domenica 15 marzo 2015

Zerocalcare, perché il cuore sta a Kobanê

Il Messaggero, sezione Macro pag. 1-21,
15 Marzo 2015

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

L’INTERVISTA
L'ultima frontiera esplorata dal fumetto italiano è quella del giornalismo con un corrispondente sui generis, autoinviatosi in una zona di guerra. Zerocalcare a Kobane, nell'ambito di una staffetta di solidarietà umanitaria e politica partita da Roma, ci ha messo il cuore, dunque la sincerità. E ne ha anche disegnato uno bellissimo nello storione Kobane Calling, che ha conquistato i lettori. Internazionale ha ristampato il numero, dopo aver esaurito in edicola 140mila copie. Album da disegno, matite e pennarelli al servizio di una causa solo parzialmente raccontata. Il trentunenne Michele Rech conferma la cifra distintiva dell'eclettismo nello stile grafico e nei linguaggi. Il suo fumetto d'autore, umoristico e popolare tocca in qualche modo la quotidianità di tutti, e i numeri della casa editrice BAO Publishing stanno a dimostrarlo. Dimentica il mio nome è giunto alla terza ristampa con 95mila copie vendute in tre mesi. Dal debutto, impareggiabile, La profezia dell'armadillo cinque volumi per oltre 200mila copie. Zerocalcare interpreta lo spirito dell'epoca della crossmedialità, dalla carta al blog. Oggi alle 15 chiuderà con il collega Gipi la sesta edizione di Libri come presso l'Auditorium Parco della Musica.

Zerocalcare, perché il cuore sta a Kobane?

«L'andare via dal mio quartiere, Rebibbia, mi crea uno stato d'ansia. Ho l'impressione che sia il centro del mondo e, allontanandomi, ne perderei il ciclo vitale degli avvenimenti. Paradossalmente nel raggiungere la periferia, della periferia dell'impero, dove l'energia elettrica è razionata, ho provato la meraviglia dell'assenza di sradicamento. La sensazione, in quel dato momento storico, era che Kobane illuminasse il mondo con l'esempio di ciò che stava succedendo. Nella prospettiva della lotta libertaria e antiautoritaria delle combattenti del YJA Star (Unione delle donne libere) e del YJG ho visto concretizzarsi insegnamenti e valori in cui ho sempre creduto. La zona di Rojava, le tre province a larga maggioranza curda nel nord della Siria, rappresenta un prezioso esperimento di autogestione democratica. Una regione autonoma con organi decisionali che rispondono ad assemblee popolari e osservano un delicato equilibrio etnico. Sarei riuscito a disegnarla solo col cuore».

In che modo è stata percepita la vostra presenza?

«Nonostante tutte le differenze, gli ostacoli linguistici, ci hanno accolti e integrato nella quotidianità del villaggio. Ci hanno chiesto di non utilizzare la parola ospite, perché a modo nostro, simbolicamente, eravamo dentro quell'esperienza di resistenza. I curdi si lamentavano dei passaggi assai fugaci dei cronisti, che non hanno mai vissuto insieme a loro».

Anche la moda, con linee di capi d'abbigliamento, si è ispirata alla tenuta delle guerrigliere curde. Che cosa c'è oltre quell'immagine accattivante e un po' stereotipata?
«In Italia ci siamo focalizzati sulla figura della donna combattente, in maniera un po' folcloristica, anche se le donne hanno condotto una parte consistente delle operazioni contro le forze dello Stato Islamico. La rivoluzione nel Rojava ha messo la donna al centro della società, dalle responsabilità sociali alla rappresentanza politica. È una consapevole conquista sociale, non imposta dall'alto. I luoghi che abbiamo visitato (campo profughi, villaggi, cittadina) erano tutti guidati da donne. Anche l'ultimo dei contadini, non scolarizzato, ti spiega quanto in questa lotta di liberazione siano dirimenti l'emancipazione e la centralità della donna».

Nel reportage fumettistico su Kobane l'ha messa a disagio la riproduzione dell'immaginario dell'Isis? Sulle tavole le milizie nere appaiono sfumate.
«Non riesco a trovare una chiave interpretativa e grafica di quel male. La funzionalità del loro marketing sconcerta. Un'efferatezza dura da smitizzare senza ricorrere a semplificazioni. Almeno io non ci sono riuscito né nella mia testa in quei giorni né all'interno del fumetto. Ho messo nero su bianco percezioni appena accennate di un disvelamento».

Davvero il mestiere di disegnatore è stato solo un modo per sfuggire all'impiego in aeroporto o alle ripetizioni?
«Sbagli a non crederci. Solo nell'ultimo mese ho accettato l'idea che posso lasciare le ripetizioni, essendo diventata questa effettivamente la mia fonte di reddito unica. Sì, ho cominciato per sottrarmi alla giornata venduta per salario. Non ho mai avuto il sacro fuoco del disegnatore».

Ha dichiarato di vivere una contraddizione gigantesca tra la comunità da cui proviene, per sintesi quella dei centri sociali, e il mondo altro con cui deve interloquire. Il tema dell'identità l'affronta in “Dimentica il mio nome”. Ha imparato a gestire l'antitesi?

«Non la gestisco. Non riesco a farci pace. Lo sforzo più grosso della mia giornata consiste nel cercare di non fare esplodere tutte queste contraddizioni, percorrendo una strada che tenga insieme i pezzi nel modo più limpido e onesto possibile».

Il malessere e la rabbia per la condizione giovanile in Italia non si traduce in discorso politico. Lei si assume questa responsabilità?
«La dimensione politica non afferisce ai miei lavori. Mi affido all'ironia e non so se intercetto quel sentimento di rabbia. Concordo che il malessere sia abbastanza inattivo e represso. Anche se non me l'hai chiesto, ripeto che non sono il portavoce di una generazione o di una rabbia qualunquista. Raffiguro l'amarezza, la disillusione, senza rinunciare a cogliere il buffo dell'esistenza. Considero la politica come un fatto collettivo. Quando mi viene richiesto da una comunità do volentieri il mio contributo nel raccontare una storia. Abbiamo una vita, necessitiamo di una storia».

Nell'ultima opera si è messo maggiormente in gioco, cedendo un pezzo di vissuto personale che non riguarda solo lei?
«Sì, stavolta c'è di diverso che ho coinvolto qualcun altro, persone care. Ho manifestato dolori, emozioni pure, frammenti della famiglia, con mia madre e mia nonna. La prima ha seguito lo sviluppo delle strisce pagina per pagina. Non intendevo prevaricare. Il dolore provoca dei buchi nella trasmissione della memoria. Poi ognuno li riempie come può, perché i buchi se non li riempi sono un casino».

Anche in questa graphic novel ci riporta a Rebibbia, con un riferimento puntuale al carcere. Un'istituzione totale da superare?
«Questo carcere non rieduca, tradisce la Costituzione. Non produce alcun effetto positivo, va rivisto e superato. Quando esci sei fuori da qualsiasi dinamica di reinserimento. Nel quartiere è parte del tessuto produttivo, economico. E al contempo rimosso. Non ci si pone il problema di cosa avvenga là dentro, nel più grosso ammasso di corpi diseredati in Europa. Lo interiorizzi come parte dell'arredamento urbano».

Che cosa non la convince della discussione sul decoro a Roma? In Rete la sua critica al portale “Roma fa schifo” ha acceso una polemica vivace.
«Anche fra i miei lettori, con sorpresa, quella esternazione ha alimentato un dibattito. Mi pare lapalissiano che la tutela del decoro urbano sia sacrosanta. Però sembra che dia fastidio la vista del povero, e non la povertà. Il questuante è il nostro avversario? Per non porre domande sulle condizioni d'ingiustizia, lo rimuoviamo. Così Roma non la riconosco e mi spaventa».

Preferisce il blog ai social network?
«Con il blog nessuno può dettarmi i termini della gestione. L'interazione con il lettore non è mediata dal sistema e dai ritmi dei social network. Qualcosa d'impagabile per chi fa questo mestiere».

La scuola è stata il tema guida di Libri come. Lei quale scuola sogna?

«Quella in grado di rifondare il patto educativo e riaccendere le passioni».

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