mercoledì 8 luglio 2015

Pio La Torre è stato una storia diversa


Pubblichiamo la prima parte di un lungo ritratto di Pio La Torre realizzato da Gabriele Santoro a partire dal libro Sulle ginocchia. Pio La Torre, una storia, scritto dal figlio Franco per Melampo.  

di Gabriele Santoro

«Due di maggio, bandiere al vento. Son morti due compagni, ne nascono altri cento», urlarono dal cuore del corteo. In fondo però sapevano anche loro che la morte violenta di Pio La Torre e Rosario Di Salvo non era una ferita suturabile. A Enrico Berlinguer, e soprattutto al Paese, il terrorismo politico mafioso, che ha dettato parte cospicua dell'agenda dei giorni nostri, aveva sottratto due uomini valorosi. «(...) Perché hanno ucciso La Torre? Perché hanno capito che egli non era uomo da limitarsi a discorsi, analisi, denunce di una situazione, ma era un uomo che faceva sul serio alla testa di un grande partito di lavoratori e popolo. Era capace di suscitare grandi movimenti, di stabilire ampie alleanze con forze e uomini sani, democratici di altre tendenze; di prendere iniziative che colpivano nel segno», scandì il segretario del Partito Comunista Italiano durante l'orazione funebre.

Il 2 maggio 1982 a Palermo, in piazza Politeama, centomila persone tennero la rabbia, le lacrime e i pugni fuori dalle tasche. La Banda di Altofonte fece risuonare le note dell'Inno dei lavoratori e dell'Internazionale. La medesima colonna sonora del matrimonio con rito civile che, il 29 ottobre del 1949 al Municipio di Palermo, celebrò l'unione con Giuseppina Zacco. Sandro Pertini con la voce rotta dell'emozione accarezzò il viso di quella donna coraggiosa, sempre e per sempre al fianco di un uomo che amava la libertà. In quel giorno di lutto e di lotta, senza vessilli della Democrazia cristiana, sfilò anche Sergio Mattarella, futuro Presidente della Repubblica. Una fotografia ritrae una signora dei vicoli stretti. Sotto a un balcone con le lenzuola stese, s'inginocchia con le mani giunte e piange senza consolazione. Con il caschetto da lavoro in testa c'erano i minatori di Pasquasia. Issarono sulle spalle il feretro e scortarono i carri funebri. Fu sincera la commozione popolare per quelle due vite spese al solo fine della giustizia sociale.

Nell'agguato del 30 aprile del 1982 Franco La Torre perse il padre, non ancora cinquantacinquenne. Sceglie con cura le parole, quando lo rievoca, avvertendo il peso di un'eredità preziosa, al confine tra pubblico e privato. È la memoria diretta di una storia bella. Negli anni ha gestito e se possibile rieducato il dolore, i suoi segni, anche mediante l'impegno nell'associazione Libera. Dopo un tempo lungo e faticoso ha varcato la soglia di una riservatezza pudica, che accomuna migliaia di parenti delle vittime innocenti delle mafie, per scrivere Sulle ginocchia, Pio La Torre una storia (Melampo, 204 pagine, 15 euro). La narrazione si muove da uno scatto in bianco e in nero: il padre tiene in braccio il figlio. La prima immagine insieme. Appaiono felici e sorridenti all'inaugurazione di una sede del Pci. «Nella nostra casa palermitana mi esortava ad arrampicarmi sulle sue gambe per raccontare storie concepite durante il periodo di studio alle Frattocchie. Di solito il protagonista, che aveva subito una prevaricazione o era stato vittima di un'ingiustizia, trovava conforto e solidarietà negli amici, che lo aiutavano a sconfiggere l'arroganza del più forte», annota.

La vicenda di Pio suggerisce una riflessione su almeno quattro temi di attualità stringente: la sorte dei corpi intermedi (su tutti partito e sindacato), sui quali lui confidò e ai quali affidò il riscatto dalla subalternità delle proprie origini umili; l'elaborazione politica che si fa corpo e non può prescindere dalla lotta; l'antimafia tradita e il principio di diversità del partito, che nella sua interpretazione equivaleva pure a guardarsi dentro con onestà. Il testo invita ad approfondire tre architravi dell'attività di La Torre: il movimento contadino, la sponda fra Roma e Palermo nella fase del Compromesso storico, il retaggio legislativo antimafia.

Il libro pone interrogativi al Partito Democratico, che rivendica l'appartenenza alla storia di La Torre. «(...) Riguardando indietro, lungo i trentatré anni che ci separano dall'omicidio, quella parte politica non ha fatto buon uso del lascito. Il Pci nelle sue evoluzioni è andato indebolendo il fattore genetico antimafia», ammonisce l'autore. Nella ricorrenza del trentesimo anniversario della morte i democratici si accontentarono dell'intitolazione della sala dibattiti all'ex Festa dell'Unità nazionale. «(...) Il motivo sono i soldi. Quest'anno il bilancio della festa è ridotto all'osso e non si farà niente di particolare, tranne i dibattiti. Pensa che non si farà neanche quanto era stato deciso di dedicare a Nilde Iotti, che a Reggio Emilia era nata!», risposero con aria desolata a Franco La Torre, che aveva stilato un programma di commemorazione e rilancio di un patrimonio ideale.

Un foglio conserva un ritratto, appassionato e ricco di sgrammaticature meravigliose, dal quale è giusto iniziare. Lo scrisse e lesse l'allora ottantenne Rosolino Cottone, qualcosa di più e diverso da una guardia del corpo di Li Causi e poi di La Torre. Il suo nome di battaglia sull'Appennino tosco-emiliano era Esempio, in quanto partigiano dalla condotta esemplare. Guidò la trentunesima Brigata Garibaldi, in prima fila all'ingresso a Parma, liberata. Poi fu un militante instancabile, della vecchia scuola, pilastro del Pci palermitano.

«(...) Con Pio abbiamo cresciuto insieme. Io gli andavo sempre dietro. Ero armato, certo, ma l'arma non me la vedevano mai. Con La Torre eravamo due fratelli. Lui era uguale a noi, era un combattente.

La cosa che più ricordo di lui quella mattina a Palermo, che lui non si meritava di morire. In che senso mi ricordo? Alle otto ero lì, ma che ne sapevamo che gli assassini erano già lì anche loro? Erano giù. In casa La Torre dice a Di Salvo: “Fai il caffè a Rosolino, che deve andarmi a fare delle commissioni”. Io ho preso il caffè e sono andato. Arrivo in Federazione verso le nove e mezzo e il portiere appena mi vede mi urla: “Cottone! Ammazzarono a La Torre e Di Salvo”. “Ma cosa dici?”, urlai io, ma corsi via come un dannato, la polizia cercò di bloccarmi, ma urlavo dalla rabbia e mi fecero passare e arrivai alla macchina tutta insanguinata.

Era un bravissimo compagno, duro e forte. Mi dice a me, eravamo a Comiso, la mattina del grande comizio. C'erano tanti contadini, tanti operai venuti a Comiso per il discorso di La Torre, erano più di cinquemila anche dai paesi attorno. Allora La Torre mi dice a me: “Comandante ma pecchè sono accussì poco?”, così mi parlava, e io gli faccio: “Scusa La Torre, sono più di cinquemila. Tu quanti ne vuoi?”, ci faccio a lui. Non si contentava mai, voleva sempre di più nella lotta popolare».

Pio La Torre, a proprio agio fra gli agrumeti, amava stropicciarsi le mani con le foglie di limone. Aveva un legame irrisolvibile con la terra e i suoi profumi. Finanche nelle espressioni e nella cadenza condensava la fatica della sua lavorazione. Non dimenticò mai le condizioni patite dai braccianti. Vincenzo Consolo lo definì l'orgoglio della Sicilia: «(...) Abbiamo citato le parole del principe di Salina per concludere ora che i veri nobili non sono, no, i Leoni e i Gattopardi, questi parassiti della storia, ma veri nobili sono stati e sono tutti quelli che hanno lottato e lottano in Sicilia, pagando spesso con la vita per il rispetto della democrazia, dei diritti e della dignità umana. I veri nobili sono i Pio La Torre, i Rosario Di Salvo, i Giovanni Falcone e i Paolo Borsellino».

Angela Melucci, figlia di pastori e contadini lucani, cullò in grembo un seme fecondo e ribelle. Ad Altarello di Baida non c'è mai stato nulla di agevole. La luce elettrica illuminò la borgata solo nel 1935 e per l'acqua occorreva risalire alla fonte. La famiglia abitava un casolare spoglio e viveva di un'agricoltura di sussistenza. Si accorsero però presto che Pio, classe 1927, era un'altra storia. Impose al padre il proprio diritto allo studio, perché era certo che il destino di subalternità, con la schiena curvata su un appezzamento di terra scadente, non fosse ineluttabile. Cambiò il destino con la passione per lo studio e il dono della curiosità. Nella nota autobiografica, a margine della tesi La classe operaia e la questione siciliana, discussa il 25 ottobre 1954 a conclusione della scuola di partito, omaggiò così Angela: «(...) Mia madre era analfabeta e si pose il problema di istruire i figli facendo di ciò l'obiettivo primo della sua esistenza, sacrificata a questo scopo».

La sveglia suonava alle 4 per pulire la stalla, prima di recarsi a scuola. Ad Altarello era l'unico figlio di contadini ad accedere all'istruzione pubblica. Ripagò con la dedizione fino alla laurea in Scienze Politiche. Il fratello Filippo nelle lettere dal fronte si premurava: «(...) Pio sta studiando? Mamma, papà, mi raccomando non fatelo lavorare in campagna. Lui deve studiare. Il suo futuro sono i libri».

Dopo l'avviamento, promosso con il massimo dei voti, si iscrisse all'Istituto tecnico industriale Vittorio Emanuele III. «Nei primi anni a scuola riuscirono a inculcarmi gli ideali del fascismo. “Il fascismo darà al popolo la vera giustizia sociale”, dicevano. A sedici anni mi trovai in uno stato di disillusione». Ricercò un partito che “avesse per programma di trasformare la società”, di creare “una vera giustizia sociale”. Lì il fiore di campo germogliò la coscienza politica. Franco Scaglione, professore di lettere e filosofia, assistette alla scoperta, perché la sua arte dell'insegnamento era piena di idee. Antifascista e marxista assecondò la sua sete di conoscenza, aprendogli la biblioteca di casa. Lo sostenne nella doppia maturità: quella tecnica e quella scientifica da privatista.

«(...) La Torre partiva dalle cose per arrivare alle idee. Quindi l'esperienza di natura sociale è basilare nella sua formazione. Non era il tipo competitivo, era un tipo collaborativo. La sua intelligenza lo portava alla centralizzazione del nucleo problematico. E il problema non è individuale ma di classe. Partecipa alla realizzazione del piano educativo senza rinunciare mai alla propria originalità. La Torre resta sempre un logico, un ragazzo riflessivo fortemente impegnato nel suo rapporto con il reale. Si preoccupa soprattutto di osservare se gli uomini siano oppressi o in qualche modo alienati. È estraneo alla neutralità, all'indifferenza. Per lui la liberazione era un valore da realizzare e per il quale combattere», appuntò Scaglione.

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