martedì 3 novembre 2015

L'America nelle canzoni di Springsteen

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di Gabriele Santoro

«Guidavo da solo sull’autostrada fra Ferentino e Frosinone, non esattamente la Route 66; avevo i finestrini aperti, Thunder Road sul riproduttore di cd, mi pareva come se Springsteen e la E Street Band stessero suonando espressamente per me, e mi sono dovuto fermare alla prima piazzola per buttare giù questi appunti», ricorda Alessandro Portelli. Badlands (Donzelli, 218 pagine, 25 euro) è uno studio pregevole, denso, che rivela la passione del professore di letteratura angloamericana, e molto più, per gli universi di riferimento e di senso springsteeniani. Portelli conosce la storia, ma soprattutto sa raccontare le storie. È un viaggiatore instancabile nell’America che più ama, quella fondata sul lavoro.


Questo libro nasce a Princeton, dove la scorsa primavera l’autore ha tenuto un corso su Springsteen. Non l’ha mai incontrato personalmente, però condivide, quando possibile, l’energia, la cerimonia e lo spazio comune dei suoi concerti: «Ma come faccio ad andarmene se questo non smette? Lui ritorna ancora e ci regala (Roma, 2013) un Thunder Road acustico, che ti fa venire voglia di ricominciare. Un paio di chilometri a piedi fino alla macchina e poi un’ora nell’ingolfato traffico notturno dei reduci. A casa mia moglie mi fa: in queste condizioni, mai più. Io invece sto bene. Se avessi un altro biglietto, sarei pronto a rifare tutto da capo», dice.

Badlands è un testo vitale, appassionante e agile per la sua capacità divulgativa di creare ponti. Portelli ben ricostruisce le influenze di Bob Dylan, Woody Guthrie e Pete Seeger sul rocker del New Jersey. Mette al centro della sua analisi il lavoro e il sogno Americano, lacerato ma tuttora evocativo, dirimenti nell’opera di Springsteen, cantore delle speranze, delle sconfitte e della realtà tutt’altro che monolitica d’oltreoceano.

Come sottolinea Portelli, il “Boss” non è un poeta, non è un profeta politico, ma si prende la responsabilità di rammentare le promesse non mantenute, il diritto alla ricerca della felicità. Dà una dimensione narrativa, attingendo alla migliore tradizione della musica popolare, al proprio rock adulto e lo ancora tanto alle sue origini, quanto al tempo che vive. Le note, le strofe dolorose e i ritornelli entusiasmanti non svaniscono come un effimero oggetto di consumo, perché hanno lo spessore di una memoria culturale, affrontando temi fondativi della stessa cultura nordamericana.

Professore, vorrei cominciare da una curiosità. Perché ha ripescato dall’album The Ghost of Tom Joad una canzone come The Line, trattandola così approfonditamente?
«Per questo libro ho riascoltato l’intero canone di Springsteen. Da ogni ascolto possono affiorare nuove idee da contestualizzare. Non avevo mai pensato a questa canzone. In quel disco inizia a esplorare il sogno americano degli emigranti. È il sogno della terra americana dell’abbondanza. Come per le vite dei proletari americani, che canta, si spalanca l’abisso tra mito e realtà. Nello stesso album in Sinaloa Cowboys assume il punto di vista dei giovanissimi migranti messicani dell’industria della droga. In Balboa Park raffigura la violenza fisica sul corpo di chi cerca una vita migliore oltre il confine. Il titolo The Line è in realtà una linea di frontiera sfumata, ambigua. La necessità del migrante non si può respingere: We send ’em home and they come right back again/Carl hunger is a powerful thing. Il confine è il luogo dove i mondi, che tendiamo a separare, si toccano, mescolano e sovrappongono. Poi è stato importante il lavoro di analisi dei video, che in precedenza facevo poco».

Che cosa aggiungono i video all’ascolto, all’analisi dei testi e all’amplissima bibliografia?
«Illustrano la rilevanza della dimensione rituale nei concerti, dove nulla è lasciato al caso. Quello che fanno Springsteen e la E Street Band sul palco è lavoro, nel senso più pieno del termine. Sudore e fatica costruiscono un rapporto, una visione collettiva. In numerosi video l’occhio non può non accorgersi del sudore, che progressivamente si allarga sulle spalle e le ascelle di Springsteen. Questo è il mio mestiere, dice. Per esempio la lettura di We are alive, che propongo, si è rafforzata, guardando un’esecuzione live a Londra nel 2012. Il palco è buio, Springsteen è da solo con la chitarra. Mentre canta l’ultimo verso della strofa, col suo annuncio di unità e lotta (Our spirits rise/to carry the fire and light the spark/To stand shoulder to shoulder and heart to heart), di colpo si accendono le luci e la banda entra marciando a pieno volume. Avevo intuito poi una citazione (Il corpo marcisce nella tomba, ma lo spirito risorge) da una grande canzone della Guerra Civile: “John Brown’s body is a-mouldering in his grave, but his soul is marching on”. Il video mi ha confortato. Jake Clemons, il nipote di Clarence, ha confermato la mia intuizione vibrando forte un tamburo militare della Guerra Civile».

Nell’introduzione cita un altro pezzo, Sherry Darling, che propose agli ascoltatori italiani nel corso della trasmissione anni Ottanta, di Radio 3,  Ascolta Mister President sulla canzone politica dei Settanta. Che cosa la colpì?
«Sì, in quell’occasione la preferii a The River. È una canzoncina allegra, rock and roll adolescenziale. A prima vista sembra quanto di più leggero si possa immaginare. La ragazza, la macchina, il sole, la spiaggia. Però sul sedile posteriore della macchina c’è la madre della ragazza, che deve essere accompagnata all’ufficio di collocamento: Your Mama’s yappin’ in the back seat/Every Monday morning I gotta drive her down to the unemployment agency. Generalmente nel rock non si parla di persone anziane e soprattutto non si parla di lavoro, di disoccupazione, della difficoltà di arrivare alla fine del mese. Dunque diciamo che Springsteen dimostra la capacità di inserire dentro a un momento di leggerezza la consapevolezza del mondo proletario da cui proviene questa musica. Il rock anche nella sua versione più leggera ritrova il contesto proletario e popolare in cui era nato. Non solo proletario. Nella canzone si snoda anche l’intreccio etnico e di genere. La signora torna poi al ghetto con la metro: She can take a subway back to the ghetto tonight. Non solo è anziana, in cerca di lavoro, ma vive nel ghetto. Probabilmente pensando al contesto di altre canzoni di Springsteen è portoricana».

Negli anni come è riuscito Springsteen a mantenere una certa autenticità nella narrazione del lavoro, dall’universo fabbrica alle macerie materiali e spirituali della deindustrializzazione?
«Il padre era un veterano di guerra, poi arrangiatosi con mille impieghi per sbarcare il lunario. È nato in quel mondo, che l’avrebbe consumato senza l’emancipazione e la liberazione del rock and roll. Per una lunga fase, almeno fino a Born in the Usa, descrive il mondo che conosce per esperienza. Noi concepiamo la classe operaia automaticamente come un elemento di contrapposizione a un’altra classe. Negli States la parola classe non si usa quasi mai. Springsteen non usa mai la parola classe, perché la cultura operaia negli Stati Uniti non è una cultura di contrapposizione. Ma un universo culturale a sé, un’identità autosufficiente, non necessariamente con una collocazione sociale in termini di conflitto. Più avanti, soprattutto dopo il trasferimento in California e le trasformazioni nella sua vita personale, il rapporto con il mondo del lavoro è in primo luogo non tanto un rapporto di partecipazione, quanto di solidarietà ed empatia. Al fatto che la sua vita è ormai lontana da quella realtà supplisce con le letture, con le fonti, con i giornali, con gli incontri con organizzazioni operaie e quelle dei reduci delle guerre, girando l’America. In The Ghost of Tom Joad, e anche in molti brani di Wrecking Ball, il tema del lavoro riconquista la scena. Le sue canzoni hanno sia l’età sia la collocazione sociale del momento storico in cui le scrive».

Quale idea di mobilità sociale declina Springsteen?
«L’idea di mobilità verso l’alto, l’idea che chiunque può con spirito costruttivo risalire la scala e raggiungere una posizione sociale ed economica più agiata è il cuore del sogno americano. Lui trent’anni fa già certificò il blocco di questa mobilità ascensionale, che pure criticò per l’esasperazione individualistica. In The River canta: “Sono nato giù nella valle dove, caro signore, fin da giovane ti insegnano a rifare quello che ha fatto tuo padre”. L’incubo che si aggira in tutta l’opera di Springsteen è quello di ripetere la vita dei propri genitori: “Mio padre si suda lo stesso lavoro mattina dopo mattina/Io rientro a casa percorrendo le stesse sporche strade dove sono nato”, recita Used cars. Con la nuova macchina usata non si va lontano. The River è una denuncia del fatto che la promessa di mobilità sociale è un sogno che è una menzogna e dunque una maledizione. Lui è l’eccezione, l’uno sul milione. Gli altri all’autolavaggio sconteranno per sempre la pena. Il tema è la monotonia senza scopi della giornata lavorativa, la mancanza di senso. I lavoratori sotto qualificati, protagonisti delle sue canzoni, non generano alcun prodotto. Non possono neanche rivendicare l’orgoglio della fatica. Come dichiara in un’intervista: “Il mio compito è di misurare la distanza fra le promesse e la realtà”. In the day we sweat it out on the streets of a runaway American dream: l’attesa dello sfuggente Sogno Americano. La ricerca del miraggio, la fuga, le automobili, la notte. Per Springsteen, rompendo con la tradizione letteraria e cinematografica americana, si fugge in due per la salvezza da una società feroce, per evadere alla città degli sconfitti di Thunder road, che è la sintesi di tutti i temi di liberazione, speranza, amore legati all’automobile.

So you’re scared and you’re thinking/That maybe we ain’t that young anymore/Show a little faith there’s magic in the night
Well the night’s busting open/These two lanes will take us anywhere/We got one last chance to make it real
We’re riding out tonight to case the promised land

La mobilità dunque diventa orizzontale. Se non si può andare in alto, almeno tiriamoci fuori da questo posto quando ancora siamo giovani: Oh-oh, Baby this town rips the bones from your back/It’s a death trap, it’s a suicide rap/We gotta get out while we’re young/`Cause tramps like us, baby we were born to run. Poi lo rivendichiamo, perché c’è stato promesso e quindi abbiamo diritto a sognarlo, abbiamo diritto a volerlo. No surrender, niente resa: “Voglio dormire sotto cieli di pace nel mio letto di amore, con il vasto paese spalancato davanti agli occhi e i sogni romantici nella mente”».

In che modo Springsteen ha sviluppato nella propria narrazione la dimensione del sogno e quella della speranza?
«Dream Baby dream è il titolo di una canzone dell’ultimo album. L’idea è di continuare a sognare, soprattutto aprendo il nostro cuore: Come on, we gotta keep on dreaming/Come open up your heart. Il sogno americano di Springsteen è cominciato come un sogno di evasione liberatoria, dove la coppia era matrice di connessioni, che si sono mano a mano sviluppate in un sogno di comunità. Una hometown ideale dove nessuno fa da solo (Long Walk Home). È una moderata utopia di provincia, che non è un sogno da tramandare, ma neanche da buttare via. Insistendo, forse, c’è un altro ballo. Per sogno qui intendiamo tre cose: l’oggetto sognato, il lavoro del sognare, il soggetto che sogna. Springsteen mette ben in chiaro che l’oggetto sognato è illusorio, in parte irraggiungibile, in parte indesiderabile. Rimane però la soggettività del sognante, che non viene messa in discussione ed è quella a tenerci vivi. Occorre tenersi aperti a un’idea, a una possibilità di sogno, di cambiamento, dunque. Stay hungry, stay alive».

«Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato», è l’epilogo de Il grande Gatsby. È molto interessante il parallelo letterario che lei argomenta con l’opera di Francis Scott Fitzgerald.
«Nel pieno degli anni Venti, nel cuore del boom e della mitologia dell’arricchimento facile, Fitzgerald ci suggerisce che l’unico modo in cui un ragazzo di paese, che è nato povero, possa pensare di arricchirsi è in qualche modo il crimine. E questo è un dato di per sé abbastanza sorprendente in quell’epoca. “Gatsby credeva nella luce verde, il futuro orgiastico che anno per anno indietreggia davanti a noi. C’è sfuggito allora, ma non importa – domani andremo più in fretta (Born to run?), allungheremo di più le braccia…e una bella mattina…”. Ha individuato in Daisy l’oggetto amato fantomatico da inseguire, ma se il sogno fallisce, non si rinuncia a sognare. Il piccolo gangster Jay Gatsby è grande, perché non perde di vista i sogni. Continua a guardare la luce verde sul molo di Daisy. Continua a desiderare, a illudersi magari. La capacità di coltivare comunque una visione lo rende grande».


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