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di Gabriele Santoro
ROMA (18 giugno) - Solo per giustizia (Mondadori, pag. 334, euro 17) è il viaggio con lo sguardo all’indietro nella esperienza di vita di Raffaele Cantone, magistrato impegnato per otto anni, fino al 2007, alla Dda di Napoli nel contrasto della camorra, in particolare del clan dei Casalesi.
Un’azione che lo ha messo nel mirino dei boss, più volte minacciato di morte e la scoperta di un progetto di attentato ai suoi danni, e che lo costringe a un regime di protezione dal 2003. La storia di un magistrato dai toni pacati e dai modi gentili, ma con la determinazione ferrea di chi continua a dedicare le proprie energie alla diffusione della cultura della legalità e di quella personale, semplice passione per la giustizia che ha da sempre contraddistinto la sua attività. Un esempio del suo impegno sono le numerose visite nelle scuole per raccontare il vero volto della camorra. Il primo incontro con Raffaele Cantone è avvenuto proprio in una scuola romana, l’I.I.S.S.Leon B. Alberti, «perché come ricordavano Falcone e Borsellino la sola attività giudiziaria non sarebbe mai bastata per distruggere il fenomeno mafioso. Bisognava altrettanto adoperarsi affinché nascesse una coscienza civile capace di affrancarsene».
Il suo libro parte dall’ultima giornata di lavoro nell’ufficio della Procura di Napoli. Quanto le manca il lavoro di contrasto quotidiano alla camorra?
«Mi manca davvero tanto, perché era un lavoro molto stimolante e gratificante. Credo però che sia giusto, dopo un certo periodo, un fisiologico ricambio. L’esperienza in Cassazione (presso l’Ufficio del Massimario, ndr) per me è ugualmente interessante, mi metto a studiare e a fare una serie di cose che nell’attività della procura erano diventate difficili.
Falcone disse “In Italia ci vorrebbe un morto ammazzato eccellente all’anno per far stare il Paese dalla parte della legalità”». Lei si è sentito solo in questi anni e cosa le manca della sua vita di prima?
«L’attenzione mediatica su certi fenomeni è fondamentale, purtroppo si accende solo nei momenti di emergenza, una volta passata ci si dimentica un po’ di tutto. Nella mia esperienza non mi sono mai sentito abbandonato, sarebbe ingiusto dirlo. Lo Stato ha cercato sempre di tutelarmi con anni di scorta. Questo non significa che non ci si senta soli, soprattutto nei momenti delle decisioni più difficili. Mi manca la quotidianità della vita delle persone normali, una semplice passeggiata o la possibilità di muovermi in autonomia con la mia famiglia. Ecco questo è il peso più difficile da sopportare con tutte le limitazioni nella vita con i miei figli e i familiari più stretti».
Il clan dei Casalesi ha subito forti colpi grazie all’azione giudiziaria e delle forze dell’ordine. Quanto sono ancora potenti e pericolosi? Dopo il summit dei capiclan camorristici a Montecarlo, in che direzione si sta muovendo la camorra?
«Credo che il clan dei Casalesi, malgrado i colpi durissimi che ha ricevuto, sia ancora molto forte. Con l’arresto di Setola è stata sicuramente smantellata la cellula stragista, l’ala militare del gruppo, ma la sua struttura imprenditoriale è ancora in piedi. I due latitanti storici Zagaria e Iovine sono ancora in libertà, come loro ci sono in circolazione altri latitanti minori ma comunque pericolosi. Hanno una forte capacità di imporsi anche al di fuori della realtà casertana, sono ramificati nel centro-nord del Paese e all’estero. L’idea che continuo ad avere, anche se non mi occupo più direttamente delle indagini, è che la camorra non abbia una direzione strategica unitaria. Ogni tanto c’è qualcuno che cerca su singoli affari di creare meccanismi di cartello, ma i clan sono molto gelosi delle loro autonomie e da Cutolo in poi tutti quelli che hanno provato a riunire la camorra hanno fallito».
In questi giorni si è riacceso lo scontro dopo l’approvazione del ddl intercettazioni alla Camera. Come incide il disegno di legge sul contrasto alla criminalità organizzata?
«Formalmente il disegno legge non cambia nulla in materia di intercettazioni per la criminalità organizzata. Le limitazioni previste per i reati non collegati alla mafia tuttavia peseranno indirettamente e negativamente. L’esperienza dimostra che molti processi nati da indagini su singoli omicidi o estorsioni, in un secondo momento si sono trasformati o collegati a scenari più ampi che riguardavano il crimine organizzato. Un altro aspetto non abbastanza valutato è l’appesantimento delle procedure. In questo c’è una norma pericolosa che prevede la necessità di trasmettere al giudice, quando si chiede l’intercettazione, tutti gli atti d’indagine compiuti. Una quantità incredibile di atti che produrrà un forte rallentamento dell’azione giudiziaria».
A oggi il sequestro e la confisca dei beni mafiosi procede molto a rilento. Quanto sarebbe utile un’agenzia centrale per il loro coordinamento?
«In primo luogo sarebbe indispensabile semplificare le procedure, attendiamo da tempo l’emanazione di un testo unico maggiormente organico. La normativa è comunque troppo farraginosa, i tempi tra il sequestro e la confisca sono lunghissimi. L’agenzia sarebbe importante per evitare che l’attività più delicata, che è quella di liberare i beni, pesi interamente sulle spalle degli enti locali. Inoltre si potrebbe occupare dell’individuazione dei beni strategici e della loro ristrutturazione. Un tema fondamentale è quello delle aziende confiscate, dove serve più coraggio. Lo Stato non può permettersi di farle fallire, arrecando un danno alle realtà locali e d’immagine di fronte a una mafia che invece dà lavoro. Si dovrebbe cominciare dal garantire delle sospensioni o delle riduzioni d’imposta e una serie di benefici che consentano a queste imprese di operare».
Solo per giustizia racconta molte storie di italiani normali, come era Federico Del Prete, ma straordinarie per il loro impegno in una terra dove i diritti individuali diventano concessioni. Mentre a Napoli abbiamo visto l’altra faccia del Paese, tramortita dalla paura e dall’agghiacciante omertà anche di fronte all’omicidio di un innocente come Petru.
«Del Prete non aveva nessuno dei caratteri tipici dell’eroe antimafia. Credeva semplicemente che facendo il sindacalista bisognasse andare fino in fondo nella tutela di certi diritti. Non tollerava che nel suo mestiere di venditore ambulante a Casal di Principe, pieno già di difficoltà, si dovessero subire le vessazioni quotidiane della camorra. Grazie alla sua collaborazione furono individuati i luoghi in cui venivano raccolte le estorsioni, permettendo alla magistratura e alle forze dell’ordine la conoscenza e la repressione del fenomeno. Nel suo gesto da semplice cittadino c’era una carica rivoluzionaria, fortemente temuta dalla camorra. Vedendo il video di quella morte tremendamente casuale sono rimasto anch’io agghiacciato e commosso per il dolore della sua giovane compagna. Cittadini che passano indifferenti. Vince la paura di essere coinvolti in successive sparatorie, la paura di essere coinvolti nell’attività delle indagini nel clima di omertà che avvolge Napoli».
Visto il successo dei magistrati che scendono in politica, ha mai pensato al grande salto?
«La ragione del successo penso che risieda nella fiducia, nell’idea che la magistratura resti un punto di riferimento credibile. Non ci ho mai pensato seriamente, perché amo il mio lavoro in magistratura. Il magistrato che entra in politica ha senso solo se ha un progetto, altrimenti si tratta di un momento di sistemazione personale inutile e fine a se stesso».
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