http://www.minimaetmoralia.it/wp/selma-e-tutti-i-giorni-lelogio-alla-disobbedienza-di-allen-iverson/
di Gabriele Santoro
Il rumore deve essere stato fragoroso, quanto sincero lo stupore dei compagni di squadra. «Non sono venuto a Memphis per un secondo posto. Coach, Alonzo Mourning non promise di regalarti, una volta approdato in Nba, un pullman decente per le trasferte? Ci penserò io», disse l'allora tredicenne Allen Ezail Iverson, dopo aver gettato dal finestrino il trofeo di consolazione. Qualche anno più tardi un giornalista chiese a caldo a Michael Jordan, se l'esordiente non parlasse troppo in campo. Jordan s'asciugò una goccia di sudore, scosse la testa, per poi rispondere: «Iverson vuole essere rispettato nella Lega. È confidente e vuole emergere. Ed è veramente veloce». Pochi minuti prima Dennis Rodman aveva rifilato una gomitata a quel ragazzino dalla taglia limitata, ma dal cuore fuori misura, reo di averlo beffato a rimbalzo. The greatest heart, secondo Larry Brown che ritroveremo spesso in questa vicenda umana. Per sovvertire le regole del gioco e cambiare la direzione di una vita, che non promette nulla, serve il cuore.
di Gabriele Santoro
Il rumore deve essere stato fragoroso, quanto sincero lo stupore dei compagni di squadra. «Non sono venuto a Memphis per un secondo posto. Coach, Alonzo Mourning non promise di regalarti, una volta approdato in Nba, un pullman decente per le trasferte? Ci penserò io», disse l'allora tredicenne Allen Ezail Iverson, dopo aver gettato dal finestrino il trofeo di consolazione. Qualche anno più tardi un giornalista chiese a caldo a Michael Jordan, se l'esordiente non parlasse troppo in campo. Jordan s'asciugò una goccia di sudore, scosse la testa, per poi rispondere: «Iverson vuole essere rispettato nella Lega. È confidente e vuole emergere. Ed è veramente veloce». Pochi minuti prima Dennis Rodman aveva rifilato una gomitata a quel ragazzino dalla taglia limitata, ma dal cuore fuori misura, reo di averlo beffato a rimbalzo. The greatest heart, secondo Larry Brown che ritroveremo spesso in questa vicenda umana. Per sovvertire le regole del gioco e cambiare la direzione di una vita, che non promette nulla, serve il cuore.
Molti per un malinteso senso di
riverenza si defilarono dall'affrontare Jordan. «Nonostante avessi
eseguito alla perfezione il mio movimento, riuscì quasi a stopparmi.
Una cosa pazzesca che spiega quanto fosse anche un difensore
straordinario». Il 12 marzo 1997 Philadelphia cominciò a
innamorarsi del bambino che decise di sfidare il mito. Al college
Dean Berry gli illustrò le possibilità del crossover, una finta ad
alto coefficiente di spettacolarità, che sembra offrire la palla
alla difesa. La rapidità di esecuzione e il ritmo imposto da Iverson
però è difficile da contrastare. L'elasticità delle caviglie di
Jordan pagò dazio alla creatività della matricola. I Sixers
cedettero ai Bulls con un superfluo 108-104, ma rimase impresso quel
gesto, quel crossover che indicò una svolta generazionale.
Ann Iverson sostiene che le coincidenze abbiano un'anima. Abitare in via Jordan Drive dunque non fu una pura casualità. Un clan familiare di tredici persone stipate in due stanze: tante donne, pochi uomini, spesso alle prese con il carcere. A fine mese i conti non tornavano mai: le bollette o la spesa alimentare? Dagli angoli delle strade di Newport News risuonò presto il nome di un giocatore di football minuto, mai scalfito dalle botte, prodigio di velocità che non ha alcuna paura. All'età di otto anni scatta come un ossesso, come a dirci che una volta nato non puoi nasconderti. Ann sostiene di non essere stata penetrata. L'immacolata concezione di un figlio predestinato nella più complessa delle adolescenze. Lei e Allen Broughton avevano quindici anni, e per quel che è dato constatare s'amarono. Erano entrambi playmaker con le caratteristiche che avrebbero esaltato il primogenito.
Ann Iverson sostiene che le coincidenze abbiano un'anima. Abitare in via Jordan Drive dunque non fu una pura casualità. Un clan familiare di tredici persone stipate in due stanze: tante donne, pochi uomini, spesso alle prese con il carcere. A fine mese i conti non tornavano mai: le bollette o la spesa alimentare? Dagli angoli delle strade di Newport News risuonò presto il nome di un giocatore di football minuto, mai scalfito dalle botte, prodigio di velocità che non ha alcuna paura. All'età di otto anni scatta come un ossesso, come a dirci che una volta nato non puoi nasconderti. Ann sostiene di non essere stata penetrata. L'immacolata concezione di un figlio predestinato nella più complessa delle adolescenze. Lei e Allen Broughton avevano quindici anni, e per quel che è dato constatare s'amarono. Erano entrambi playmaker con le caratteristiche che avrebbero esaltato il primogenito.
La ricerca della paternità è una
costante dell'esistenza di Allen. Spike Lee in He got game
restituisce tracce biografiche degli Iverson. Una scena in
particolare ricorda il rapporto con il padre acquisito Michael
Freeman, più volte incriminato per spaccio di droga, motore della
sopravvivenza economica in un'area colpita dalla
deindustrializzazione e dagli effetti collaterali della Reaganomics.
Al playground di Anderson Park trascorsero giornate sull'asfalto in
forsennati uno contro uno. A dieci anni Allen comprese quanto la
pallacanestro possa essere una questione di libertà, un'espressione
artistica con la quale comunicare al mondo la propria essenza. E poi
pronunciò la promessa in un colloquio dietro le sbarre: «Indosserò
la canotta dei Sixers, la squadra del tuo idolo Julius Erving.
Guadagnerò per occuparmi di tutti voi».
Come dentro a un romanzo di Toni
Morrison, Allen costringe a non scordare il lato scomodo di una
storia negata. Non dismette la propria negritudine. Non resterà mai
orfano della propria identità. Il sorriso costruito, il linguaggio,
l'acconciatura e l'abbigliamento di Michael Jordan erano ben più
rassicuranti; riuscivano a far dimenticare la pelle nera alla middle
class americana. Al diciottenne Kobe Bryant i nonni fecero studiare
le conferenze stampa di MJ e i Robinson. Quando Iverson ottenne il
riconoscimento di miglior esordiente dell'anno, l'Nba non diffuse le
immagini della premiazione. All'organizzazione non piacquero la
bandana bianca, i jeans larghi e soprattutto quella maglietta nera,
dove fece stampare la lista delle vie più malfamate della propria
periferia, Bad News Hood Check. La sua esistenza non perde
l'autenticità quando il portafogli è gonfio.
Il denaro non è un valore, lo si può
solo spendere per chiarire loro quanto sia ridicola la linea di
confine che traccia. Lo spiegò a Lee, che lo voleva nel ruolo di
protagonista in He got game: «Perdonami, ma non posso. È la prima
estate con qualche soldo in tasca. Voglio divertirmi e devo fare
qualcosa per Newport “Bad Newz”, where a lot of shit happens». E
così scritturarono Ray Allen, l'acerrimo rivale di college. Iverson
non si conforma, gli altri devono accostarsi alla sua cultura. Impone
il punto di vista oscurato del ghetto, perché come ha scritto Teju
Cole nel più puntuale intervento sull'anniversario della marcia:
«Selma è uno specchio spaventoso dell'America bianca che fu. Ma
diciamolo: che è. Selma oggi è povera, segregata e depressa». A
Baltimora nascere in due quartieri che distano tre miglia equivale a
una differenza di diciannove anni nell'aspettativa di vita: 84 a
Roland Park, 65 a Downtown/Seton Hill. Il medesimo abisso che divide
il Giappone dallo Yemen.
Iverson capì che aveva qualcosa di
prezioso da preservare, quando in una sola estate vide morire otto
amici in seguito a sparatorie. Lo ripeté a tutti che un giorno
sarebbe approdato in Nba o Nfl. In lui rivediamo tratti dell'amore
disperato per la vita di Gabourey Sidibe nella pellicola Precious.
«Non sono uno svantaggiato. Non mi interessa l'assistenza. Vado alla
mensa solo insieme a te», l'orgoglio brucia davanti all'insegna
School's Underprivileged Meals Program. Dennis Kozlowski, a lungo
capo allenatore della squadra di football della Bethel High School,
era preoccupato dalla denutrizione di quel talento imprendibile da
salvaguardare, che al basket preferiva il football. Gli comprò
divise e vestiti eleganti, che mai indossò: «Coach, li hanno rubati
i fidanzati di mia madre». Il 7 giugno 1975 all'Hampton General
Hospital, dalla culla sporsero due braccia lunghissime e Ann decise:
pochi dubbi, sarà la pallacanestro a salvarci, urlò. Nient'altro
che una questione di redenzione. But my hand was made strong/By the
'and of the Almighty/We forward in this generation/ Triumphantly.
Larry Brown e Iverson s'incontrarono
per la prima volta nella palestra dell'Università del Kansas.
Durante un allenamento l'allora coach di college prese informazioni
sul più esile e tosto in campo. Non scarseggiavano le
controindicazioni e gli interrogativi: quali prospettive per un
ragazzo che a fatica avrebbe superato il metro e ottanta centimetri
di altezza e i settanta chilogrammi di peso? Sarà mai allenabile uno
con quel passato? Un bel giocatore da playground, nulla più,
dissero. Nell'estate del 1992 qualcuno iniziò a ricredersi. Nel
corso della Boo Williams Summer League Iverson salì in cattedra a
livello nazionale. «Uscito per raggiunto limite di penalità ho
sperato che la partita non finisse al supplementare. Avrei odiato
starmene seduto», chiosò. La giovane guardia della Bethel High
School venne eletta miglior giocatore della manifestazione e ottenne
lo stesso riconoscimento in altri eventi di rilievo. «Nel Paese non
esiste un pari età di questa qualità. È fantastico», ammise
Williams. «Sapevo di valere queste parole. Mi dicevano di guardare a
Mike Evans. No, no, no, io posso raggiungere Mike. Mike Jordan»,
aggiunse AI. Nell'altra selezione finalista spiccò Jerry Stackhouse,
un altro talento con cui ebbe una complessa convivenza tecnica nei
futuri Sixers.
Il 31 luglio David Teel sul Daily Press
offrì un resoconto lucido di un'estate di fede assoluta: «Quattro
mesi fa abbiamo fatto una figuraccia nel sottovalutare Iverson nelle
graduatorie nazionali. È il miglior prospetto dell'ultimo decennio,
almeno. Incredibile la sua rapidità. Rende semplici le cose
difficili. Fa tutto ciò che il ruolo richiede: un difensore di
rottura che sopperisce alla taglia con l'anticipo, implacabile in
contropiede e va marcato dai tre punti, salta in modo impressionante.
Dovrebbe limitare il trash talking. È incline alla provocazione e
ciò potrebbe far riflettere molti coach del college». In difesa, in
post basso, minimizza gli svantaggi con la connaturata aggressività
sulla palla. I video delle partite di quell'epoca catturano
l'istantanea di un'energia vitale e disordinata. L'unico disagio sul
campo è la canotta che veste sempre larga. Il numero tre attirò
immediatamente la folla. Tawanna è lì senza sapere cosa sarà. A
Bethel, dopo aver trascinato al titolo sia la squadra di football sia
quella di basket, optò per la palla a spicchi.
L'impegno di sottrarre dai guai Iverson
accomunò gli allenatori che l'hanno amato. Kozlowski fu il più
esplicito, dopo essere stato allertato dalla polizia. Allen apparve
in un video in cui acquistava una dose di sostanza stupefacente per
la complessa Ann. «La prossima volta, qualora necessario, manda un
tuo amico. Tu hai un sogno da tutelare», scongiurò Koz. Correva il
San Valentino 1993, quando tutto sembrò andare in pezzi. «Piccolo
negro», provocò il gigante bianco Steve Forrest, già noto alle
autorità per possesso di cocaina. Allen pare che non oltrepassò
l'invettiva verbale. Per la compagnia invece il passo verso la rissa
fu breve. In qualche minuto la sala da bowling perse i propri
connotati, divelta con numerosi feriti. Le telecamere non ripresero
alcuna azione violenta di AI.
I testimoni del tempo lo definiscono il
caso più vorticoso dall'assassinio di Martin Luther King. Con lo
spettro dello scontro razziale il clima si avvelenò a Hampton e
Newport News, non caratterizzate da uno squilibrio demografico fra
neri e bianchi. La comitiva di Forrest proveniva da un distretto
benestante e politicamente potente. Cinque giorni dopo essere stato
nominato nell'All-American team delle high-school Iverson venne
arrestato con cinque capi d'imputazione. Appena rilasciato in attesa
del giudizio realizzò 42 punti contro la malcapitata Ferguson. La
sorte del gioiello era nella sentenza del giudice Nelson Overton. Il
12 luglio '93 emise una condanna durissima: cinque anni di
reclusione. Stay strong, mormorò Ann. Iniziò a muoversi il
reverendo Jesse Jackson. I muri adornati di graffiti: Free Iverson. È
stato un detenuto modello. Sveglia alle cinque per fare il pane, poi
due ore per tirare a un canestro scassato. Spike Lee gli recapitò i
testi di Malcom X, Jordan e Bill Cosby contribuirono alle spese per
farlo accedere al programma scolastico della privata Richard Milburn.
L'intrigo si sbrogliò nello studio
degli avvocati Woodward e Shuttleworth, inseriti a un alto livello
politico. L'attività lobbistica con il governatore della Virginia
Doug Wilder produsse gli effetti sperati. Il primo governatore
afroamericano negli Stati Uniti si convinse della sussistenza di
numerosi dubbi e di un pregiudizio razziale che aveva condizionato il
verdetto. La colpevolezza è tutt'altro che evidente, tanto da
concedere un atto di clemenza: «Merita l'opportunità di non
interrompere la sua formazione». La tutor Sue Lambiotte, personaggio
centrale in un periodo delicatissimo, si sentiva morire all'idea che
un ragazzo con tale energia mentale e talento artistico vedesse
sfumare gli anni migliori in cella come troppi coetanei
afroamericani. Nell'anno di studio one-to-one, senza sport, stimolò
la sua coscienza critica, ponendo lo sguardo oltre la pallacanestro.
Chi scommetterà sul suo avvenire
professionistico con questo fardello? Si domandava Ann. Il messaggio
a John Thompson è stato diretto: «Aiuta mio figlio». Il coach, che
d'abitudine ha allestito le proprie squadre attorno al pivot, mostrò
curiosità per lo stile libero di Iverson, quale possibile centro di
gravità della sua Georgetown. La valutazione del rappresentante
accademico della prestigiosa università di Washington rese raggiante
Lambiotte: «Abbiamo fra le mani un diamante grezzo». L'accesso al
college era cosa fatta. Ascoltiamo il commentatore della prima
partita Ncaa, trasmessa in diretta televisiva, bacchettare Iverson
sulla gestione del ritmo. Neanche il tempo di concludere il concetto,
che Allen scagliò nella retina due splendide triple di puro istinto,
fuori schema. È sempre all'attacco. Thompson gli diede carta bianca,
insegnando però l'arte della pazienza. «Pensate alla sua infanzia.
L'ultima cosa di cui necessita è una sovrastruttura, nonostante sia
recettivo in allenamento. Ha bisogno di volare. Georgetown correrà
per una ragione: Iverson». Fra i due s'instaurò un rapporto paterno
destinato a durare oltre il biennio universitario. Intanto, non
ancora ventenne, Tawanna mise al mondo la primogenita Tiaura.
Per capire qualcosa di Iverson può
essere utile guardare la conferenza stampa d'addio. Il nodo stretto
in gola si percepisce in ogni dichiarazione. «Il momento più
emozionante della mia carriera è stato la scelta al Draft. La mia
non è la terra dell'abbondanza. Avere un'opportunità è tutto».
Due anni al college, poi l'uomo di casa avrebbe risolto tutto col
primo contratto Nba. Lo anticipò a Freeman in uno dei vari colloqui
in carcere. Thompson non aveva perplessità sull'impatto culturale
del ragazzino sul gioco al livello superiore. Semmai temeva per le
ore lontane dal parquet. Per una volta le tessere del mosaico
apparirono in armonia. Ai Sixers si era insediata una nuova
proprietà. Pat Croce, figlio della working class arricchitosi
intuendo il business del benessere, da fisioterapista dei vip aveva
costruito una costellazione di palestre a Philadelphia. Fra le sue
mani passarono i muscoli di Charles Barkley e Julius Erving. Vendette
tutto per il 10% della società e salì sul ponte di comando. Nel
1996 le alternative al Draft, appuntamento annuale in cui le squadre
possono selezionare atleti perlopiù provenienti dal college, erano
sovrabbondanti: fra gli altri si dichiararono eleggibili Steve Nash,
Stephon Marbury, Marcus Camby, Ray Allen e Kobe Bryant (tredicesima
scelta...). Croce volle però l'altro, quello capace di accendere
l'immaginario collettivo della città della Dichiarazione
d'Indipendenza. Il risultato dei test psicologici, ai quali Iverson
fu sottoposto, è sintetizzabile nelle parole della leggenda Mike
Krzyzewski: «Difficile scovarne uno così competitivo. Ha il cuore
di un leone».
A Rutherford, nel New Jersey, in una
notte di fine giugno il plenipotenziario dirigente dell'Nba David
Stern pronunciò la frase: «With the first pick in the 1996 Nba
Draft the Philadelphia 76ers select Allen Iverson from Georgetown
University». Tre anni di contratto, nove milioni di dollari, baci e
abbracci con Ann, Tiaura, per poi andare dietro le quinte dai membri
della propria indissolubile comitiva Cru Thick. Il giocatore più
basso a diventare la prima scelta ciondolò fino al podio con il
cappellino dei Sixers in testa.
«I don't wanna be Michael Jordan, I don't wanna be Magic, I don't wanna be Bird or Isaiah. I don't wanna be any of those guys. When my career is over, I want to look in the mirror and say I did it my way». Con l'era Jordan al tramonto il sistema necessitava di un'altra icona. La serata del Draft al tavolo degli Iverson c'era un solo bianco, che applaudì compassato con un bacio sulla guancia ad Ann. David Falk, deus ex machina dell'industria jordaniana, divenne l'agente, immaginando un altro impero commerciale. Il rapporto culminò con un licenziamento in tronco. A Falk non piacciono i tatuaggi e le treccine da galeotto di Iverson. Anticorporate guy, lo definì. Tentò invano di piazzare il prodotto: niente sponsorizzazioni da McDonald's, Coca-Cola, Gatorade e affini, che invece sposarono il precedente assistito. Reebok con una sponsorizzazione da 50 milioni di dollari si riposizionò sul mercato delle calzature sportive, all'epoca da 7 miliardi di dollari, controllato al 40% dalla Nike. Un mese dopo la firma della partnership gli investitori riacquistarono fiducia nella multinazionale, che grazie a Iverson intercettò su scala globale il costume della generazione suburbana sedotta dal linguaggio dell'hip-hop. Incise pure un disco rap, parzialmente censurato, col nome d'arte Jewelz.
«I don't wanna be Michael Jordan, I don't wanna be Magic, I don't wanna be Bird or Isaiah. I don't wanna be any of those guys. When my career is over, I want to look in the mirror and say I did it my way». Con l'era Jordan al tramonto il sistema necessitava di un'altra icona. La serata del Draft al tavolo degli Iverson c'era un solo bianco, che applaudì compassato con un bacio sulla guancia ad Ann. David Falk, deus ex machina dell'industria jordaniana, divenne l'agente, immaginando un altro impero commerciale. Il rapporto culminò con un licenziamento in tronco. A Falk non piacciono i tatuaggi e le treccine da galeotto di Iverson. Anticorporate guy, lo definì. Tentò invano di piazzare il prodotto: niente sponsorizzazioni da McDonald's, Coca-Cola, Gatorade e affini, che invece sposarono il precedente assistito. Reebok con una sponsorizzazione da 50 milioni di dollari si riposizionò sul mercato delle calzature sportive, all'epoca da 7 miliardi di dollari, controllato al 40% dalla Nike. Un mese dopo la firma della partnership gli investitori riacquistarono fiducia nella multinazionale, che grazie a Iverson intercettò su scala globale il costume della generazione suburbana sedotta dal linguaggio dell'hip-hop. Incise pure un disco rap, parzialmente censurato, col nome d'arte Jewelz.
«Pensa di essere Dio. Non rispetta
nessuno, è egoista. Pensa che il campo sia la sua strada, il suo
playground, e che possa fare e dire ciò che vuole», sbraitò
Rodman. Lui inscalfibile conquistò il titolo di matricola dell'anno.
Sceglie di comunicare col mondo anche mediante i tatuaggi con cui
disegnò il corpo. Nessuno mai come lui da matricola: cinque gare
consecutive sopra i 40 punti. Le sue giocate bizzarre, eccentriche,
avventurose, che i commentatori della notte del Draft catalogarono
quali debolezze del suo bagaglio, fanno tuttora impazzire l'America.
The emotion of his game is a talent. Ai biografi la guardia del corpo
narra di non averlo mai visto martoriarsi con infinite sedute di
tiro. Il lavoro era cerebrale. Per dirla con Isaiah Thomas, che un
po' gli assomigliava: «L'aspetto più interessante del gioco è
l'opportunità di esibire la propria creatività». I media
s'accapigliarono sulla rottura col modello Jordan. L'equilibrio fra
l'asfalto di Newport, terra natale anche di Ella Fitzgerald, e i
valori della middle class da ossequiare è complesso.
Philly non era una squadra vincente (22
successi in 82 gare). Al secondo anno Croce rincorse un guru della
panchina. Pitino pretese solo Boston. Jackson non lasciò Jordan. E
infine bussò alla porta di Larry Brown, passionale e umorale quanto
la stella con cui avrebbe dovuto convivere. Un maestro della vecchia
scuola, che ha considerato a lungo Iverson un atleta straordinario,
non un cestista. «Allen è una guardia. Non ha la mentalità del
regista. Sembriamo un gruppo assemblato per una lega estiva in onda
su Mtv. Non ci comportiamo da squadra», Brown, playmaker educato con
la disciplina ferrea di Frank McGuire a North Carolina, lava in
pubblico i panni sporchi. Dopo le nottate nei club, al casinò o in
feste albeggianti, a ogni allenamento saltato, Croce deve ricomporre
una frattura culturale e tecnica. Quest'ultima si rimarginò
innanzitutto con la cessione di Stackhouse e l'arrivo di Ratliff e
Mckie. Per l'altra ci volle più tempo. Sgravato dai compiti di
regista, col supporto di Eric Snow, imperversò: ha chiuso la
carriera con quattro titoli da miglior marcatore a 26.7 punti di
media (722 partite, 28.879 minuti, 27.6 punti di media eguagliando
record Sixers detenuto da Chamberlain). A Philadelphia hanno vinto
campionati con Chamberlain ed Erving, ma il coraggio e l'onestà di
Iverson sono entrate sottopelle. Il primo marzo 2014 la cerimonia per
il ritiro della sua canotta è stata da brividi: «Ti amo
Philadelphia per avermi accettato e per aver abbracciato i miei
errori dai quali ho imparato. Il nostro legame affettivo non ha
eguali. Anche alla fine dei miei giorni Philly resterà la mia
casa».
Questa la premessa del conflitto con
Brown: «Crede di potermi trattare come fosse un secondino bianco e
io il carcerato». Un pensiero insopportabile per un liberale
progressista qual è il coach di Brooklyn. Iverson sognò la sua
sostituzione con Thompson da Georgetown. Dall'incomunicabilità è
nata un'amicizia profonda, che commuove. Due solitudini che trovarono
pace. In fondo ad accomunarli c'è la precoce assenza paterna.
Impararono a fidarsi l'uno dell'altro. Larry stima Allen perché in
campo non ha mai alzato bandiera bianca. Lui maturò senza
snaturarsi. «Oggi in aeroporto mi riconoscono come l'allenatore di
Iverson. Durante i 48 minuti lottava su ogni possesso. L'ho amato per
questo. Nelle difficoltà non ha mai abbandonato i propri compagni,
dando tutto per la vittoria. A volte non lo faceva nel modo giusto.
Ma non ci sarà più nessuno come lui: the greatest competitor». È
così, lui che danza anche sul dolore contraccambia: «Spesso non ho
interpretato la sua idea di pallacanestro, tuttavia ha intuito e
colto il mio amore per il gioco. Rimpianti? No one thing, no one
thing. Dio non ha creato nessuno perfetto. Qualora morissi oggi, e di
vita ne avessi un'altra, vorrei essere ancora Allen Iverson, malgrado
sia il più grande fan dell'amico Michael Jackson e di Jordan. Mi
dispiace solo di non aver permesso pienamente a Larry di allenarmi,
di non essermi attenuto ai suoi insegnamenti. Ho sprecato troppo
tempo a discutere con lui, e il 99% delle volte è stata mia la
responsabilità. The greatest coach to me, in my heart».
Riassumere in una partita la carriera
Nba di Iverson non è una scorciatoia comoda. Dopo cocenti
eliminazioni dai playoff per mano degli Indiana Pacers di Reggie
Miller, nel 2000 i Sixers assecondarono le esigenze del proprio
allenatore. Iverson lo seguiva. Avevano un'anima difensiva e
fondamentali di squadra. Inaugurarono la stagione con dieci vittorie
consecutive. Anche stavolta però le tensioni non mancarono.
Trentasette punti di Nowitzki, l'angelo biondo di Dallas, rischiarono
di far saltare il banco. Brown minacciò le dimissioni dopo un
confronto pesante nello spogliatoio. L'ennesima mediazione di Croce
ricucì lo strappo. I Sixers archiviarono al primo posto la stagione
regolare (56 vittorie, 26 sconfitte) e ricevettero tutti gli allori:
Iverson miglior giocatore dell'anno, Brown coach of the year, Mckie
miglior sesto uomo e Mutombo defensive player of the year. In una
notte playoff meravigliosa contro i Raptors di Vince Carter segnò 54
punti. Gli chiesero da dove avesse tratto l'energia: «Dalla povertà,
dalla vita». In finale di conference con la schiena a pezzi,
disobbedendo ai medici, castigò i Bucks di Ray Allen con il suo show
on the stage: 46 punti in gara 6, 44 in quella senza ritorno per
ottenere il traguardo intermedio.
Poi arrivò la partita.
Poi arrivò la partita.
I Lakers, che non perdevano da
sessantasette giorni, rappresentavano l'ultimo ostacolo frapposto al
titolo. Tutti pronosticarono un avverso 4-0. In gara uno allo Staples
Center di Los Angeles andò in scena la personale resistenza di
Iverson, perché là dentro c'era la sua terra promessa. L'avvio
appare il preludio alla cavalcata losangelina. Fox è tarantolato. Il
leader dei Sixers non trova la giusta distanza (0/6 al tiro), poi
infila 38 punti in 29 minuti per un vantaggio insperato, 70-58.
Guarda negli occhi il parterre dei ricchi, sorride e applaude. Le
staffette difensive di Phil Jackson non funzionano. La leggenda
s'aggrappa alla montagna Shaquille O'Neal (41 punti, 19 rimbalzi) per
la rimonta. Tyronn Lue approfitta del fisiologico appannamento di
Iverson (3 punti in 15'), sistematicamente raddoppiato. Si restringe
lo spazio del volo, ma gli scudieri Mckie e Snow lo sorreggono. Col
quinto fallo di Mutombo e il pareggio di Bryant è un giorno da
rifare, 92-92. Il tempo è supplementare. È buio pesto, 92-99,
quando Raja Bell inventa il piede perno di Dio. È il momento del
vogliamo tutto per Iverson (35.6 punti di media nelle cinque serate
finali). Ottima apertura della transizione sul lato che concretizza
con un viaggio in lunetta. Un pugno tenue sul cuore celebra una
tripla in contropiede. Infine dall'angolo più stretto: partenza
incrociata, passo indietro con palleggio in mezzo alle gambe e tiro
in sospensione; Lue è giù per terra come i Lakers, 107-101 dts. Il
composto ed elegante Larry Brown non ci sta più dentro ai confini
dell'area tecnica. Gli altri si laureano campioni, ma di questa
storia si ricorda soltanto la prima virgola.
Al Tribeca ha riscosso consensi un bel
documentario biografico, Iverson, che sabato verrà trasmesso in
prime time da Showtime Sports, perché il personaggio parla ancora
dei sogni e delle paure americane. Dall'apice del 2001 la discesa è
stata abbastanza repentina. Uccisero il più caro degli amici della
Cru Thick al culmine di una lite banale a Newport; la costante degli
infortuni da cui rimbalzava; i problemi con la giustizia
mediatizzata; l'abuso di alcool; il divorzio da Tawanna; la
dissipazione di un patrimonio economico da 154 milioni $, come
d'altra parte succede al 60% degli ex Nba, che in media a cinque anni
dal ritiro finiscono in bancarotta. Il passo d’addio ufficiale alla
pallacanestro lo raffigura come una tragedia. Oggi però fuori
splende un bel sole e in qualche playground, in una qualunque
periferia del mondo, c’è qualcuno che prova a far volare con la
sua canotta la propria risposta alla domanda di senso più alta.
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