Pubblichiamo la prima parte di un lungo
ritratto di Pio La Torre realizzato da Gabriele Santoro a
partire dal libro Sulle ginocchia. Pio La Torre, una storia,
scritto dal figlio Franco per Melampo.
di Gabriele Santoro
«Due di maggio, bandiere al vento. Son
morti due compagni, ne nascono altri cento», urlarono dal cuore del
corteo. In fondo però sapevano anche loro che la morte violenta di
Pio La Torre e Rosario Di Salvo non era una ferita suturabile. A
Enrico Berlinguer, e soprattutto al Paese, il terrorismo politico
mafioso, che ha dettato parte cospicua dell'agenda dei giorni nostri,
aveva sottratto due uomini valorosi. «(...) Perché hanno ucciso La
Torre? Perché hanno capito che egli non era uomo da limitarsi a
discorsi, analisi, denunce di una situazione, ma era un uomo che
faceva sul serio alla testa di un grande partito di lavoratori e
popolo. Era capace di suscitare grandi movimenti, di stabilire ampie
alleanze con forze e uomini sani, democratici di altre tendenze; di
prendere iniziative che colpivano nel segno», scandì il segretario
del Partito Comunista Italiano durante l'orazione funebre.
Il 2 maggio 1982 a Palermo, in piazza
Politeama, centomila persone tennero la rabbia, le lacrime e i pugni
fuori dalle tasche. La Banda di Altofonte fece risuonare le note
dell'Inno dei lavoratori e dell'Internazionale. La medesima colonna
sonora del matrimonio con rito civile che, il 29
ottobre del 1949 al Municipio di Palermo, celebrò l'unione con
Giuseppina Zacco. Sandro Pertini con la voce rotta dell'emozione
accarezzò il viso di quella donna coraggiosa, sempre e per sempre al
fianco di un uomo che amava la libertà. In quel giorno di lutto e di
lotta, senza vessilli della Democrazia cristiana, sfilò anche Sergio
Mattarella, futuro Presidente della Repubblica. Una fotografia ritrae
una signora dei vicoli stretti. Sotto a un balcone con le lenzuola
stese, s'inginocchia con le mani giunte e piange senza consolazione.
Con il caschetto da lavoro in testa c'erano i minatori di Pasquasia.
Issarono sulle spalle il feretro e scortarono i carri funebri. Fu
sincera la commozione popolare per quelle due vite spese al solo fine
della giustizia sociale.
Nell'agguato del 30 aprile del 1982
Franco La Torre perse il padre, non ancora cinquantacinquenne.
Sceglie con cura le parole, quando lo rievoca, avvertendo il peso di
un'eredità preziosa, al confine tra pubblico e privato. È la
memoria diretta di una storia bella. Negli anni ha gestito e se
possibile rieducato il dolore, i suoi segni, anche mediante l'impegno
nell'associazione Libera. Dopo un tempo lungo e faticoso ha varcato
la soglia di una riservatezza pudica, che accomuna migliaia di
parenti delle vittime innocenti delle mafie, per scrivere Sulle
ginocchia, Pio La Torre una storia (Melampo, 204 pagine, 15
euro). La narrazione si muove da uno scatto in bianco e in nero: il
padre tiene in braccio il figlio. La prima immagine insieme. Appaiono
felici e sorridenti all'inaugurazione di una sede del Pci. «Nella
nostra casa palermitana mi esortava ad arrampicarmi sulle sue gambe
per raccontare storie concepite durante il periodo di studio alle
Frattocchie. Di solito il protagonista, che aveva subito una
prevaricazione o era stato vittima di un'ingiustizia, trovava
conforto e solidarietà negli amici, che lo aiutavano a sconfiggere
l'arroganza del più forte», annota.
La vicenda di Pio suggerisce una
riflessione su almeno quattro temi di attualità stringente: la sorte
dei corpi intermedi (su tutti partito e sindacato), sui quali lui
confidò e ai quali affidò il riscatto dalla subalternità delle
proprie origini umili; l'elaborazione politica che si fa corpo e non
può prescindere dalla lotta; l'antimafia tradita e il principio di
diversità del partito, che nella sua interpretazione equivaleva pure
a guardarsi dentro con onestà. Il testo invita ad approfondire tre
architravi dell'attività di La Torre: il movimento contadino, la
sponda fra Roma e Palermo nella fase del Compromesso storico, il
retaggio legislativo antimafia.
Il libro pone interrogativi al Partito
Democratico, che rivendica l'appartenenza alla storia di La
Torre. «(...) Riguardando indietro, lungo i trentatré anni che
ci separano dall'omicidio, quella parte politica non ha fatto buon
uso del lascito. Il Pci nelle sue evoluzioni è andato indebolendo il
fattore genetico antimafia», ammonisce l'autore. Nella
ricorrenza del trentesimo anniversario della morte i democratici si
accontentarono dell'intitolazione della sala dibattiti all'ex Festa
dell'Unità nazionale. «(...) Il motivo sono i soldi. Quest'anno il
bilancio della festa è ridotto all'osso e non si farà niente di
particolare, tranne i dibattiti. Pensa che non si farà neanche
quanto era stato deciso di dedicare a Nilde Iotti, che a Reggio
Emilia era nata!», risposero con aria desolata a Franco La Torre,
che aveva stilato un programma di commemorazione e rilancio di un
patrimonio ideale.
Un foglio conserva un ritratto,
appassionato e ricco di sgrammaticature meravigliose, dal quale è
giusto iniziare. Lo scrisse e lesse l'allora ottantenne Rosolino
Cottone, qualcosa di più e diverso da una guardia del corpo di Li
Causi e poi di La Torre. Il suo nome di battaglia sull'Appennino
tosco-emiliano era Esempio, in quanto partigiano dalla condotta
esemplare. Guidò la trentunesima Brigata Garibaldi, in prima fila
all'ingresso a Parma, liberata. Poi fu un militante instancabile,
della vecchia scuola, pilastro del Pci palermitano.
«(...) Con Pio abbiamo cresciuto
insieme. Io gli andavo sempre dietro. Ero armato, certo, ma l'arma
non me la vedevano mai. Con La Torre eravamo due fratelli. Lui era
uguale a noi, era un combattente.
La cosa che più ricordo di lui quella mattina a Palermo, che lui non si meritava di morire. In che senso mi ricordo? Alle otto ero lì, ma che ne sapevamo che gli assassini erano già lì anche loro? Erano giù. In casa La Torre dice a Di Salvo: “Fai il caffè a Rosolino, che deve andarmi a fare delle commissioni”. Io ho preso il caffè e sono andato. Arrivo in Federazione verso le nove e mezzo e il portiere appena mi vede mi urla: “Cottone! Ammazzarono a La Torre e Di Salvo”. “Ma cosa dici?”, urlai io, ma corsi via come un dannato, la polizia cercò di bloccarmi, ma urlavo dalla rabbia e mi fecero passare e arrivai alla macchina tutta insanguinata.
Era un bravissimo compagno, duro e forte. Mi dice a me, eravamo a Comiso, la mattina del grande comizio. C'erano tanti contadini, tanti operai venuti a Comiso per il discorso di La Torre, erano più di cinquemila anche dai paesi attorno. Allora La Torre mi dice a me: “Comandante ma pecchè sono accussì poco?”, così mi parlava, e io gli faccio: “Scusa La Torre, sono più di cinquemila. Tu quanti ne vuoi?”, ci faccio a lui. Non si contentava mai, voleva sempre di più nella lotta popolare».
Pio La Torre, a proprio agio fra gli agrumeti, amava stropicciarsi le mani con le foglie di limone. Aveva un legame irrisolvibile con la terra e i suoi profumi. Finanche nelle espressioni e nella cadenza condensava la fatica della sua lavorazione. Non dimenticò mai le condizioni patite dai braccianti. Vincenzo Consolo lo definì l'orgoglio della Sicilia: «(...) Abbiamo citato le parole del principe di Salina per concludere ora che i veri nobili non sono, no, i Leoni e i Gattopardi, questi parassiti della storia, ma veri nobili sono stati e sono tutti quelli che hanno lottato e lottano in Sicilia, pagando spesso con la vita per il rispetto della democrazia, dei diritti e della dignità umana. I veri nobili sono i Pio La Torre, i Rosario Di Salvo, i Giovanni Falcone e i Paolo Borsellino».
Angela Melucci, figlia di pastori e
contadini lucani, cullò in grembo un seme fecondo e ribelle. Ad
Altarello di Baida non c'è mai stato nulla di agevole. La luce
elettrica illuminò la borgata solo nel 1935 e per l'acqua occorreva
risalire alla fonte. La famiglia abitava un casolare spoglio e viveva
di un'agricoltura di sussistenza. Si accorsero però presto che Pio,
classe 1927, era un'altra storia. Impose al padre il proprio diritto
allo studio, perché era certo che il destino di subalternità, con
la schiena curvata su un appezzamento di terra scadente, non fosse
ineluttabile. Cambiò il destino con la passione per lo studio e il
dono della curiosità. Nella nota autobiografica, a margine della
tesi La classe operaia e la questione siciliana, discussa il 25
ottobre 1954 a conclusione della scuola di partito, omaggiò così
Angela: «(...) Mia madre era analfabeta e si pose il problema
di istruire i figli facendo di ciò l'obiettivo primo della sua
esistenza, sacrificata a questo scopo».
La sveglia suonava alle 4 per pulire la
stalla, prima di recarsi a scuola. Ad Altarello era l'unico figlio di
contadini ad accedere all'istruzione pubblica. Ripagò con la
dedizione fino alla laurea in Scienze Politiche. Il fratello Filippo
nelle lettere dal fronte si premurava: «(...) Pio sta
studiando? Mamma, papà, mi raccomando non fatelo lavorare in
campagna. Lui deve studiare. Il suo futuro sono i libri».
Dopo l'avviamento, promosso con il
massimo dei voti, si iscrisse all'Istituto tecnico industriale
Vittorio Emanuele III. «Nei primi anni a scuola riuscirono a
inculcarmi gli ideali del fascismo. “Il fascismo darà al popolo la
vera giustizia sociale”, dicevano. A sedici anni mi trovai in uno
stato di disillusione». Ricercò un partito che “avesse per
programma di trasformare la società”, di creare “una vera
giustizia sociale”. Lì il fiore di campo germogliò la coscienza
politica. Franco Scaglione, professore di lettere e filosofia,
assistette alla scoperta, perché la sua arte dell'insegnamento era
piena di idee. Antifascista e marxista assecondò la sua sete di
conoscenza, aprendogli la biblioteca di casa. Lo sostenne nella
doppia maturità: quella tecnica e quella scientifica da privatista.
«(...) La Torre partiva dalle cose per
arrivare alle idee. Quindi l'esperienza di natura sociale è basilare
nella sua formazione. Non era il tipo competitivo, era un tipo
collaborativo. La sua intelligenza lo portava alla centralizzazione
del nucleo problematico. E il problema non è individuale ma di
classe. Partecipa alla realizzazione del piano educativo senza
rinunciare mai alla propria originalità. La Torre resta sempre un
logico, un ragazzo riflessivo fortemente impegnato nel suo rapporto
con il reale. Si preoccupa soprattutto di osservare se gli uomini
siano oppressi o in qualche modo alienati. È estraneo alla
neutralità, all'indifferenza. Per lui la liberazione era un valore
da realizzare e per il quale combattere», appuntò
Scaglione.
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