domenica 20 novembre 2016

Jonah Lomu, il figlio del vento che cambiò il rugby

Il Messaggero, sezione Macro, pag. 20
20 novembre 2016

di Gabriele Santoro


di Gabriele Santoro

All'inizio del 1989 l'uragano nero, quando varcò per la prima volta la soglia dell'ufficio di Chris Grinter, non era altro che un tredicenne, uno dei tanti ragazzini di strada dal sobborgo Greenlane, nella parte sud di Auckland, la città più popolosa della Nuova Zelanda. «Forse era fisicamente un po' più grande dei suoi coetanei, ma la sua futura magnificenza e abilità atletica non apparivano ovvie», ha raccontato l'allenatore del Wesley College. Nei cinque anni successivi Jonah Lomu, ala classe 1975, ha colto di sorpresa il mondo e ha cambiato il gioco con la palla ovale, divenendone la prima icona globale.


Nel 1995 Nelson Mandela tentava di ridisegnare le linee di confine e infrangere le convenzioni anche nel rugby, disciplina ad appannaggio dei bianchi, tenendo però insieme il Sudafrica. E c'era una Coppa del mondo per mostrare la reificazione dell'idea di un paese oltre la lacerazione dell'apartheid. Laurie Main, l'allenatore degli All Blacks, la selezione nazionale, si accorse di quel talento che inanellava record di velocità e lo scatto fu breve: «Nel 1994 sapevamo che c'era un potenziale straordinario in Lomu per realizzare qualcosa di spettacolare e inatteso già nella Coppa del mondo del 1995». L'ultima domenica del mese di giugno 1994 a Christchurch, Lomu, appena diciannovenne, divenne l'All Black numero 941.

Marco Pastonesi, giornalista e scrittore, non ha mai nascosto la propria predilezione per i gregari. Ora con L'uragano nero. Vita, morte e mete di un All black (66thand2nd,185 pagine, 18 euro) torna a misurarsi con un uomo dall'esistenza più larga della vita e, seguendo i passi dell'anima del campione scomparso nel 2015, ci guida in tanti luoghi italiani del rugby.

Un italiano, Vittorio Munari, cacciatore di talenti per il Petrarca Padova, rimase subito abbagliato dal giovanissimo Lomu. Era bello come Cassius Clay, al quale verrà simbolicamente associato per l'impatto mediatico, all'Olimpiade di Roma nel Sessanta: centodiciotto chili senza un'oncia di grasso, sempre pronto, seppure di carattere riservato. Il rugby l'aveva conosciuto sulla strada, dove mitigava il dolore di una famiglia segnata dalla violenza paterna.

Pastonesi ci ricorda che il rugby è forza, non violenza, e questo sport tirò fuori dai guai l'adolescente Lomu, invischiato in pessime compagnie. La madre lo iscrisse al Wesley College, che dal 1884 ha accolto e formato studenti fondamentali per la storia degli All Blacks. Nessuno come lui era in grado di abbinare quella velocità a quella stazza. Da studente fermò a 10”89 il tempo sui centro metri piani: un figlio del vento che distruggeva i placcaggi.

Venticinque passi, tre placcaggi evitati, sette secondi di tempo per la meta più celebrata: così in Sudafrica, durante la semifinale mondiale contro l'Inghilterra, e nonostante la sconfitta in finale contro gli organizzatori del torneo, Lomu assurse al ruolo di icona nella cultura di massa. La storia di Jonah abbaglia per come ha resistito già dal 1996 alle rovine, alla malattia: sindrome nefrosica. Prima e dopo il trapianto di rene è stata questione di andate e ritorni coraggiosi sul campo. Gioca, risorge, per poi doversi arrendere. Muore poco più che quarantenne.

C'è una bella fotografia, scattata nel 1994. Lomu, nello spogliatoio di Christchurch, stringe la prima maglia All Black della sua carriera e sembra assorto in preghiera. Il rugby è un elemento culturale inscindibile dalla nazione neozelandese, sono cresciute insieme, in una relazione del tutto particolare con i colonizzatori, gli inglesi.

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