rivalità e il fervore dei fedeli, come invece succedeva a Gerusalemme, Damasco e Costantinopoli».
Aleppo era la terza città più grande dell'Impero ottomano. In che modo divenne un epicentro mondiale del commercio, unendo Oriente e Occidente dal periodo ellenistico all'età imperiale?
«L'Impero ottomano garantì condizioni più favorevoli ai cristiani e agli ebrei del precedente stato musulmano, poiché necessitava del commercio internazionale e di alleati. La geografia favoriva gli scambi. Aleppo si posizionava lungo le rotte commerciali tra Egitto, Anatolia, Caucaso, Persia, il Golfo e l'Arabia. Dopo il 1909 le linee ferroviarie mostrarono quanto Aleppo fosse una giuntura naturale fra diverse strade da Costantinopoli, Cairo e Baghdad. Si stabilirono i consoli stranieri, che tutelavano i mercanti dei propri paesi: Francia, Paesi Bassi, Gran Bretagna e dal tredicesimo secolo Venezia. Divenne una grande città manifatturiera, realizzando prodotti tessili per il mercato dell'Impero».
Aleppo non era solo commerci. Come lei ricorda oltre sei secoli fa si respirava una libertà sconosciuta in Europa.
«Sì, la libertà attraeva e colpiva i viaggiatori stranieri del sedicesimo secolo. Non esistevano ghetti come a Roma e Venezia, dove gli ebrei dovevano pagare per essere rinchiusi la sera. Le comunità non erano forzate a vivere in diversi quartieri, seppure molti lo facessero per essere più vicini a una chiesa, moschea o sinagoga. Aleppo era più tollerante e globale di Damasco».
Che cosa accadde alla città dopo il collasso politico della Prima Guerra Mondiale?
«Aleppo scampò al grosso dei combattimenti, ma non all'annientamento degli armeni da parte del governo ottomano. Fedele allo spirito della città, un governatore chiamato Celal Bey sulle prime sfidò gli ordini di deportazione degli armeni. La geografia che aveva reso Aleppo un crocevia commerciale, la rese anche un crocevia delle marce della morte. I conflitti odierni risalgono ancora alla definizione dei confini voluti dai Paesi europei vittoriosi dopo la dissoluzione dell'Impero ottomano. Tra i nazionalismi nascenti e i settarismi religiosi, Aleppo restò profondamente multiconfessionale e cosmopolita, più cristiana che mai dai tempi della conquista araba».
La cinta muraria della città medievale è stata un brutale campo di battaglia fino a un anno fa. È immaginabile un recupero della sua funzione simbolica?
«Credo possa accadere in superficie. Penso al risveglio di Berlino dopo il 1945 e Beirut dopo il 1990. Ma è estremamente difficoltoso. L'odio è il nemico più ostico, particolarmente quello tra sciiti e sunniti che dilania gli islamici. I nodi del conflitto permangono. Gigantografie del presidente Assad contemplano le rovine di Aleppo, come sulle macerie di Homs e delle altre città siriane. Tantissime persone originarie del posto hanno cominciato a costruire una nuova vita all'estero. La fiducia reciproca è l'elemento più complesso da ricreare. La paura divora l'anima. Ci sono state troppe morti, furti e dolori. Ci vorrà moltissimo tempo davvero perché Aleppo ritrovi sé stessa».
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