Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 28
di Gabriele Santoro
di Gabriele Santoro
Patrizia e Ferdinando non hanno mai varcato il confine del proprio quartiere. In trent'anni non hanno desiderato una vacanza. La rosticceria, in cui coltivano e tramandano la cultura culinaria genovese, è il luogo che li fa sentire vivi e che ambiscono a custodire.
Michele Vaccari, scrittore ed editor, classe 1980, nato e cresciuto a Marassi, un quartiere di Genova, col romanzo Un marito (Rizzoli, 233 pagine, 20 euro) entra con cura e solidità narrativa in queste due esistenze, decidendo di porle e di porci dinanzi alla sfida del cambiamento. La ricerca di Vaccari consiste nel dare voce agli autentici sentimenti di un uomo e di una donna dentro a una precisa collocazione spaziale, che li definisce.
«Volevo raccontare la normalità, che ormai sembra perduta – dice Vaccari –. L'obiettivo era restituire esattamente la sensazione del tempo di un amore cristallizzato, uguale ogni giorno. Nei due aleggia la gioia nel vivere la normalità».
La costruzione di un amore, che punta laicamente all'eternità, è legata allo spazio urbano. Marassi ha un peso quasi dittatoriale, affinché questo accada. Li fa sentire dentro a una bolla. L'idea che Vaccari riesce a raffigurare è che puoi nascere e morire in periferia senza la necessità di raggiungere il centro. È il limite spaziale e non solo emotivo che ancora demarca il nostro abitare la città.
Lo scrittore prova a rispondere alla domanda su che cosa sia Marassi e più in generale la periferia oggi: «È stato un ghetto felice – spiega –. È periferia più architettonica che sociale. Un quartiere dormitorio a sé stante in cui il proletariato diventava piccola borghesia rassicurato dalle certezze acquisite, che spegnevano ogni volontà di crescita socioculturale. Genova è stata costruita da est a ovest, Marassi sorge a nord, dista un chilometro dal centro ed è in piano con la luce che arriva sempre riflessa».
La questione interessante, che la lettura suscita, è come un luogo creato oltre sessant'anni fa con criteri non solo abitativi ma sociali ed economici molto precisi, possa tenere insieme le persone in un mondo totalmente stravolto e disgregato sia a livello di lavoro sia demografico. Patrizia e Ferdinando sembrano voler erigere un argine, prima di essere travolti.
«Genova è nata e si è sviluppata intorno a un'idea continua di cambiamento, che poi è venuta meno – sostiene Vaccari –. È diventata una città granitica, qualcosa che non poteva più evolversi, poiché considerata il meglio assoluto, una sorta di paradiso. Lavoravano quasi tutti e in fondo stavano bene. C'erano grandi progetti firmati da architetti famosi. Il Ponte Morandi prometteva il futuro. Poi l'idea di rivoluzione si è trasformata in conservazione e infine in ripiegamento su sé stessa». E ora? «Genova è una città arresa all'idea che sia condannata dallo sviluppo ipertrofico e sregolato che l'ha resa grande. Viviamo un'assuefazione all'emergenza, che diventa ordinaria, mentre bisognerebbe reinventare tutto».
Il genovese Fabrizio De Andrè si definiva un emigrante a Milano, quasi a voler marcare la profonda distanza tra le due città. Il fatto di andarci in vacanza per soli tre giorni è quasi una migrazione anche per Patrizia, che nutre molta paura e domanda: “Quando torneremo, saremo cambiati?”
«Per loro andare a Milano è una svolta epocale – aggiunge l'autore –. Milano vuol dire non guardare più con gli stessi occhi la propria normalità. Milano è una città che ti costringe a essere parte di una società fluida, che vive su Internet: non si appartiene più a un luogo ma a una proiezione del mondo. È questa la cosa che li spaventa. La tragedia per loro è rendersi conto di essere parte di un mondo dal quale oggi è fortissima la spinta a ritrarsi e proteggersi».
A Milano la coppia genovese è costretta a misurarsi con una delle paure del nostro tempo, il terrorismo che ha guadagnato spazi di potere con la paura che distilla e gestisce. Il viaggio è segnato da una bomba che deflagra in Piazza Duomo. Nel romanzo nessuno si chiede chi abbia piazzato l'ordigno. I due illuminano il dolore intimo che ha segnato la storia della Repubblica e cercano di colmare il vuoto che lascia un'esplosione.
Michele Vaccari, scrittore ed editor, classe 1980, nato e cresciuto a Marassi, un quartiere di Genova, col romanzo Un marito (Rizzoli, 233 pagine, 20 euro) entra con cura e solidità narrativa in queste due esistenze, decidendo di porle e di porci dinanzi alla sfida del cambiamento. La ricerca di Vaccari consiste nel dare voce agli autentici sentimenti di un uomo e di una donna dentro a una precisa collocazione spaziale, che li definisce.
«Volevo raccontare la normalità, che ormai sembra perduta – dice Vaccari –. L'obiettivo era restituire esattamente la sensazione del tempo di un amore cristallizzato, uguale ogni giorno. Nei due aleggia la gioia nel vivere la normalità».
La costruzione di un amore, che punta laicamente all'eternità, è legata allo spazio urbano. Marassi ha un peso quasi dittatoriale, affinché questo accada. Li fa sentire dentro a una bolla. L'idea che Vaccari riesce a raffigurare è che puoi nascere e morire in periferia senza la necessità di raggiungere il centro. È il limite spaziale e non solo emotivo che ancora demarca il nostro abitare la città.
Lo scrittore prova a rispondere alla domanda su che cosa sia Marassi e più in generale la periferia oggi: «È stato un ghetto felice – spiega –. È periferia più architettonica che sociale. Un quartiere dormitorio a sé stante in cui il proletariato diventava piccola borghesia rassicurato dalle certezze acquisite, che spegnevano ogni volontà di crescita socioculturale. Genova è stata costruita da est a ovest, Marassi sorge a nord, dista un chilometro dal centro ed è in piano con la luce che arriva sempre riflessa».
La questione interessante, che la lettura suscita, è come un luogo creato oltre sessant'anni fa con criteri non solo abitativi ma sociali ed economici molto precisi, possa tenere insieme le persone in un mondo totalmente stravolto e disgregato sia a livello di lavoro sia demografico. Patrizia e Ferdinando sembrano voler erigere un argine, prima di essere travolti.
«Genova è nata e si è sviluppata intorno a un'idea continua di cambiamento, che poi è venuta meno – sostiene Vaccari –. È diventata una città granitica, qualcosa che non poteva più evolversi, poiché considerata il meglio assoluto, una sorta di paradiso. Lavoravano quasi tutti e in fondo stavano bene. C'erano grandi progetti firmati da architetti famosi. Il Ponte Morandi prometteva il futuro. Poi l'idea di rivoluzione si è trasformata in conservazione e infine in ripiegamento su sé stessa». E ora? «Genova è una città arresa all'idea che sia condannata dallo sviluppo ipertrofico e sregolato che l'ha resa grande. Viviamo un'assuefazione all'emergenza, che diventa ordinaria, mentre bisognerebbe reinventare tutto».
Il genovese Fabrizio De Andrè si definiva un emigrante a Milano, quasi a voler marcare la profonda distanza tra le due città. Il fatto di andarci in vacanza per soli tre giorni è quasi una migrazione anche per Patrizia, che nutre molta paura e domanda: “Quando torneremo, saremo cambiati?”
«Per loro andare a Milano è una svolta epocale – aggiunge l'autore –. Milano vuol dire non guardare più con gli stessi occhi la propria normalità. Milano è una città che ti costringe a essere parte di una società fluida, che vive su Internet: non si appartiene più a un luogo ma a una proiezione del mondo. È questa la cosa che li spaventa. La tragedia per loro è rendersi conto di essere parte di un mondo dal quale oggi è fortissima la spinta a ritrarsi e proteggersi».
A Milano la coppia genovese è costretta a misurarsi con una delle paure del nostro tempo, il terrorismo che ha guadagnato spazi di potere con la paura che distilla e gestisce. Il viaggio è segnato da una bomba che deflagra in Piazza Duomo. Nel romanzo nessuno si chiede chi abbia piazzato l'ordigno. I due illuminano il dolore intimo che ha segnato la storia della Repubblica e cercano di colmare il vuoto che lascia un'esplosione.
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