Il Messaggero, sezione Cultura pag. 23,
25 gennaio 2015
di Gabriele Santoro
di Gabriele Santoro
L’INTERVISTA
Il padre di Simon Critchley, un lattoniere, sognava per il figlio un posto di lavoro sicuro in fabbrica, in quella terra desolata che era il sobborgo proletario di Letchworth Garden City, trenta miglia a nord di Londra. Ha scoperto un filosofo, oggi docente presso la New School for Social Research di New York, che si è avvicinato alla materia a causa di un brutto incidente nell'azienda farmaceutica dove era impiegato. Tornato sui banchi di scuola ventenne, ha poi intrapreso una rapida e brillante carriera accademica dall'Università di Essex.
Mondadori pubblica ora Come smettere di vivere e iniziare a preoccuparsi (132 pagine, 12 euro). Un saggio intervista con il collega Carl Cederström, nel quale Critchley intreccia il vissuto personale con la propria riflessione filosofica. «Sì, non è possibile separare lo spirito della filosofia dal corpo del filosofo. La filosofia era un modo di vivere e i filosofi oggetti stessi di studio. Nel mio caso la vita si confonde completamente con l'opera. Per molti professori rappresenta invece una forma di protezione spesso fittizia. Io prediligo l'esposizione e il rischio che questo linguaggio mette a disposizione», dice. Ha tenuto una lectio magistralis, «Il pericolo delle certezze», nell'ambito del Festival delle scienze presso l'Auditorium Parco della musica.
Il padre di Simon Critchley, un lattoniere, sognava per il figlio un posto di lavoro sicuro in fabbrica, in quella terra desolata che era il sobborgo proletario di Letchworth Garden City, trenta miglia a nord di Londra. Ha scoperto un filosofo, oggi docente presso la New School for Social Research di New York, che si è avvicinato alla materia a causa di un brutto incidente nell'azienda farmaceutica dove era impiegato. Tornato sui banchi di scuola ventenne, ha poi intrapreso una rapida e brillante carriera accademica dall'Università di Essex.
Mondadori pubblica ora Come smettere di vivere e iniziare a preoccuparsi (132 pagine, 12 euro). Un saggio intervista con il collega Carl Cederström, nel quale Critchley intreccia il vissuto personale con la propria riflessione filosofica. «Sì, non è possibile separare lo spirito della filosofia dal corpo del filosofo. La filosofia era un modo di vivere e i filosofi oggetti stessi di studio. Nel mio caso la vita si confonde completamente con l'opera. Per molti professori rappresenta invece una forma di protezione spesso fittizia. Io prediligo l'esposizione e il rischio che questo linguaggio mette a disposizione», dice. Ha tenuto una lectio magistralis, «Il pericolo delle certezze», nell'ambito del Festival delle scienze presso l'Auditorium Parco della musica.
In un'epoca in cui anche la distinzione tra paura e angoscia sembra svanire e si coagula su scala globale in una grande inquietudine forse sarebbe utile recuperare una lezione dei filosofi antichi riassumibile nel smetti di preoccuparti e inizia a vivere. Lei invece, ribaltando il titolo di un manuale di auto-aiuto, indica la strada opposta?
«Nel 1948, quel primo libro del genere ebbe un successo incredibile: l'autore dava consigli per una vita felice. Oggi definirei quella del benessere una maschera ideologica. È vero siamo impauriti da moltissime minacce, ma evitiamo accuratamente di capire fino in fondo le cose. Sfuggiamo dall'analisi delle ragioni della paura».
L'attentato terroristico a Charlie Hebdo ha acceso un dibattito sull'eventuale limite della satira. Lei ha dedicato un ampio lavoro allo humour, asserendo che la cosa più difficile da comprendere in una società è la sua struttura umoristica. In quale delle categorie in cui articola lo humour rientra il giornale satirico parigino?
«È una domanda molto difficile. Parlerò della pericolosità delle certezze e della presunta superiorità di alcune verità, da quella religiosa a quella politica o razziale. Ciò può permettere di giustificare qualsiasi tipo di azione e d'intolleranza verso gli altri. La certezza di possedere la verità assoluta è spesso basata sull'ignoranza, che è un viatico alla manipolazione. Gli assassini di Charlie Hebdo probabilmente avevano una propria certezza, che li ha spinti a un'azione violenta intollerabile. Mi dispiace che la stampa anglosassone in larga parte non abbia ripreso quelle vignette. La satira non ha limiti e nel loro humour non ho mai intravisto cattiveria. Quando inizi a proibire qualcosa, poi non sai dove fermarti. E rilevo però una certa ipocrisia occidentale sulla promozione a cadenza alternata della libertà d'espressione».
Il mondo si caratterizza sempre più dalla disuguaglianza. Ritorna l'attualità di Rousseau, a cui lei sovente si rifà.
«Credo che il Discorso sull'ineguaglianza di Rousseau sia il più rilevante dell'era moderna. Racconta la storia dell'essere umano nei termini della crescita della disuguaglianza, che culmina in uno stato di guerra. Oggi la disparità fra ricchi e poveri sta aumentando. Il problema è capire quanta ne possiamo sopportare. Non vogliamo e sappiamo più rispondere a questa domanda: quanta disuguaglianza è legittima?»
Se come sostiene la filosofia è una pratica finalizzata alla messa in discussione dell'attuale status-quo socio-politico, il filosofo mantiene il dovere di produrre crisi, intesa come una trasformazione decisiva della vita sociale?
«Per come intendo la filosofia, è un'attività che tenta di destabilizzare certezze acquisite. Socrate induceva alla crisi il proprio interlocutore, lo induceva a porsi delle domande. Ciò che pensavano fosse vero in realtà non lo era. La crisi propriamente intesa è un'esperienza di responsabilità, richiede di assumere una scelta. Il filosofo dovrebbe stimolare questa attitudine. L'effetto che la filosofia può produrre è emancipatorio a livello individuale ma anche collettivo. Nel mito della caverna di Platone l'uomo liberato dalla conoscenza torna nella grotta per liberare anche gli altri».
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