di Gabriele Santoro
ROMA - Il Sistema camorra insanguina le strade e fa affari in tutti i campi dell’economia lecita e illecita. Un Sistema che coniuga la morte al massimo grado di competitività sul mercato globale. Il libro fotografico “L’Ultimo sangue”, con le immagini di Stefano Renna e i testi di Marco Salvia, fa parlare la violenza che riecheggia dai vicoli di Napoli martoriati da vent’anni di omicidi. I testi che accompagnano la narrazione fotografica sono scritti in lingua italiana mista al dialetto partenopeo. Un contesto sociale in cui il valore della vita lascia progressivamente il passo all’assuefazione all’orrore, alla prevaricazione. La camorra viene vista come una violenza primitiva che regola i rapporti tra gli uomini nei quartieri, nelle strade. La gente assiste immobile al rituale macabro dell’omicidio di camorra.
Una legge di sangue e denaro che stride con l’apparente normalità della vita quotidiana di una città come Napoli e si allarga a macchia d’olio in tutto il Paese. In assenza dello Stato diventare camorrista significa uscire dal nulla di un’esistenza ai margini di tutto: molti pensano “meglio un giorno da leone”, ma in pochi arrivano alla sera. Il libro è una cronaca del dramma di una città, Napoli, che soccombe giorno dopo giorno sotto i tentacoli di un’organizzazione criminale che si è talmente radicata nel territorio, prima quello extraurbano e poi quello urbano, da diventare sistema sociale. Il simbolo del “ferro”, ovvero la pistola, rappresenta l’arroganza e il potere del camorrista. La pistola regola gli equilibri sociali, chi non ce l’ha non conta niente. Il ruolo della donna camorrista nel sistema è centrale: nelle famiglie spesso svuotate dall’elemento maschile, morto ammazzato o in carcere, la donna si sostituisce al capofamiglia in tutto con una ferocia e determinazione ancora maggiore. Il progressivo esaurirsi di ogni ritegno morale abbassa l’età degli affiliati e dell’esercito della morte: i killer sono minorenni, appartengono alla legge del branco che non ammette deroghe.
Le fotografie di Stefano Renna raccontano il dolore di una madre che perde il proprio figlio crivellato dai colpi di un killer. Corre al Pronto Soccorso e non riesce nemmeno a riconoscerlo per come è stato ridotto. “Giuvinò, facitammelo verè, ‘na vota solamente e glielo dissi che era figlio a me. Ma quando stavo là, vicino a quel lenzuolo tutto rosso di sangue, mi mancò la forza e rimanette, e pure questa volta ci potetti guardare solo i piedi”. Marco Salvia, mediante la figura del “Beccamort” Giovanni Cascione, spiega come la morte sia accettata come un fatto insito nella cultura camorristica dominante.“E così per ventidue anni ho scorazzato i morti uccisi di questa città e vi dico mi sembrano tutti uguali. Molte cose li acccomunano: sò pesanti, sò fetenti, fanno ribrezzo e a volte puzzano pure. E allora pensandoci bene un giorno ho capito che queste qualità pure la mondezza le tiene, allora forse quello che diceva mamma è verità. “Ninù dicevva mammà mia, nun ti preoccupà, perché o vire cà, a Napoli, ‘a morte nunn’è morte: è munnezza”.
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