di Gabriele Santoro
Sugli spalti della palestra della
Daniel High School sedevano meno di novanta spettatori, quando il
dodicenne Pete Maravich iniziò a mettere in scena il proprio
destino. Non fu un contropiede banale. In campo aperto la palla
viaggiò al ritmo di una vita che avrebbe riscritto le regole del
gioco. Calcolò l'infinitesimale frazione di tempo esatta per
scagliare un passaggio da dietro la schiena che, dopo aver beffato la
fessura fra le gambe del difensore, si concretizzò in un appoggio
morbido al tabellone del compagno.
Toni Kukoc si domandava se non fosse meglio ammirare da fuori Dražen Petrović, anziché distrarsi dallo spettacolo correndo al suo fianco. Donna Sibenka, che generò il Mozart di Sebenico, si emoziona, mentre ricorda i risvegli all'alba del figlio per lunghissime, solitarie sedute di allenamento. Danny Ainge, che l'affrontò nell'esibizione di lusso Jugoslavia - Boston Celtics (torneo targato McDonald's, dicembre 1988), ha ragione: «È un atleta esaltante. Posso compararlo soltanto al mio idolo Pistol Pete. Ho incrociato la mia strada con quella di Larry Bird. Conosciamo Michael Jordan. Ma nessuno è stato in grado di concepire le magie del giocatore più puro, Maravich». Il Muro di Berlino doveva ancora crollare, portando con sé la disgregazione balcanica. Era quasi estate a Zagabria. Le individualità della generazione d'oro dell'ultima Jugo, forgiata da Dušan Ivković, divennero corpo e anima della squadra campione d'Europa, e poi mondiale. Lo showtime non era una prerogativa americana. Vlade Divac, Dino Radja e Dražen Petrović lo illustrarono al mondo.
L'altra sponda dell'Atlantico non era mai stata così vicina. «È lunga la strada da Belgrado a Hollywood. L'America è la terra delle opportunità anche per questo pivot jugoslavo», disse il giornalista Craig Sager, qualche settimana dopo la consacrazione continentale a proposito dell'approdo di Divac ai Lakers. Agli albori del Novecento Vajo Maravich e Sarah Radulovich coprirono invece, come milioni di altri europei, la medesima distanza per la sopravvivenza. Partirono dal villaggio serbo di Drežnica direzione Pennsylvania, dove la vorace industria dell'acciaio e le miniere richiedevano masse di lavoratori instancabili.
Abitarono in una baracca ad Aliquippa, sobborgo industriale di Pittsburgh, che dalla collina s'affacciava sull'acciaieria. Il cielo, color arancio, dipinto dalle polveri sbuffate dalle ciminiere. Vajo non ancora quarantenne morì sulla via del loro progresso, vittima di un terribile incidente in fabbrica. A causa di un'epidemia influenzale devastante, dei dieci figli dati alla luce ne sopravvisse uno. Chiamarono Press l'energico Petar Maravich: un visionario, fra i padri rivoluzionari della meraviglia ideata da James Naismith. Non ne voleva sapere di suonare il banjo. Sbarcava il lunario come strillone: «Pittsburgh Press, Pittsburgh Press!», urlava. Convinse il presbitero ortodosso ad appendere un canestro sull'albero antistante la chiesa di riferimento dell'enclave di migranti. Fu nient'altro che il prologo della storia di una passione infantile, che si trasformò in emancipazione.
Il basket gli avrebbe consentito
l'accesso altrimenti precluso al college. La guerra, servendo da
aviatore l'esercito americano sullo scenario del Pacifico, gli
sottrasse però gli anni della vigoria fisica. S'aprì un varco da
maestro - allenatore innovativo. Teorizzò il moderno sistema di
scouting dei cestisti con una pubblicazione scientifica sul tema. Il
suo staff per il reclutamento contava già su uno psicologo e sul
dietologo. «La componente decisiva del talento è il desiderio. Sono
l'uomo del contropiede. Mi aspetto che Clemson mostri una
pallacanestro interessante, capace di attirare la gente», spiegò.
Quelle idee si sarebbero dovute incarnare nel figlio maschio, Pete
Maravich.
Il 22 giugno 1947, in una stanza del
Jewickley Valley Hospital, la giovane moglie Helena, sulla quale
torneremo più avanti, partorì un essere speciale, che per tutta
l'esistenza ricercò la felicità. «Milioni di persone s'interrogano
sul senso profondo di un obiettivo. Sono fra loro. Con i trofei, i
soldi e la fama non ho mai trovato la pace con la mia essenza». Un
po' come quella volta a Houston quando, dopo aver messo a referto 35
punti all'intervallo, Pete mandò in subbuglio tutti con la minaccia
di non rientrare sul parquet. «Che cosa sto facendo qui?», arringò
sovente davanti alle ipocrisie del gran carrozzone che lo stressava.
È l'amata Jackie a riportarlo con i piedi sulla terra. Jackie che a
notte fonda lo recuperava nei bar, dove con il fratello Ronnie
scolavano bottiglie fino all'ultima goccia. Uno per distrarre l'ombra
dei vuoti, l'altro, un reduce, per esteriorizzare l'orrore del
Vietnam.
Dopo un dissidio in culla (lui voleva
la trombetta, il padre gli diede un pallone) le due vite corsero in
parallelo con frizioni fisiologiche per quell'ossessione. In età
prescolare gli fece respirare l'aria dello spogliatoio e della
palestra, dove palleggiare e dribblare ostacoli per giornate intere.
La fantasia caratterizzò il metodo di allenamento
dell'anticonformista Press. Il quaderno Homework
Basketball conteneva quarantaquattro esercizi, quarantaquattro
figure da creare con l'arancia in mano: ogni particella del talento
di Pete andava coltivata con un'estenuante applicazione quotidiana.
Al più vincente dei coach della
vecchia scuola, e non solo, non piacevano le invenzioni del
ragazzino. «Qualunque fra i miei giocatori si azzarda a pensare un
passaggio dietro la schiena, o immagini di schiacciare, si accomoda
in panchina. Non intendo vedere quella roba», ammoniva John Wooden.
«Lo sai, insegnandogli queste stravaganze, lo rovinerai. Sono
principi contrari alla disciplina», così Wooden criticava
l'ambizione dell'amico Press, verso cui però nutriva stima sincera.
«Aspetta e vedrai. Sarà un professionista milionario», la
risposta. Qualche anno dopo Red Auerbach sentenzierà: «Molti atleti
sovvertono le leggi della gravità. Pete ruppe quelle della fisica».
L'America della segregazione razziale
non contagiò Press, che mai deviò dai propri obiettivi. Negli anni
Cinquanta, quando allenò all'High school (Aliquippa, Baldwin) la
maggioranza degli atleti a cui impartire i fondamentali aveva la
pelle nera. Li preferiva, poiché interpretavano l'utopia di una
pallacanestro intensa che abbandonava la staticità. Il 28 agosto
1963 il reverendo King pronunciò la frase I have a dream. Giù,
al Sud, nel 1966 si accese un bagliore di luce alla prestigiosa
università di Vanderbilt. Immatricolarono Perry Wallace: il primo
cestista afroamericano nella Southeastern Conference. Sfidò
l'ostilità nei ginnasi del profondo sud per un trattamento
egualitario nel campus, fino all'elezione quale studente più
rappresentativo.
Al Civil Rights Act del 1964, l'NCAA
reagì con la messa al bando delle schiacciate. Un tentativo vano di
arginare il fiume in piena: l'epoca della modestia atletica di Bill
Bradley della bianca Princeton era al tramonto. L'ultimo canestro
della carriera al college del pioniere Wallace fu proprio una
schiacciata liberatoria. Nel 1966 coach Don Haskins con un quintetto
di afroamericani trascinò Texas Western Miners al trionfo nella
finale NCAA contro i quotati “Wildcats” di Kentucky. Imporranno
la rotta: «Eravamo la miglior difesa opposta all'attacco più
prolifico. E prevalemmo. Il successo contribuì a velocizzare i tempi
dell'integrazione scolastica senza barriere. Ciò mi inorgoglisce»,
dice Haskins. Press, durante la presentazione alla stampa in veste di
capo allenatore, annunciò la volontà di arruolare, per gettare le
fondamenta del nuovo progetto di Louisiana State University, diversi
prospetti senza badare alla pelle. A stretto giro giunse la smentita
del rettore: «È stato evidentemente frainteso».
Louisiana State University vendeva non
più di quaranta abbonamenti per la stagione dei canestri.
L'intuizione di Jim Corbett, direttore della divisione sportiva
universitaria, fu lungimirante. Press Maravich, che a Clemson pur di
compiere un salto di qualità professionale accettò un ingaggio da
96 dollari al mese, era intenzionato a monetizzare l'esperienza a
North Carolina State nell'ACC, dove raccolse il testimone dall'icona
Everett Case. Ma soprattutto intendeva riunire la famiglia, allenando
direttamente il figlio ormai maggiorenne. LSU, monopolizzata dalla
passione per il football, aveva già pianificato la costruzione di
una nuova arena. Corbett accontentò le richieste esose (quinquennale
al doppio dell'ingaggio di NC) a una condizione: Pete, di cui si
parlava già molto, sarebbe dovuto divenire il perno del progetto.
All'esordio Pete portò gli abbonamenti a quota quattromila.
Nell'estate del 1966 i Maravich si
stabilirono dunque a Baton Rouge. Dopo una stagione interlocutoria
per questioni d'anagrafe, nel 1967-'68 Pete si presentò con 48 punti
nella retina di Tampa. «Lasciatelo tirare», ripeteva Press. Nei tre
anni a Louisiana State combinerà ciò che su un campo di basket non
si era mai visto. Era veloce. Fosse mano destra o sinistra maneggiava
con assoluta padronanza la palla. L'impatto più eclatante che si
ricordi in questo sport. Fece registrare il tutto esaurito in
qualunque campo, mille autografi a sera da evadere. Dalle sneakers ai
floppy socks si distingueva nell'abbigliamento. Un pomeriggio
sprovvisto dei calzettoni, che diverranno una moda, li rubò
dall'armadietto del compagno Bob Sandorf. Erano ampi, tanto da
mitigare l'aspetto di quei piedi così lunghi, e poi divennero un
fattore psicologico.
Resiste il suo record di 3667 punti
(44.2 la media a serata nel triennio LSU); 28 partite oltre i 50.
Solo Oscar Robertson e Larry Bird segneranno almeno 900 punti in
ciascuna delle tre annate NCAA. Curiosità: l'8% dei tiri sarebbero
stati da 3 punti (l'arco non era stato delineato). Quando gli
avversari frustrati passavano alle cattive maniere, come nella caccia
all'uomo di Oregon State, lui era perfetto dalla lunetta: 30 su 31
nell'occasione. Il 21 febbraio 1970, contro Kentucky, lo showtime
penetrò nell'immaginario collettivo grazie alla trasmissione
televisiva.
Per capire qualcosa di Maravich forse
dobbiamo partire dalla fine. Dall'autopsia effettuata in seguito
all'infarto che lo uccise a Pasadena nel 1988, all'età di quaranta
anni. Il dottor Joseph H. Choi rivelò che l'arteria sinistra di un
cuore apparentemente sano non si era mai formata, per colpa di una
rarissima malformazione congenita complessa da diagnosticare. Nel dna
dei Maravich è inscritto il dolore, quanto la capacità di reazione.
L'organismo di Pete rispose alla malformazione vascolare, costituendo
dall'arteria coronarica destra dei circoli collaterali
particolarmente resistenti per il nutrimento e l'ossigenazione
dell'area. Una neoangiogenesi in grado di sostenere incredibilmente
vent'anni di sforzo fisico al livello massimo. In due occasioni gli
riscontrarono delle anomalie cardiache. Evitò ulteriori indagini
strumentali: lui e il gioco erano indivisibili.
Non sappiamo quanta gioia animasse la
rincorsa alla perfezione tecnica ed estetica del gesto. La
pallacanestro era un atto di esistenza e resistenza: «Smettere è
stato come disintossicarsi dall'eroina». Il manifesto politico del
ragazzo era chiaro: osare per inventare ciò che l'establishment
politico sportivo allora temeva. Gliela fecero pagare con
un'ingenerosa esclusione dalla squadra olimpica. I puristi
impazzivano fin dal riscaldamento, quando li scherniva con gli
appunti dello showtime. L'altra politica, i palazzinari e le
televisioni fiutarono l'affare della prima rock star in canotta e
calzoncini. Il presidente Nixon, in piena crisi di consenso
soprattutto fra i giovani, si sperticò in elogi per la Great
Hope bianca. Il governatore della Louisiana John McKeithen si
scoprì tifoso fervente. E le pratiche burocratiche per la
costruzione di un impianto in grado di soddisfare la Maravich mania
viaggiarono su corsie preferenziali.
«Nei quattro anni trascorsi
all'Università della Georgia ho assistito a una partita. Non ne
capisco nulla, ma se c'è un'opportunità, voglio quel Pete», disse
il proprietario Tom Cousins al management degli Atlanta Hawks. Per
l'immobiliarista l'auditorium municipale, classe 1906, era un reperto
archeologico, quanto insoddisfacenti gli ottomila posti a sedere del
Georgia Tech's Alexander Memorial Coliseum. Acquistò la squadra con
un cantiere pronto a brulicare. Alla Cousins Properties Inc.
l'amministrazione cittadina assegnò l'appalto da diciassette milioni
di dollari per un'arena da oltre sedicimila posti. Come per
l'Assembly Center di LSU e l'immenso Superdome di New Orleans, dove
ritroveremo l'autostrada politica McKeithen, a riempirli di tifosi ci
avrebbe pensato la star.
Ad Atlanta, terza scelta nel Draft Nba
1970, spiegò a coach Richie Guerin che era qualcosa di più di un
«good business». Guerin avrebbe voluto piuttosto un centro
dominante, di quelli che non vendono i biglietti, ma vincono i
campionati. Appena ventitreenne si avverò la profezia di Press. Pete
firmò il contratto (quinquennale da 1.5 milioni di dollari
complessivi) sportivo professionistico più ricco dell'epoca. Dai
produttori di calzini a quelli di gelati se lo contesero per gli spot
pubblicitari. Pete rappresentò un investimento a lungo e breve
termine: nell'anno da rookie i ricavi della franchigia schizzarono
del 50%. L'emittente ABC, che nel 1971 quadruplicò il valore
dell'accordo (17 milioni di dollari) sui diritti di trasmissione
dell'Nba, si fiondò sul giovane fenomeno con un assegno da 75mila
dollari per l'esclusiva del debutto con gli Hawks. La crescita del
movimento era ormai intrinsecamente dipendente dall'evento
televisivo. Dal 1965 al 1970, mentre l'Aba indebitata affogava, le
squadre Nba aumentarono da 9 a 17.
Alla Daniel High School i compagni di
tre, quattro anni più grandi lo tenevano ai margini. Quando gli
regalò due vittorie con altrettanti canestri allo scadere,
cambiarono opinione. Agli Hawks la situazione si ripropose. Stavolta
il problema era razziale: come inserirlo, con uno stile così fuori
regime, negli equilibri di una squadra all black con due stelle già
rodate? Assaggiò tanta panchina: «Senza la palla le mani si
raffreddano». Archiviò comunque l'annata da debuttante con 23 punti
di media, 33 nell'ultimo mese.
Quattro anni dopo fu oggetto di uno
scambio con New Orleans, landa inospitale per lo sport business:
pochi spettatori e non appetibile per il mercato televisivo. Lì
anche Pistol Pete suonò il jazz. Tanto quanto Petrović il suo
movimento era musicale. Come al college eseguì uno spartito
sconosciuto ai più: il faro in formazioni prive dell'adeguato cast
di supporto. «Datemi Jabbar o Baylor. Qua manca la materia umana per
vincere. Mi ferisce stare dal lato scuro della storia», incalzò il
front office Jazz. «Onestamente, ora, che cosa importa in quale
squadra militi o se vinca o perda Maravich? Lui si esibisce. È la
ventunesima franchigia dell'Nba», chiosò il giornalista Curry
Kirkpatrick.
Lo definirono un talento perdente e
individualista. Oppure Peter Pan. Pat Riley e Jerry Colangelo,
personaggi tutt'oggi influenti, lo bocciarono senza appello. L'ex
Lakers: «Lo considero la star più sopravvalutata. Qualsiasi guardia
dell'Nba lo manderebbe a prendere con una limousine all'aeroporto per
affrontare la sua difesa morbida». Il secondo: «L'eccentricità
nella gestione della palla distrae i compagni. È un attentato
all'unità della squadra». Ci vengono in soccorso le statistiche Nba
del perdente: 15.948 punti (24.2 di media), miglior marcatore nel
1976-'77 (31.1 a uscita, i Knicks rammentano i 68 del 25 febbraio
1977), davanti a Michael Jordan e Allen Iverson nella percentuale di
vittorie consegnate alla propria squadra mettendo nel cesto più di
40 punti.
«Julius Erving è il più creativo. Con lui tutto è semplice. Devo disegnare un piccolo arcobaleno, e lo intuisce». Erving contraccambia: «Pete? Genius». Agli Hawks dialogarono col linguaggio comune ai fuoriclasse solo qualche settimana per beghe contrattuali e pastoie burocratiche avverse. Con Doctor J avrebbe zittito le penne avvelenate? Ai Jazz diede in solitudine il secondo miglior record vittorie/sconfitte per una franchigia esordiente, sopportando il macigno della morte della madre. Helena Gavor si sparò in testa. Da anni il sorriso della bella cheerleader, figlia di operai serbi, che nella primavera del 1946 ad Aliquippa incontrò Press al Bill Green's Nightclub per poi sposarlo, era sfumato nella depressione e nell'alcool.
«Julius Erving è il più creativo. Con lui tutto è semplice. Devo disegnare un piccolo arcobaleno, e lo intuisce». Erving contraccambia: «Pete? Genius». Agli Hawks dialogarono col linguaggio comune ai fuoriclasse solo qualche settimana per beghe contrattuali e pastoie burocratiche avverse. Con Doctor J avrebbe zittito le penne avvelenate? Ai Jazz diede in solitudine il secondo miglior record vittorie/sconfitte per una franchigia esordiente, sopportando il macigno della morte della madre. Helena Gavor si sparò in testa. Da anni il sorriso della bella cheerleader, figlia di operai serbi, che nella primavera del 1946 ad Aliquippa incontrò Press al Bill Green's Nightclub per poi sposarlo, era sfumato nella depressione e nell'alcool.
Il nome Maravich di per sé nobilitava
l'impresa del padrone dei New Orleans Sam Battistone, titolare di una
catena di fast food. I tifosi ululavano “French fries, French
fries” al Superdome. Qualora i Jazz avessero raggiunto i 100 punti,
il tagliando d'ingresso si sarebbe tramutato in uno sconto valido per
il burger king. Immaginiamo lo sguardo e il conflitto interiore del
vegetariano e poi vegano Pete, che accusò l'industria alimentare
statunitense di essere la principale causa di malattia della
popolazione. Sul web si può leggere la copia del contratto siglato
il 19 dicembre 1975 con la Pepsi-Cola (Gulf South Beverages, Inc).
Diecimila dollari per associare quella capigliatura rassicurante, da
Beatles, al soft drink. Poi non lo rinnovò: «Le bevande gassate e
zuccherate sono dannose per i bambini».
Sports Illustrated, che il 4 marzo 1968
lo promosse in copertina (Lsu's Pistol Pete – The Hottest shot),
dieci anni dopo (4 dicembre 1978) intonò il de profundis: «Per
coloro che misurano il trascorrere del tempo con le icone della
cultura pop, è difficile realizzare che Pete Maravich, quello dei
floppy socks, dei tiri e dei passaggi oltraggiosi, l'uomo dei record,
della gioia, colui che ha reso il basket divertentissimo per molti di
noi, ha ormai compiuto trent'anni. E non si diverte più». Un grave
incidente al ginocchio destro, per uno con quel primo passo e con
quei cambi direzione, fa la differenza. Come nei bilanci dei Jazz che
per l'infortunio registrarono un calo drastico dell'affluenza di
tifosi.
Red Auerbach, che il senso per la
vittoria lo ebbe sempre ben presente, lo volle ai Celtics per la
coppia da sogno con l'astro nascente Larry Bird. Il 22 gennaio 1980
Pete ammise: «Da dieci anni provavo ad arrivare qui». Coach Fitch
in quintetto gli preferì però Chris Ford. Maravich non può partire
dalla panchina. Dopo i playoff le scarpette rimasero nello
spogliatoio. Rinunciò all'agognato titolo e si congedò
laconicamente dalla compagnia per telefono: «Ho tirato una volta di
troppo a canestro, Red». Ritiratosi dall'agonismo si affidò alla
fede, svelando a Jackie di aver udito la voce di Gesù Cristo: «Sii
forte e innalza il tuo cuore». Numerose biografie (la prima
addirittura stampata nel 1969) si sono soffermate sulla depressione,
tradita dagli occhi, e sull'abuso di alcool. In campo, la sua patria
vera, era il sole e obbediva a un istinto vitale. Lontano da esso
spesso prevalse il buio. Dall'High School all'Nba l'amarono per la
sfrontata coerenza di essere con il proprio stile la voce contro,
dentro al sistema.
Press, stroncato dal cancro, non riuscì per poche settimane ad assistere all'ingresso del figlio nella Basketball Hall of Fame. Correva l'anno 1987. “Sweet-Lou” Hudson, a chi vinceva i campionati, sussurrava: «Tranquillo, non sarai mai abbastanza bravo quanto me». Da star designata degli Hawks convisse con lo scomodo ragazzo prodigio. Poi nella vita, oltre al jump shot, è riuscito anche in altro: nel 1993 è il primo afroamericano eletto nello Stato di Utah. Attingendo alla propria profonda umanità, forse è lui ad aver trovato le parole giuste: «Non è mai sembrato facile essere Pete Maravich».
Press, stroncato dal cancro, non riuscì per poche settimane ad assistere all'ingresso del figlio nella Basketball Hall of Fame. Correva l'anno 1987. “Sweet-Lou” Hudson, a chi vinceva i campionati, sussurrava: «Tranquillo, non sarai mai abbastanza bravo quanto me». Da star designata degli Hawks convisse con lo scomodo ragazzo prodigio. Poi nella vita, oltre al jump shot, è riuscito anche in altro: nel 1993 è il primo afroamericano eletto nello Stato di Utah. Attingendo alla propria profonda umanità, forse è lui ad aver trovato le parole giuste: «Non è mai sembrato facile essere Pete Maravich».
Dedicato a Piero Santonastaso e a Joe Ryan.
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