Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 28
di Gabriele Santoro
di Gabriele Santoro
«Senza carta, penna e inchiostro, ho disegnato e scritto le mie prime parole sulle tessere del razionamento del cibo, usando la matita rossa e blu di un falegname. E mi è rimasto un certo gusto per i supporti ruvidi e per le matite semplici», racconta Jean-Marie-Gustave Le Clézio, classe 1940, insignito nel 2008 del Premio Nobel per la letteratura, che non ha perso il senso del viaggio e della scrittura.
Il suo romanzo più recente, appena tradotto e pubblicato in Italia da La nave di Teseo, porta il lettore in Corea del Sud, alla scoperta di Seul, posando sulla città icona della mondializzazione lo sguardo straniero di una donna giovane e tenace, che approda dalla campagna. Bitna, sotto il cielo di Seul (traduzione di Anna Maria Lorusso, 155 pagine, 18 euro) è la storia della ricerca della libertà di una studentessa povera, che però conosce il potere della parola e intravede quello della letteratura.
Bitna ama leggere e in una libreria di Seul trova un annuncio di lavoro, che le consente di affittare una piccola stanza in periferia e di mantenersi durante gli studi. Salomé, un’anziana signora, cerca qualcuno che le faccia compagnia, narrando storie, e svela il talento di Bitna. In questo romanzo c’è traccia «dell’autore di nuove partenze, avventure poetiche ed estasi sensuali, indagatore di un’umanità che va al di là e nel profondo della cultura dominante», riprendendo le motivazioni dell’assegnazione del Nobel.
A Seul vivono oltre dieci milioni di persone e, considerando l’intero agglomerato periferico, il numero raddoppia. Che cosa significa abitare la città?
«La verità è che non abbiamo trovato ancora alcuna soluzione all’atomizzazione dei legami urbani. Bitna sostiene che la città è così estesa e popolata che si potrebbe camminare un milione di giorni senza incontrare due volte la stessa persona. Ogni giorno Seul si allarga. Si tratta di un flusso inarrestabile. È una città evidentemente cosmopolita e multiculturale in cui s’intrecciano moltissime lingue».
La lotta di Bitna per emergere nella società sudcoreana è aspra.
«Ho trascorso circa quattro anni a Seul, insegnando presso l’università femminile di Ewha, che è un vero vivaio di talenti e d’immaginazione. Le giovani ragazze coreane sono portate per le arti e alimentano la nuova cultura coreana, molto più di quanto non facciano gli uomini. Han Kang, vincitrice due anni fa del Man Booker Prize, è nota quasi ovunque nel mondo, ma non è sola. Nel panorama letterario sudcoreano spiccano le donne. Le scrittrici hanno lottato per imporsi, perché la società coreana è molto maschilista e non lo accettava facilmente. Seul è una città in cui si lotta ed è fertile per la letteratura».
Perché?
«Un elemento è stato la distruzione della città durante la Seconda Guerra mondiale. Seul è stata rasa al suolo, come Colonia in Germania, e tutto è stato ricostruito. Con l’immaginazione le donne hanno saputo andare oltre la disperazione provocata da tale annientamento».
Quale impatto continua ad avere la demarcazione, che separa le due Coree dal 1953?
«C’è il desiderio di varcarla. ”Un giorno attraverseremo il fiume, passeremo le montagne e saremo di nuovo casa”, canta la madre di Cho, raffigurato da Bitna. E al contempo il peso della frontiera, per quanto sia invisibile, non si cancella facilmente. È un’angoscia latente, che aleggia sulla città e influisce soprattutto sui giovani veramente sensibili al tema. Ogni volta che qualcuno tossisce in Corea del Nord, al Sud le persone tirano fuori le maschere e sono pronte a ripararsi».
Nel romanzo affiora la solitudine in una capitale ipertecnologica. A Seul c’è spazio per chi resta indietro?
«Sì, è vero. Occorre raccontare anche la solitudine degli esclusi dall’imponente sviluppo sudcoreano. Nella filosofia di vita coreana, che proviene dal Confucianesimo, la dignità è un elemento fondamentale».
Nel discorso di accettazione del Premio Nobel, perché ha scritto che la letteratura è ancora più necessaria rispetto ai tempi di Byron e Hugo?
«Era utile anche all’epoca di Byron, ma si rivolgeva a un’élite. La letteratura deve trovare nuovi lettori ed entrare nel paesaggio di chi non legge mai. E si può realizzare, facendo sapere che dentro i libri ci sono anche le loro vite da andare a cercare».
L’arte del viaggio è stata fondamentale nella sua formazione. Oggi che cosa rappresenta?
«Sono nato nomade. Dopo aver trascorso del tempo in un luogo, sento il bisogno di andarmene, di respirare e di guardare altri paesaggi. Scrivo per viaggiare. Ho amato vivere in Africa, quando ero bambino, e forse non l’ho mai abbandonata. Ho trascorso la mia infanzia immaginando sempre di andare altrove. Da utopista, in possesso di un passaporto francese, non smetto di sognare il tramonto della frontiera».
Che effetto le fa la marcia dei migranti?
«Non vedo la novità. Da sempre le persone cercano di fuggire dai paesi poveri in cui c’è una violenza istituzionalizzata e la politica è repressiva. Nel continente americano ma non solo è una costante. E mi permetto di aggiungere una questione».
Quale?
«Nonostante le teorie sul mondo interconnesso essere nati con il passaporto sbagliato è ancora una disdetta. Il tema è la cittadinanza e che cosa stia diventando. Avverto come una profonda ingiustizia, testimone della nostra epoca, il divario di valore tra il mio passaporto di Mauritius e quello francese».
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