martedì 14 luglio 2015

«La mafia non può esistere, dove la giustizia per tutti è conquista, è coscienza collettiva»


di Gabriele Santoro

Gerardo Chiaromonte era colpito dall'ossessione antimafia di La Torre. Dal consiglio comunale all'Assemblea regionale fino al parlamento nazionale, dove venne eletto nel 1972, fu la prerogativa del suo agire. L'antimafia, non quella delle parole e delle targhe commemorative, era l'unico metodo per schiudere un orizzonte di progresso al paese: senza una sconfitta complessiva della cultura mafiosa il resto è sforzo vano. Comprese, studiando, le evoluzioni del fenomeno: la mafia agricola, quella della città cementificata, il narcotraffico. La mafia dell'accumulazione capitalistica, resa sempre più potente dai ricavi del traffico della droga, ormai indicava i propri interlocutori istituzionali.

La Torre ammirava molto le qualità investigative e l'umanità del capo di una vera squadra mobile, che a Palermo di questo si occupò. Stimava l'acutezza delle analisi e delle indagini di Giorgio Boris Giuliano, che giungevano fin dentro alle banche. Giuliano, appassionato di pallacanestro, chiese di essere trasferito a Palermo, indignato dall'efferatezza della strage di Ciaculli. Specializzatosi all'Accademia dell'Fbi, a Quantico, aveva esperienza internazionale. Leggeva molto, anch'egli con il dono della curiosità. Mappò il territorio con i pedinamenti estenuanti dei suoi uomini sulla strada senza ausili tecnologici. Senza computer creò un vasto archivio, formidabile, per schedare le famiglie mafiose, risalire ad alleanze e ostilità. Giuliano si mise in testa di risolvere i casi Francese e De Mauro. Lo freddarono il 21 luglio 1979, dieci giorni dopo Giorgio Ambrosoli. Se terrorismo e mafia si scambiano le tecniche è una testimonianza lucida, che La Torre articolò sulle pagine di Rinascita il 16 novembre 1979.

«(...) Emerge in maniera impressionante una estensione e un salto di qualità sia nel terrorismo politico, sia nell'attività della criminalità organizzata. Non commetteremo l'errore di appiattire l'analisi dei vari fenomeni riconducendoli ad uno schema unico. La criminalità organizzata sta compiendo un salto di qualità molto preoccupante perché ormai comincia chiaramente a mutuare sistemi, metodi, e anche taluni obiettivi del terrorismo politico. Accade così che le modalità di un omicidio mafioso seguano quelle caratteristiche del terrorismo politico e viceversa».

Giuliano con le proprie intuizioni seppe configurare lo scenario delle cointeressenze che superavano i confini isolani. Le strade conducono a Sindona, oggetto di numerose denunce di La Torre, alla P2 e alla mafia siculo americana. La Torre vedeva nella presenza dell'anticomunista Sindona in Sicilia nell'estate del 1979, il momento di raccordo tra la mafia siciliana, il mondo economico-finanziario e la mafia americana: «È provato che Sindona si trovava a Palermo nei giorni in cui veniva organizzato e attuato l'assassinio di Cesare Terranova e pochi mesi dopo si verificava l'assassinio di Piersanti Mattarella. I gangster siculo americani, che hanno accompagnato Sindona in Sicilia, hanno affermato che essi dovevano compiere una missione politica di stampo anticomunista».

L'estate del '69 è segnata dall'ingresso di La Torre a Botteghe Oscure, chiamato a Roma alla Commissione meridionale come vice di Amendola. Il partito fornì una casa in Via Panisperna. A Pio piaceva la Capitale, seppure non fosse uomo da salotti o da cenacoli per intellettuali.

«(...) Qualcuno della direzione del partito un giorno mi disse: “È un uomo rozzo”. E io mi incazzai. E dovendo discutere dell'ammissione in sezione di uno che era operaio dissi: “Ammettiamolo, benché operaio”. Di Pio non ho capito la sua intelligenza. Io non l'avevo capito quell'uomo. L'ho stimato, apprezzato, ma non l'avevo capito. Un'occasione persa di cui pentirsi», dice Andrea Camilleri in un passo illuminante della prefazione del libro Chi ha ucciso Pio La Torre?

Alla sua morte nell'unico conto corrente erano depositate poche decine di migliaia di lire. Al costume pubblico corrispondeva quello privato. Così bloccò la possibile assunzione del figlio al Formez, Centro studi della Cassa del Mezzogiorno. Enrico Berlinguer, che nell'isola non aveva avamposti elettorali, lo volle nella segreteria con Napolitano, Chiaromonte, Minucci e Natta, apprezzandone la lungimiranza e la praticità. La Torre non era uomo da sconti. Lo estromisero dalla Direzione. Si era opposto al prestito miliardario del Banco Ambrosiano, che avrebbe dovuto salvare Paese Sera dal crack.

Pressò il partito quando sottostimava e declassava a fatto di periferia l'intelligenza della violenza mafiosa. Appartenne alla destra del partito, vicino a Giorgio Napolitano, ma non fu uomo condizionabile dalle correnti. Lo schema destra-sinistra nel suo caso non funziona. «Quando doveva gridare, gridava anche col capo, anche perché non aveva bisogno di adulare per potersi fare avanti, perché è andato avanti con la sua onestà, il suo coraggio, la sua asprezza anche», ricorda Girolamo Scaturro nel libro di interviste curato da Giovanni Burgio.

E si distinse dalla concezione paternalistica del fenomeno mafioso come frutto avvelenato della miseria. La Torre non si stancò mai di classificarlo quale un fenomeno di classi dirigenti, delle indicibili alleanze transnazionali col mondo della finanza e della politica: «La compenetrazione è avvenuta storicamente come risultato di un incontro, che è stato ricercato e voluto da tutte e due le parti (mafia e potere politico). I membri della mafia rappresentano una sezione niente affatto marginale delle classi dominanti, i cui interessi possono anche entrare in contraddizione, nello svolgimento dei fatti con aspetti dell'attività della mafia stessa». L'antimafia doveva dunque essere una questione economica, politica, sociale e culturale; un aspetto della più generale battaglia di risanamento democratico della società italiana.

Nel 1979 il Pci organizzò la prima conferenza sulla mafia. Un convegno importante al quale prese parte Rocco Chinnici. Il quadro legislativo antimafia palesava la propria inadeguatezza. La legge 31/5/1965 n. 565, che prevedeva il soggiorno obbligato dei criminali fuori dalle rispettive aree d'influenza, si rivelò controproducente, allargando il contagio mafioso. La legge 22/5/1975 n. 152, che all'articolo 22 ingiungeva la sospensione provvisoria dalla amministrazione di beni illecitamente accumulati, rimase inapplicata per la difficoltà di accertare le situazioni patrimoniali.

Alla fine di quell'anno tragico La Torre confidò all'amico giornalista Alfonso Madeo di avere in mente una legge, che rendesse reato la sola appartenenza a un'associazione a delinquere di stampo mafioso, consentisse indagini patrimoniali e l'obbligatoria confisca dei beni riconducibili agli illeciti perpetrati. Dagli atti di un convegno internazionale, svoltosi a Messina nell'ottobre 1981, le parole dello stesso Chinnici danno il senso del grave ritardo, dell'insufficienza dell'articolo 416:

«(...) Non ignoriamo le difficoltà che insorgono ogni qualvolta si tenta di dar vita al delitto di associazione di tipo mafioso, come nuova o diversa ipotesi delittuosa rispetto all'associazione per delinquere prevista dal codice; poiché, però, la mafia esiste come realtà criminosa e criminogena, non può il legislatore non prenderne atto e creare una nuova figura di reato. La mafia è una realtà assai complessa, una associazione sempre e comunque più pericolosa dell'associazione per delinquere prevista dall'art. 416. Associazione strapotente, destabilizzante, con campo di azione in tutto il territorio della Nazione con collegamenti all'estero, non vediamo come la stessa possa ancora oggi essere considerata alla stregua di una qualsiasi e comune associazione per delinquere. È difficile rendersi conto del perché di tale incongruenza.

L'insuccesso nella lotta contro le associazioni mafiose va ricercato nella inadeguatezza dello strumento legislativo. La mafia ha mutuato metodi propri del terrorismo di diversa matrice. Si deve stabilire che la mafia non solo è associazione per delinquere, ma associazione certamente più pericolosa e diversa da quella prevista dall'art. 416 CP e che pertanto, essendo di per sé per la sua sola esistenza un pericolo per la collettività, deve essere colpita con apposita norma sanzionatoria, anche indipendentemente dalla prova diretta che gli associati mafiosi abbiano specificatamente programmato crimini. La proposta che intendiamo formulare è di introdurre nella nostra legislazione penale la figura autonoma del reato di associazione mafiosa».

In quell'occasione Chinnici fece intravedere l'istituzione dell'Agenzia nazionale per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, che oggi ancora arranca. All'epoca immaginò che i beni confiscati non potessero essere venduti o affidati a privati professionisti, in qualche maniera influenzabili, ma gestiti per esempio dall'Avvocatura dello Stato.

Nel frattempo, il 31 marzo 1980, Pio La Torre aveva già depositato alla Camera insieme ad altri firmatari la proposta di legge numero 1581, Norme di prevenzione e repressione del fenomeno mafioso e costituzione di una commissione parlamentare permanente di vigilanza e controllo.
Quella che diverrà il primo serio strumento di lotta contro la mafia. Nell'esperienza di La Torre la separazione dei poteri statuali è stata sempre ben evidente, però i poteri distinti dovevano parlarsi. In nome di ciò costruì un dialogo produttivo con la magistratura più illuminata.

Per la stesura tecnica consultò due giovani magistrati della Procura di Palermo, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che si resero disponibili a fornire le proprie competenze al fine di redigere un progetto di legge efficace. Il legame nell'interesse generale con Chinnici fu stretto. Tante idee in comune (pool antimafia, banca dati, etc), urgenze, lo sgomento proprio dell'onestà e la solitudine. A Palermo La Torre lavorò con lui per migliorare la norma sul sequestro dei beni ai mafiosi e su quello che diverrà nel codice penale, sull'onda emotiva dell'omicidio di Dalla Chiesa, la fattispecie di reato riconosciuta e descritta dall'articolo 416 bis:

«(...) L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri».


Già la prima fase dell'impegno parlamentare di La Torre si era caratterizzata dalla vivace partecipazione ai lavori della Commissione Antimafia. Istituita nel 1962, e rimasta in carica per quattordici anni, partorì un rapporto finale deludente. Di quella inchiesta sopravvive una mole di documenti significativi e la Relazione di minoranza che, come evidenziato in precedenza, ripercorre i legami tra mafia e politica, in particolare nella Dc, e porta anche la firma del deputato Cesare Terranova.

«La mafia non può esistere dove la giustizia per tutti è conquista, è costume, è coscienza collettiva», sosteneva il magistrato che trascorse due legislature in Parlamento. Nella sua ottica per dare un apporto concreto alla lotta contro la mafia, era indispensabile ripristinare la fiducia nelle istituzioni, cominciando dall'allontanamento dai posti di potere di coloro che siano stati in qualche misura compromessi o invischiati con la mafia.

Uomo cordiale e colto, ottimo giocatore di bridge, che comunista non era. Alle elezioni del 7 maggio 1971, su invito di Emanuele Macaluso, si candidò e venne eletto come indipendente di sinistra nelle liste Pci. Un borghese intellettuale, in rivolta contro la concezione clientelare e mafiosesca del potere, alla quale non si rassegnava. In un'intervista all'Ora, sette mesi dopo l'elezione, esternò il disincanto romano: «(...) Il primo contatto con il Parlamento fu per me molto deludente. Avevo la sgradevole sensazione dell'inutilità. Un'impressione iniziale deludente che si prolunga sulla Commissione. Mi aspettavo un ritmo di lavoro piuttosto serrato, sollecito. Penso che questa commissione funziona da ben nove anni, ma non può dirsi che abbia se non in piccola parte corrisposto all'attesa dei cittadini. Si procede in modo dispersivo».

Venticinquenne, nell'aprile del 1946, era entrato in magistratura appena ritornato dalla guerra e dalla prigionia. Assegnato dal 1958 al Tribunale di Palermo presso l'ufficio dell'istruzione penale. Dal 1963 con lui un autista speciale, il maresciallo cosentino Lenin Mancuso: «(...) L'onestà in uno scambio comunicativo lo unì al giudice Terranova, suo grande amico e modello di operato sociale sempre per fini di giustizia. Per nostro padre il Giudice divenne presto un mito e lo colmò di un'ammirazione non comune», nel ricordo della famiglia Mancuso. Nel 1971 il trasferimento alla Procura della Repubblica a Marsala. Istruì con lavoro metodico i primi processi di mafia, dai “corleonesi” alla strage di Via Lazio, ricostruendone la struttura organica. Fece processare e condannare all'ergastolo Luciano Liggio, latitante fino al 1974, per associazione a delinquere e per l'assassinio di Michele Navarra. «Paura? No. Nella peggiore delle ipotesi mi possono ammazzare. Sì, lo so che Liggio ce l'ha con me. È una vecchia storia: risale al tempo in cui lo feci arrestare. Lui mi ritiene responsabile esclusivo della sua fine. E in effetti è così», dichiarò a Il Giornale di Sicilia.

Rifuggiva l'etichetta di eroe. Renato Guttuso riecheggiò l'amore del giudice per la vita, le sue passioni per Tamerlano e Gengis Khan, lo spirito eroico che metteva nelle azioni più piccole. In un'intervista a Diario, pochi giorni prima di essere ammazzato, Terranova preconizzò: «(...) La più grossa connotazione che io darei alla mafia oggi è quella degli appalti. L'appalto delle grandi opere pubbliche e quanto c'è dietro. L'argomento più interessante destinato a svilupparsi negli anni futuri». Lo uccisero il 25 settembre 1979, una volta lasciato il Parlamento, prima che potesse indossare ancora la toga all'Ufficio istruzione di Palermo. Si delineò come un vero e proprio omicidio preventivo, affinché non riversasse sulle indagini l'imponente documentazione e conoscenza sull'intreccio di collusioni maturata durante l'attività in Commissione.

«È certo comunque che si presenta ai nostri occhi un fenomeno nuovo che ha il carattere di una azione terroristica vera e propria e che porta lo stesso marchio in tutti e due i casi (Terranova e Giuliano). C'è poi un altro collegamento fra i due delitti, ed è rappresentato dal sempre saldo nesso fra mafia e potere politico. Nel caso di Boris Giuliano, il vicequestore stava indagando sulle incredibili fortune finanziarie di certi personaggi politici democristiani e sugli intrecci fra costoro e l'affare Sindona. (…) Qui intendo sottolineare che gli assassinii di Reina, Giuliano e Terranova hanno tutti e tre una matrice politica. Bisogna quindi cercare di individuare il gruppo politico mafioso che sta portando avanti quello che si configura come un vero e proprio disegno terroristico», La Torre a Il Mondo (26 ottobre 1979)

Berlinguer lo soprannominò un “siciliano all'estero”. La Torre da Roma non smise di seguire le vicende del partito a Palermo. Dopo l'impetuosa crescita, sancita dalla tornata elettorale del 1976 (dall'11% al 21% nell'isola), in Sicilia come nella Capitale si percepì la stanchezza dello slancio che aveva consentito al partito di ottenere il massimo storico. Dal '79, quando alle politiche nel capoluogo il Pci ottenne il 16,86% dei voti mentre la Dc toccò il 47,91%, all'81 il Pci registrò numerose flessioni.

Pio sentì l'urgenza di tornare sul campo nella sua terra all'apice della violenza terroristica mafiosa. «Ero anche consapevole del fatto che mio padre avesse valutato il rischio e lo avesse ritenuto accettabile, in nome dell'obiettivo che voleva raggiungere. Non considerava il suo un atto di eroismo, ma una scelta politica, rispondente alla sua natura, perché questo era il suo modo di dare un senso alla sua vita», scrive Franco. Pio volle solo la scorta politica del partito e si ritrovò Rosario Di Salvo, amico e militante coraggioso, che condivise il martirio.

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