sabato 21 marzo 2015

Storia di un Fablab a Porto Marghera e di un'altra idea di lavoro


di Gabriele Santoro

La voce dell'orafo Francesco Pavan si riscalda, si alza di un tono, quando parla dell'ambra. Quel composto costituito da carbonio, idrogeno e, in quantità variabile, a seconda dell'origine, da acido succinico, che scaturisce dalla coagulazione della resina arborea e non ha forma propria. È trasparente, traslucida od opaca. Sulle rive baltiche da oltre ventimila anni le onde fanno emergere la materia dal fondale marino. L'oro del Baltico, che incorpora la luce solare, dal cui nome greco discende il nostro termine elettricità.

Dalla preistoria il commercio dell'ambra ha instaurato legami e influenze economiche, culturali e religiose dai paesi del nord Europa al mondo Mediterraneo, fino alla Siria, attraverso il crocevia Italia. Tra il XII e il X secolo a.C., nel Bronzo finale, l'alto Adriatico divenne l'epicentro di traffici e scambi interculturali. In località Frattesina di Fratta Polesine, nei pressi di Rovigo, su un ramo deltizio del Po, splendono ritrovamenti significativi, come un'officina. Scavi abbastanza recenti a Grignano Polesine hanno rinvenuto blocchetti di ambra grezza, perle e scarti della catena di lavorazione, che raffigurano la vocazione del territorio. Pavan non si capacita ancora della maniera in cui ai primordi veniva incisa l'ambra. Da archeologo sperimentale ha ricreato sull'archetipo di utensili vecchissimi punte per incidere, perforare e limare. D'altra parte gli antichi gioiellieri ebbero un ruolo chiave nello scoprire metodi di trattamento dei metalli e le tecniche di saldatura dell'oro, riluttante a formare composti con altri. Lui rincorre la purezza e l'essenzialità di forme da far rivivere. «Senza il passato mi sentirei smarrito, perderemmo tanto. La tecnologia, quando tradisce la storia, è fine a se stessa. Guai a dimenticarsi la ricchezza dell'articolazione delle mani. La manualità, che esercitai nel laboratorio dell'Istituto d'arte di Venezia, vuol dire partecipazione», dice.

Riattivare la via dell'ambra resta un suo sogno ambizioso, quanto quello dei mercanti dell'Età del Bronzo che l'esportavano dai paesi baltici alle coste italiane, dove era levigata per poi essere commercializzata. A Mestre, nella bottega fondata vent'anni fa, si mostra reattivo alle trasformazioni in atto, perché l'artigianato non è decontestualizzabile dal rinnovamento delle pratiche socioeconomiche. Pavan trae linfa dagli incontri con linguaggi apparentemente lontani, come quello computazionale dei giovani architetti plurispecializzati che animano il Fablab Venezia. Le giornate trascorrono intensamente nei cento metri quadrati del laboratorio di fabbricazione digitale, nel cuore del Parco tecnologico Vega, dove s'intessono relazioni destinate a durare e circolano idee, che traggono vitalità dalla sintesi continua fra pensiero e azione. La fermata del treno è Porto Marghera, ma in questo luogo la concezione di economia è antitetica a quella di chi ha avvelenato vie respiratorie, pelle e ossa degli operai, l'aria e il mare.

«La nostra attività si giova dei riscontri quotidiani e dell'entusiasmo di molti artigiani, come Pavan, e della piccola impresa, sovente decimata dal deficit d'innovazione. Sono decisamente più lungimiranti delle associazioni di categoria che li rappresentano. Sta nascendo la figura dell'artigiano digitale. Per riuscire in questo mestiere devi possedere basi di disegno, geometria, matematica, arti figurative e linguaggi informatici», spiega l'amministratore Elia De Tomasi. Hanno in cantiere prossime collaborazioni con rilevanti filiere del manifatturiero veneto, dall'oreficeria di Vicenza al calzaturiero del Brenta. La domanda verte soprattutto sulla modellazione e sulla prototipazione. È richiesto ormai di progettare il prodotto in ottica della fabbricazione digitale. Viene meno quella presunta conflittualità tra industria e artigianato associata alla rivoluzione industriale: quantità e qualità non si contrappongono. Sull'isola di Murano, già a metà del Quattrocento, le vetrerie usavano metodi e divisione del lavoro prettamente industriali.

Stefano Micelli, docente dell'Università Ca' Foscari insignito del Compasso d'oro, la definisce una contaminazione virtuosa. I Fablab si sostituiscono alle strutture di trasferimento tecnologico, che spesso non hanno funzionato, mescolando la soggettività dell'eredità artigianale con nuovi processi.
«È importante il loro tentativo. Ne condivido l'orizzonte. Le specializzazioni e gli strumenti multifunzionali gli consentono di diversificare l'offerta dei servizi (modellazione grafica tridimensionale e computazionale, fabbricazione e prototipazione, taglio laser, fresatura, stampa 3D, sviluppo software, applicazioni Arduino e Web Design). Il loro contributo velocizza i miei tempi. Salto passaggi laboriosi senza perdere la precisione. La ricerca apre spazi di mercato inediti. Faccio l'incisione, lo sbalzo, il cesello, ma così si amplia lo spettro di soluzioni utili. Gli oggetti ripassano sempre fra le mie mani per assumere un carattere insostituibile. Senza la padronanza delle tecniche classiche è difficile che venga fuori qualcosa di particolare», sottolinea Pavan.

L'autonomia è un tratto determinante di questa iniziativa imprenditoriale, che non ha atteso le lentezze, le chiusure delle baronie universitarie e la scarsità complicata dei bandi pubblici. I quattro soci hanno investito una piccola quota (mille euro a testa per l'avvio della start up), per poi aggiungere la liquidità per l'acquisto o affitto delle macchine, che hanno costi accessibili. Tre sono architetti, che dopo la laurea hanno intrapreso strade differenti, prima di ricongiungersi con una volontà: conciliare il mondo della fabbricazione digitale con quello degli artigiani, del design autoprodotto e dell'architettura. Elia De Tomasi, veronese classe '78, ha conseguito un master in architettura digitale presso lo IUAV. Svezzato nello studio del padre, è anche collaboratore dello scultore Gianfranco Meggiato. Leonidas Paterakis, dopo la gavetta in vari studi, è volato a Barcellona per un master all'Institute for advanced architecure of Catalonia. Nel prezioso Fablab accademico ha preso coscienza delle potenzialità delle apparecchiature che oggi cura. Andrea Boscolo, per anni in studi d'architettura di livello internazionale, ha testato le applicazioni della fabbricazione digitale nel settore. Enrico Manganaro è un graphic ed editorial designer. Design e artigianato si ricongiungono, rievocando quasi William Morris,fra i principali fondatori del movimento delle Arts and Crafts: «Un designer dovrebbe sempre capire a fondo lo speciale processo di manifattura con cui ha a che fare o il risultato sarà un puro e semplice tour de force. D'altro lato è il piacere di capire le possibilità di un dato materiale e di usarle per suggerire la bellezza naturale e l'accadimento ciò che dà all'arte decorativa la sua raison d'être».

In dodici mesi hanno radicato l'impresa in una posizione di forza, e al contempo dialogica con l'università e il tessuto produttivo locale. L'organizzazione del lavoro è uno degli ambiti d'osservazione più interessanti all'interno del Fablab. Potremmo sintetizzarla in una geometria variabile, dove le competenze individuali s'intersecano in un modello ibrido non riconducibile alla catena di montaggio, ma neanche alla bottega artigianale. L'obiettivo è l'interscambiabilità in tutte le fasi. «Si adatta con successo alla nostra realtà. Il ridotto numero di personale si fronteggia con le conoscenze diffuse e l'alternanza sostenibile, che permette di prendere grossi carichi di commissioni. Studiamo in vitro un'organizzazione che mantiene delle criticità e andrà messa a punto, per poi essere traslata su scale più complesse. L'archetipo elaborato e attuato verrà alla luce nei prossimi anni», sostiene Elia.

S'illuminano gli occhi a guardare la prima grande opera esposta dal Fablab per Across Chinese Cities, un evento promosso dalla Beijing design week, collaterale alla Biennale di architettura di Venezia 2014. Il più imponente plastico realizzato in Italia con la stampa 3D, per numero di oggetti, per la loro complessità e varietà tipologica. È composto da cinque sezioni di 7.5 metri l'una, millecinquecento pezzi stampati e rifiniti a mano. Sessanta giorni d'impegno per ricostruire lo stravolgimento urbanistico di Pechino dal 1488 a oggi, partendo dal caso del paradigmatico quartiere di Dashilar, che compie seicento anni e la cui struttura architettonica riflette il volto originario della capitale cinese. Il distretto più vecchio della città è stato presentato in una sorta di dialogo spazio temporale con le macroscopiche trasformazioni dell'intera area urbana. Dashilar è coinvolto in un processo di rivitalizzazione architettonica e vuole comunicarlo al mondo, integrando strategie d'intervento che comunque tramandino ai posteri le peculiarità del quartiere. «La proposta ci apparve improba ma irrinunciabile per dimostrare le nostre abilità», ripetono in coro.

Fondamentale è stata la collaborazione con una ditta ad alto coefficiente d'innovazione, qual è la Wasp di Massalombarda, inventrice di stampanti 3D di ottima affidabilità e qualità. Corrono verso la concretizzazione di un'idea coraggiosa: un modulo abitativo alternativo per le bidonville che si moltiplicano a dismisura a causa dell'urbanizzazione selvaggia. Passo dopo passo la stampante GigaDelta, alta dodici metri, si affina e produrrà case ecosostenibili in argilla. In questa avventura il rapporto uomo macchina si contraddistingue per la dinamicità. Le conoscenze accrescono grazie agli errori. Quando è necessario si svolta: l'esperienza pratica esplora la potenzialità del mezzo. La squadra ha per esempio appena risolto un problema decisivo. Un nuovo estrusore ora controlla i movimenti della stampa 3D e i flussi del materiale estruso. «L’ostacolo più ingombrante che si frapponeva al traguardo della GigaDelta è stato l’estrusione. Abbiamo provato davvero tante soluzioni in un'incessante ricerca. Infine ci siamo ispirati alla vespa vasaia che deposita materiale e va a procurarselo, quando è finito. Il dispositivo con quel medesimo sistema riduce al minimo il consumo di energia per comporre gli oggetti. Si tratta a nostro avviso di una rivoluzione non solo in termini di edilizia. A breve costruiremo una stampante in grado di fare la casa», affermano.

Ivo Sassi, ceramista di fama internazionale, è attento al connubio inedito tra arte ceramica e stampa 3D, che Wasp declina. Il maestro faentino ha dipinto e cotto pezzi stampati da loro. Fino a dove si può spingere la sinergia tra sostanze dalla datazione millenaria e la moderna tecnologia? Per esempio la porcellana, prodotta per la prima volta sotto la dinastia T'ang (618-906 d.C.), è uno dei più consistenti contributi cinesi allo sviluppo tecnologico. «Architetti, scultori e pittori dobbiamo rivolgerci all'artigianato. L'artista è un artigiano di grado elevato. Ma l'abilità artigianale è essenziale per ogni artista. In essa infatti è la fonte dell'immaginazione creatrice. Lasciateci creare una nuova corporazione di artigiani senza quelle distinzioni di classe che alzano un'arrogante barriera fra artigiano e artista. Lasciate che insieme progettiamo e creiamo la nuova costruzione del futuro», indicava Walter Gropius.

Anche il Fablab lagunare si confronta con questa sfida. Arsine Nazarian ha compiuto studi classici e filosofici a Roma e Venezia, scoprendo la passione per la sensualità della terra. Dopo un periodo di formazione sulla ceramica più tradizionale, la maiolica, presso i maestri di Bassano del Grappa, e del raku, la scelta è ricaduta sul grès, le terre semi-refrattarie e la porcellana. «La meraviglia per la materia ha qualcosa di magico, atavico. Ricordo le espressioni di stupore dei ragazzi del Fablab, suscitate dal vedere la genesi di un progetto mediato dall'esperienza tattile con la terra. I materiali pretendono un'interazione, per capirne e considerarne le proprietà prima di procedere per esempio con gli impasti», dice Arsine. Lei non ha smaltito la perplessità con cui si è avvicinata alla meccanica informatica, preoccupata dalla progressiva perdita della manualità e dall'adesione acritica ai macchinari. Ma non si priva della curiosità per le prospettive e gli impulsi progettuali tutti da disvelare. «Non avevamo mai messo le mani nella ceramica. Il risultato della stampa lo riprendiamo in tre. Gli sviluppi, potenzialmente, sono incredibili. La macchina non toglie il lavoro alla ceramista.

Entrambi piuttosto lo procurano a tre architetti. Lo stesso avviene con il falegname. Abbiamo fatto una libreria, un tavolo e c'è una parete per l'arrampicata in legno. È un'opportunità per riconvertire tantissimi architetti disoccupati. Abbiamo assistito da vicino all'ecatombe di amici emigrati all'estero, che invece potrebbero riadattarsi qui in un'inedita figura professionale», sottolinea Elia. E allora ci viene in soccorso John Ruskin: «Sarebbe bene che tutti noi fossimo buoni artigiani in qualche campo e che il disonore del lavoro manuale scomparisse del tutto. In ogni professione, nessun maestro dovrebbe sentirsi troppo orgoglioso per fare il più pesante».

A Bassano del Grappa, dice Arsine, sono rimaste solo le vecchie vestigia del mondo ceramico. Una passeggiata nel centro della città aiuta a constatare la mutazione dell'ultimo ventennio. Le botteghe, spesso di tradizione familiare, chiudono. Alla ricerca del profitto immediato e della massima competitività sembra essersi spezzata la trasmissione dei saperi propria dell'artigiano. In questo senso i recentissimi dati della Cgia di Mestre appaiono esemplificativi. L'ufficio studi stima la perdita di 51.500 posti di lavoro nell'artigianato nel 2014. Ottantottomila botteghe hanno alzato la saracinesca per la prima volta, 108mila l'hanno abbassata, con un saldo negativo di - 20393. Allargando il periodo in esame dal 2009, identificato dalla Cgia come anno zero della crisi, ne sono scomparse 94.400, da 1466000 a 1371500. Il Veneto si classifica ai piedi del podio: registra la cessazione di 9934 imprese. Il comparto delle attività di natura artistica, legate all'artigianato, è uno dei maggiormente colpiti (meno 11%). Le falegnamerie, il tessile, l'abbigliamento e le calzature (-5409 complessivo) sono in sofferenza. In coda al rapporto leggiamo la lunga lista dei mestieri, oltre una ventina, che sono scomparsi o stanno scomparendo dalle città e dalle campagne.

A fronte dello scenario recessivo tratteggiato dai numeri, Micelli nel testo Futuro artigiano (Marsilio, 200 pagine, 18 euro) prefigura una primavera possibile. Tramontati il modello dei distretti industriali, protagonista dello sviluppo italiano negli anni Ottanta e Novanta, e il mito antropologico dell'artigiano italiano locale, affiora una piccola e media impresa, a cavallo tra artigianato e alta tecnologia, che dal territorio si proietta sul mercato globale. Il manifatturiero, vitale per il paese, dovrebbe ridefinire le categorie dell'innovazione e del consumo. Una delle priorità è rifondare il rapporto fra artigiano e industria su una corretta gestione della proprietà intellettuale e su un'equa ripartizione dei benefici, al fine di stabilire percorsi condivisi. Dovrebbe estinguersi la distinzione fra l'oggetto d'artigianato e quello fabbricato a macchina, cioè il prodotto industriale. «L'artigiano è chiamato a reinventarsi come racconto di sé e della sua storia. La frammentazione del processo industriale a scala globale consentono di rimettere la sapienza artigiana all'interno di filiere che ne riconoscano il valore economico», scrive l'autore.

Un dato acquisito è il calo, imputabile molto alla carenza del sistema formativo, delle vocazioni per molti dei mestieri che Denis Diderot raccolse nell'Encyclopédie. Pavan non riconosce più l'Istituto d'arte di Venezia, divenuta in seguito a poco avvedute riforme un Liceo artistico. Per frequentare istituti post laurea di buon livello, dedicati alla manifattura digitale, occorre trasferirsi a Stoccarda, Francoforte, Londra o in Spagna. «Più che a livello universitario intravedo un cambiamento negli istituti tecnici, dove queste tecnologie a basso costo diventano la leva per riproporre un modello scolastico un po' appannato. Nel Nord Est con Fablab scuola si cerca di cucire una rete fra i laboratori dentro e fuori dalle scuole. Gli studenti gestiscono direttamente campagne di crowdfunding per finanziare piani innovativi e l'acquisto degli strumenti. L'interpretazione delle statistiche, che certificano la crisi, deve essere dinamica. Quei saperi restano un patrimonio straordinario, da non dissipare nella contemporaneità. I fablab possono cavalcare la tendenza all'innovazione del passato, creando un'occupazione ad alta qualifica», aggiunge Micelli.

Al protocollo della Fondazione Nordest aderisce il fablab veneziano, che ha inaugurato una sezione didattica per bambini e adolescenti fino all'età di sedici anni. La sfida comincia dall'educazione. L'intento è di riappropriarsi della cultura materiale, che ci circonda, e di un senso più profondo delle connessioni che ci legano agli oggetti con cui conviviamo. I giovani sperimentano linguaggi di programmazione e disegno semplificati. Si arrangiano nell'arte di aggiustare le cose. Assemblano o smontano giocattoli. «La divulgazione è una nostra missione. Vogliamo stimolare cittadini che si affacciano all'autofabbricazione, rendendoli più consci sui temi della sostenibilità e del riuso. Non è semplice contrastare la logica consumistica dell'usa e getta con la quale si concepisce il mondo. La considero il limite maggiore da superare. Nel caso di idee fertili la condivisione porta a un'accelerazione dello sviluppo. Ciò è avvenuto con il movimento open source nel campo dell'hardware, dal boom delle stampanti 3D consumer ad Arduino nell'elettronica. Il Fablab veicola questo tipo di accelerazione», riassume Leonidas. Il fine ultimo, ricorda Andrea, è di contribuire alla costruzione di una società con cittadini pensanti, che si circondino di cose di cui abbiano effettivamente bisogno. Le cose intorno a noi determinano lo spazio d'azione, regolano molte delle nostre scelte. Gli input della fabbricazione digitale, dell'open source, uniti alle filosofie dell'autoproduzione, si muovono nella direzione di un'interazione attiva con il mondo reale.

Fablab pullulano un po' ovunque in Italia. In Veneto un bando regionale di finanziamento ha attratto centinaia di candidature. Nei prossimi sette anni la Regione investirà centodieci milioni di euro di fondi europei sul digitale (banda larga, digitalizzazione delle aziende), due dei quali riservati alla nascita di una ventina di fablab. L'euforia figlia della novità non è buona consigliera per un'analisi seria delle possibilità di convertire questa energia in economia. Insomma, sussiste il rischio di una bolla eco-mediatica? «L'abbiamo analizzata con lo schema della curva di Gartner - conclude Elia -. Siamo consapevoli quanto i fablab e la stampa 3D siano in una fase di picco. Attendiamo un avvallamento e poi un piano nella produttività per il quale ci attrezziamo. Ora differenziamo l'attività per prevenire il contraccolpo di una bolla. Tantissime strutture, che al momento proliferano, scompariranno nel giro di un biennio. Il modello di business si regge solo con competenze robuste, e il disegno è il nostro punto di forza. Dobbiamo collegare le risorse dalle fondamenta più solide per un’altra cultura del lavoro».


domenica 15 marzo 2015

Zerocalcare, perché il cuore sta a Kobanê

Il Messaggero, sezione Macro pag. 1-21,
15 Marzo 2015

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

L’INTERVISTA
L'ultima frontiera esplorata dal fumetto italiano è quella del giornalismo con un corrispondente sui generis, autoinviatosi in una zona di guerra. Zerocalcare a Kobane, nell'ambito di una staffetta di solidarietà umanitaria e politica partita da Roma, ci ha messo il cuore, dunque la sincerità. E ne ha anche disegnato uno bellissimo nello storione Kobane Calling, che ha conquistato i lettori. Internazionale ha ristampato il numero, dopo aver esaurito in edicola 140mila copie. Album da disegno, matite e pennarelli al servizio di una causa solo parzialmente raccontata. Il trentunenne Michele Rech conferma la cifra distintiva dell'eclettismo nello stile grafico e nei linguaggi. Il suo fumetto d'autore, umoristico e popolare tocca in qualche modo la quotidianità di tutti, e i numeri della casa editrice BAO Publishing stanno a dimostrarlo. Dimentica il mio nome è giunto alla terza ristampa con 95mila copie vendute in tre mesi. Dal debutto, impareggiabile, La profezia dell'armadillo cinque volumi per oltre 200mila copie. Zerocalcare interpreta lo spirito dell'epoca della crossmedialità, dalla carta al blog. Oggi alle 15 chiuderà con il collega Gipi la sesta edizione di Libri come presso l'Auditorium Parco della Musica.

Zerocalcare, perché il cuore sta a Kobane?

«L'andare via dal mio quartiere, Rebibbia, mi crea uno stato d'ansia. Ho l'impressione che sia il centro del mondo e, allontanandomi, ne perderei il ciclo vitale degli avvenimenti. Paradossalmente nel raggiungere la periferia, della periferia dell'impero, dove l'energia elettrica è razionata, ho provato la meraviglia dell'assenza di sradicamento. La sensazione, in quel dato momento storico, era che Kobane illuminasse il mondo con l'esempio di ciò che stava succedendo. Nella prospettiva della lotta libertaria e antiautoritaria delle combattenti del YJA Star (Unione delle donne libere) e del YJG ho visto concretizzarsi insegnamenti e valori in cui ho sempre creduto. La zona di Rojava, le tre province a larga maggioranza curda nel nord della Siria, rappresenta un prezioso esperimento di autogestione democratica. Una regione autonoma con organi decisionali che rispondono ad assemblee popolari e osservano un delicato equilibrio etnico. Sarei riuscito a disegnarla solo col cuore».

In che modo è stata percepita la vostra presenza?

«Nonostante tutte le differenze, gli ostacoli linguistici, ci hanno accolti e integrato nella quotidianità del villaggio. Ci hanno chiesto di non utilizzare la parola ospite, perché a modo nostro, simbolicamente, eravamo dentro quell'esperienza di resistenza. I curdi si lamentavano dei passaggi assai fugaci dei cronisti, che non hanno mai vissuto insieme a loro».

Anche la moda, con linee di capi d'abbigliamento, si è ispirata alla tenuta delle guerrigliere curde. Che cosa c'è oltre quell'immagine accattivante e un po' stereotipata?
«In Italia ci siamo focalizzati sulla figura della donna combattente, in maniera un po' folcloristica, anche se le donne hanno condotto una parte consistente delle operazioni contro le forze dello Stato Islamico. La rivoluzione nel Rojava ha messo la donna al centro della società, dalle responsabilità sociali alla rappresentanza politica. È una consapevole conquista sociale, non imposta dall'alto. I luoghi che abbiamo visitato (campo profughi, villaggi, cittadina) erano tutti guidati da donne. Anche l'ultimo dei contadini, non scolarizzato, ti spiega quanto in questa lotta di liberazione siano dirimenti l'emancipazione e la centralità della donna».

Nel reportage fumettistico su Kobane l'ha messa a disagio la riproduzione dell'immaginario dell'Isis? Sulle tavole le milizie nere appaiono sfumate.
«Non riesco a trovare una chiave interpretativa e grafica di quel male. La funzionalità del loro marketing sconcerta. Un'efferatezza dura da smitizzare senza ricorrere a semplificazioni. Almeno io non ci sono riuscito né nella mia testa in quei giorni né all'interno del fumetto. Ho messo nero su bianco percezioni appena accennate di un disvelamento».

Davvero il mestiere di disegnatore è stato solo un modo per sfuggire all'impiego in aeroporto o alle ripetizioni?
«Sbagli a non crederci. Solo nell'ultimo mese ho accettato l'idea che posso lasciare le ripetizioni, essendo diventata questa effettivamente la mia fonte di reddito unica. Sì, ho cominciato per sottrarmi alla giornata venduta per salario. Non ho mai avuto il sacro fuoco del disegnatore».

Ha dichiarato di vivere una contraddizione gigantesca tra la comunità da cui proviene, per sintesi quella dei centri sociali, e il mondo altro con cui deve interloquire. Il tema dell'identità l'affronta in “Dimentica il mio nome”. Ha imparato a gestire l'antitesi?

«Non la gestisco. Non riesco a farci pace. Lo sforzo più grosso della mia giornata consiste nel cercare di non fare esplodere tutte queste contraddizioni, percorrendo una strada che tenga insieme i pezzi nel modo più limpido e onesto possibile».

Il malessere e la rabbia per la condizione giovanile in Italia non si traduce in discorso politico. Lei si assume questa responsabilità?
«La dimensione politica non afferisce ai miei lavori. Mi affido all'ironia e non so se intercetto quel sentimento di rabbia. Concordo che il malessere sia abbastanza inattivo e represso. Anche se non me l'hai chiesto, ripeto che non sono il portavoce di una generazione o di una rabbia qualunquista. Raffiguro l'amarezza, la disillusione, senza rinunciare a cogliere il buffo dell'esistenza. Considero la politica come un fatto collettivo. Quando mi viene richiesto da una comunità do volentieri il mio contributo nel raccontare una storia. Abbiamo una vita, necessitiamo di una storia».

Nell'ultima opera si è messo maggiormente in gioco, cedendo un pezzo di vissuto personale che non riguarda solo lei?
«Sì, stavolta c'è di diverso che ho coinvolto qualcun altro, persone care. Ho manifestato dolori, emozioni pure, frammenti della famiglia, con mia madre e mia nonna. La prima ha seguito lo sviluppo delle strisce pagina per pagina. Non intendevo prevaricare. Il dolore provoca dei buchi nella trasmissione della memoria. Poi ognuno li riempie come può, perché i buchi se non li riempi sono un casino».

Anche in questa graphic novel ci riporta a Rebibbia, con un riferimento puntuale al carcere. Un'istituzione totale da superare?
«Questo carcere non rieduca, tradisce la Costituzione. Non produce alcun effetto positivo, va rivisto e superato. Quando esci sei fuori da qualsiasi dinamica di reinserimento. Nel quartiere è parte del tessuto produttivo, economico. E al contempo rimosso. Non ci si pone il problema di cosa avvenga là dentro, nel più grosso ammasso di corpi diseredati in Europa. Lo interiorizzi come parte dell'arredamento urbano».

Che cosa non la convince della discussione sul decoro a Roma? In Rete la sua critica al portale “Roma fa schifo” ha acceso una polemica vivace.
«Anche fra i miei lettori, con sorpresa, quella esternazione ha alimentato un dibattito. Mi pare lapalissiano che la tutela del decoro urbano sia sacrosanta. Però sembra che dia fastidio la vista del povero, e non la povertà. Il questuante è il nostro avversario? Per non porre domande sulle condizioni d'ingiustizia, lo rimuoviamo. Così Roma non la riconosco e mi spaventa».

Preferisce il blog ai social network?
«Con il blog nessuno può dettarmi i termini della gestione. L'interazione con il lettore non è mediata dal sistema e dai ritmi dei social network. Qualcosa d'impagabile per chi fa questo mestiere».

La scuola è stata il tema guida di Libri come. Lei quale scuola sogna?

«Quella in grado di rifondare il patto educativo e riaccendere le passioni».

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