mercoledì 6 marzo 2013

Il lavoro nelle carceri italiane: da Torino a Roma le storie di reinserimento sociale



di Gabriele Santoro

ROMA – «
V.S. si muoveva con pesantezza. Le braccia mostravano segni evidenti di ferite da taglio, leggere ma fitte. All’inizio era schiva, mi fissava con l’ira negli occhi e chiedeva alle guardie di essere riportata in cella. Tra tessuti, lane, bottoni e filati ha compiuto il primo passo verso il cambiamento. Non erano solo una distrazione, ma la materia per trasformarsi. Noi abbiamo governato artisticamente i suoi eccessi, lei ha scoperto la propria grazia».

Monica Cristina Gallo, fondatrice dell’associazione culturale La Casa di Pinocchio, comincia così a raccontare l’impresa quotidiana che si sviluppa nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Un laboratorio tessile dietro le sbarre, sostenuto dalla Compagnia San Paolo, in cui la manualità, la capacità di progettare e produrre da materiale riciclato di un gruppo di detenute, regolarmente contrattualizzate e retribuite, ha portato due anni fa alla nascita di Fumne (donne in dialetto piemontese, ndr), un marchio di moda ormai commercializzato nei negozi.
Laboratorio Fumne, Lorusso e Cotugno di Torino
«Siamo rimaste stupite soprattutto dalla loro energia creativa - dice Monica -. Come mi disse una signora: “I vostri capi d'abbigliamento e accessori (borse, sciarpe, collane, bracciali) si distinguono, hanno un’anima”. Il lavoro restituisce un’identità ed educa al rispetto delle regole, stabilendo un ponte con il mondo esterno». Ogni sabato infatti il Fumnelab accoglie donne libere, desiderose di apprendere dalle detenute i rudimenti del mestiere. Disegnano, cuciono e mangiano insieme. Alla fine della giornata si crea sempre un intenso sentimento di condivisione e solidarietà. Le lavorazioni hanno varcato anche i confini nazionali, per essere esposte al Museo delle arti decorative di Parigi.
Nella difficile realtà dei penitenziari italiani, certificata dalla sentenza di condanna per il sovraffollamento emessa dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, esistono delle oasi con numeri ancora piccoli, dove vi sono gli strumenti per attuare con risultati eccellenti il dettato costituzionale di rieducazione del condannato. 
Cooperativa Asom, Milano Bollate
Bollate rappresenta una di queste eccezioni. Nella seconda casa di reclusione milanese, la più grande d’Europa, c’è spazio per una scuderia che ospita diciannove cavalli e offre ai detenuti corsi trimestrali di formazione per riscoprirsi artieri. «L’aspetto preponderante del nostro progetto Asom di riabilitazione, unico al mondo e che contiamo di replicare a Roma, è psicologico - spiega l'ideatore Claudio Villa -. Il cavallo stimola una relazione empatica e affettiva, neutralizzando l’aggressività». 

A Natale lo squisito panettone, sfornato dentro al Due Palazzi di Padova, ha registrato un record di ordini. La pasticceria I Dolci di Giotto
, inserita nelle eccellenze dolciarie italiane dalla rivista Gambero Rosso, costituisce il fiore all’occhiello del Consorzio Rebus, che dal 1990 nell’istituto padovano porta avanti l’integrazione mediante l’occupazione vera. Nelle varie attività (call center, officina meccanica, produzione ceramica) sono impiegati circa 130 detenuti, che arrivano a guadagnare anche novecento euro al mese. «Non pratichiamo assistenzialismo: qui si compete sul mercato con la qualità del manufatto e la professionalità. Abbattiamo sul campo la recidiva: chi impara un’arte raramente torna a delinquere», evidenzia Nicola Boscoletto.

Elton Kalica negli ultimi nove dei quindici anni di detenzione trascorsi al Due Palazzi si è innamorato della scrittura. Quando non era aggrappato alle grate della finestra per riscaldarsi con il sole primaverile «voglioso di abbracciare tutto, compresi noi», riconquistava il tempo nella redazione di Ristretti orizzonti, organo d’informazione carceraria multimediale diffuso dal 1998 su scala nazionale e diretto dalla pasionaria Ornella Favero. Ora da uomo libero, Elton ha scelto di restare a lavorare nel giornale e prestare servizio come volontario nella struttura. 
Artwo a Rebibbia, foto di Massimo Dinonno coperta da Copyright

«Non riuscivo ad allontanarmi da quel posto nemmeno per un giorno. La prima volta è stato come innamorarmi. Prima erano solo partite di carte, discorsi di malavita e litigi per cose banali. Qui c'è invece un quotidiano riappropriarci di quella cultura propria del rispetto delle persone». Il prodotto giornalistico raccoglie storie personali, esigenze e i numerosi incontri organizzati con scrittori, cronisti, ma soprattutto studenti. «Davanti alle loro domande, semplici ma dirette, - spiega Favero - sono costretti a mettersi in gioco, a raccontare storie tremende. Si assumono una responsabilità e soddisfano un bisogno di sincerità».

Il filo che unisce queste esperienze cooperativistiche è la creatività. A Rebibbia si sogna di aprire il primo museo d’arte contemporanea in un carcere. Un’idea visionaria coltivata da Luca Modugno, che da privato cittadino, d’accordo con la direzione del penitenziario romano, ha fatto decollare la declinazione sociale della cooperativa Artwo, che investe nel design ecosostenibile: dalla decontestualizzazione e riuso di scarti industriali prendono vita nuovi oggetti. «Le persone si recuperano, reinventandosi - sottolinea Modugno -. A Rebibbia abbiamo costruito un laboratorio d’incontro tra artisti e detenuti che nascondono talenti. Il processo di creazione instaura uno scambio fecondo».

Nessun commento: