di Gabriele Santoro
Nel 1971 Ferdinand Lewis Alcindor Jr., newyorchese classe 1947, cambiò il nome in Kareem Abdul-Jabbar, dopo la conversione all’Islam nel 1968, il boicottaggio dell’Olimpiade per protestare contro la discriminazione razziale negli Stati Uniti e la conquista del titolo Nba con i Milwaukee Bucks. Alcindor era il cognome dello schiavista, che portò in America e oppresse nelle piantagioni i familiari del campione.
Alla nascita Abdul-Jabbar misurava 57 centimetri, poi il talento e l’applicazione l’hanno reso un padre nobile del gioco a canestro. Alla Power Memorial High School, nella natia New York, oltre a vincere 88 delle 90 partite disputate, registrando il record di punti segnati, cominciò a prendere coscienza politica e sociale del significato delle proprie radici: il senso delle lotte di Harlem, della cultura e della comunità in cui era cresciuto. Il padre gli insegnò ad amare il jazz, la pallacanestro e la madre gli trasmise l’importanza della compassione.
Il fuoriclasse, che al college con coach Wooden trascinò UCLA alla vittoria di tre campionati NCAA, per poi dominare l’Nba con sei titoli in venti stagioni, se non fosse diventato un giocatore di basket, avrebbe voluto insegnare storia. Il memoir di Jabbar Sulle spalle dei giganti. La mia Harlem: basket, jazz, letteratura (add editore, 349 pagine, 19 euro, traduzione di Alessandra Maestrini) restituisce la dote preziosa di chi sa studiare, leggere e interpretare il passato per vivere con consapevolezza il presente.
«Più di tutto sono stati un periodo e un luogo a darmi una grande ispirazione – scrive Jabbar con Raymond Obstfeld – . Tra il 1920 e il 1940, nel quartiere di Harlem, alcuni dei più grandi artisti, musicisti, scrittori, attori e atleti statunitensi si impegnarono in una rivoluzione culturale che avrebbe cambiato la propria nazione per sempre. Quel periodo è conosciuto come Harlem Renaissance, il Rinascimento di Harlem, perché come quello italiano ha ridefinito un’intera cultura».
Che cosa ha rappresentato quel quartiere? Sottraendosi all’ombra della Manhattan bianca, è stato il sogno di un luogo vitale in cui i neri potessero esprimere e realizzare pienamente sé stessi. Non casualmente Jabbar cita James Baldwin fra gli scrittori d’elezione.
Il jazz è il fratello maggiore della rivoluzione, lo segue ovunque va, sosteneva Miles Davis. E nel racconto di Jabbar la capitale dell’America nera, come fin dall’inizio del ventesimo secolo è stata identificata Harlem, è il simbolo della fine dell’acquiescenza degli afroamericani verso l’ingiustizia, la povertà e la marginalità. Nell’area geografica dei cinque chilometri quadrati di Harlem troviamo una profondissima stratificazione culturale e una storia in costante movimento, che Jabbar ricostruisce strada per strada, locale per locale: dal Cotton Club all’Apollo Theater, l’auditorium più prestigioso della zona in cui si esibivano Louis Armstrong, Ella Fitzgerald e Billie Holiday.
Se il jazz rese visibili i musicisti neri, la pallacanestro, alla quale in tenera età Jabbar preferiva il baseball, lo fece entrare nella dimensione del mito con lo strapotere fisico e con quello della parola. Jabbar è maturato, percorrendo le orme di Malcolm X e quelle di Martin Luther King Jr, animato dalle stesse consapevolezze e libertà che Tommie Smith, Peter Norman e John Carlos espressero cinquant’anni fa ai giochi olimpici di Città del Messico.