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Il dieci novembre 1995 Ken Saro-Wiwa, scrittore, intellettuale e attivista politico nigeriano, un uomo di pace, venne impiccato nel carcere di Port Harcourt assieme ad altri 8 compagni del Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni, da lui fondato. Lo ricordiamo con un ritratto di Gabriele Santoro che parte da In cerca di Transwonderland, libro di Noo Saro-Wiwa, figlia di Ken, pubblicato in Italia da 66thand2nd.
Uno scrittore è la sua causa. A cinquant’anni può ancora sognare e avere visioni, ma può anche appassire nella verità. Per questo oggi torno a dedicarmi a quella che è sempre stata la mia preoccupazione principale di uomo e scrittore: lo sviluppo di una Nigeria stabile e moderna, capace di abbracciare valori avanzati, dove nessun gruppo etnico e nessun individuo sia oppresso; una nazione democratica dove i diritti delle minoranze siano protetti, la scolarizzazione sia un diritto, la libertà di parola e associazione sia garantita e dove il merito e la competenza siano considerati prioritari.
Un mese e un giorno, Ken Saro-Wiwa
Si può cominciare a scrivere una storia sbagliata da una fotografia felice, da un sorriso che arriva sulla casella di posta e sovverte l’ordine delle priorità, come un atto di resistenza. «Hai bisogno del tempo, della sua cura. La rabbia? È utile solo se si è disposti a rischiare la propria vita per cambiare il sistema. Avevo diciannove anni, quando uccisero mio padre, scomodo per le sue campagne contro la corruzione del governo e il degrado ambientale di una fertile regione agricola provocato da Shell. Del mondo non avevo visto molto. Ho sempre amato viaggiare. Chiedevo spesso a mio padre di andare in vacanza insieme: “Viaggiamo qui, viaggiamo lì”, gli dicevo. “Quando sarai grande”, mi rispondeva. Ed era una frustrazione. Allora ammiravo le mappe, i libri per l’infanzia che ritraevano la varietà delle specie animali. La notte uscivo, oltre la staccionata, per mettermi sotto la luce, continuando così a guardare la mappa del mondo. Sì, fin da piccola volevo viaggiare», racconta Noo Saro-Wiwa.
Dopo un lungo, necessario, volontario esilio è tornata a casa. Si aggira nel piccolo studio di Ken Saro-Wiwa, assassinato a causa dei suoi molteplici talenti, e annota i ricordi, le sensazioni: «Lì dove batteva a macchina i suoi testi e si infuriava al telefono per le ingiustizie subite dagli Ogoni, una rabbia intervallata da fragorose risate di pancia. Negli scaffali dei libri ho trovato un terreno comune con lui e per la prima volta ho immaginato con rammarico il tipo di rapporto che avremmo potuto avere da adulti. Era bravo a raccontare le favole e a intavolare una conversazione, ma non se la cavava bene con gli anni intermedi dell’adolescenza, quando non sei più così malleabile e ti allontani dal cammino di grandezza che aveva tracciato per te. A vent’anni notai che i nostri interessi convergevano soprattutto riguardo ai viaggi. Una volta frugai fra i suoi vecchi passaporti e restai sorpresa nel vedere timbri di paesi come il Suriname. Non lo saprò mai».
L’uomo deve vivere. Mi piace ‘sta storia. L’uomo deve vivere, ripete nel fosso il giovane soldato Mene, protagonista di Sozaboy (Baldini & Castoldi, 275 pagine, 15 euro), capolavoro della letteratura postcoloniale che spicca fra le opere di Ken Saro-Wiwa. In trincea non sai più neanche quale sia il nemico. Puoi solo chiederti: allora per che cosa sto combattendo? Sai che la guerra iniziata non può finire e tu perderai, il tuo villaggio perderà la propria anima.
There’s something happening somewhere. Una strofa che racchiude l’angoscia di una distanza incolmabile, di un’ingiustizia senza rimedio. I vent’anni trascorsi dal 10 novembre 1995 non leniscono la solitudine della forca nel cortile del carcere di Port Harcourt, che Saro-Wiwa condivise con altri otto compagni di lotta contro quello che non esitava a catalogare come un genocidio culturale, ambientale, sociale provocato dall’irresponsabile sfruttamento della risorsa petrolio all’interno del Delta del Niger. Con lui sul patibolo furono condotti gli attivisti Ogoni Saturday Dobee, Nordu Eawo, Daniel Gbooko, Paul Levera, Felix Nuate, Baribor Bera, Barinem Kiobel e John Kpuine.
Nello splendido reportage letterario In cerca di Transwonderland – Il mio viaggio in Nigeria (66thand2nd, 328 pagine, 18 euro) Noo mantiene sempre elevato il tono della narrazione, la densità delle pagine, non concedendo terreno al risentimento. Le descrizioni sono vivide, la scrittura è composta. In poche righe riesce a raffigurare che cos’è oggi la natia Port Harcourt, la distopia di un ambiente alle prese con un’urbanizzazione rapace, legata al giogo petrolifero. Il denaro, il potere nella peggiore accezione familistica, l’intricata rete della corruzione che sconvolge qualunque norma sociale: «Dopo l’assassinio di mio padre ho capito che la corruzione è un mostro in grado di sconfiggere anche i più agguerriti difensori della morale», afferma.
Noo sogna di trovarsi in un posto in cui il divario fra aspettative e realtà non sia così alienante. Si sente piombare nella distanza fra il patrimonio di tradizioni, così ricco e controverso, e una società moderna. Questo abisso è in fondo il cuore della sua ricerca, delle domande che non hanno una risposta semplice. Sembra di rileggere la ragazza di una splendida raccolta di racconti di Ken Saro-Wiwa. In Casa dolce casa, il primo racconto di Foresta di fiori (Edizioni Socrates, 170 pagine, 10 euro), una studentessa prova sentimenti laceranti, sospesa fra tradizione e modernità urbana, nel ritornare al proprio villaggio di Dukana per trascorrere le vacanze con la madre:
«(…) Attraversammo piccoli villaggi sonnolenti ritagliati nella foresta, che abbracciavano amorevolmente la terra e il fogliame. Vedevamo spesso in lontananza una fiammata di gas, che ci rammentava che questo era un paese ricco di petrolio e che proprio dalle viscere di questa terra proveniva il liquido tanto ambito, che alimentava gli ingranaggi della civiltà moderna. Provai allora quello straziante dolore che la conoscenza riserva a coloro che riescono a distinguere l’abisso tra ciò che è e ciò che potrebbe essere. E il mio pensiero andò agli uomini e alle donne di Dukana, che recitavano la propria vita sullo sfondo di quelle grandi forze che non avrebbero mai capito».
Talvolta anche gli oggetti hanno un’anima. Nella seconda foto che mi manda Noo, un ritratto di famiglia domenicale, Ken è illuminato da un sorriso con la pipa inseparabile. Sono serviti anni per recuperare e identificare la materia che di lui restava. A cercare dentro la fossa comune una qualche forma di umanità. Il gesto della ricomposizione scheletrica, a dieci anni dall’esecuzione della condanna, commuove. Anche la pipa è tornata a posto: «Zio Owens, medico, ci aiutò a ricomporre ogni femore, perone, metacarpo e costola, calmando le nostre menti con l’operosità. Invano cercai il viso nel teschio. Mancavano i due incisivi. Ma quando Junior posizionò una pipa tra le mascelle, i denti si trasformarono in quel suo sorriso familiare».
Il Nobel per la letteratura Wole Soyinka sapeva che le rassicurazioni sulla sorte dell’amico Ken Saro-Wiwa, fornite dal generale golpista Sani Abacha a Nelson Mandela, erano del tutto destituite di credibilità. Avrebbero impiccato un uomo di pace, un intellettuale, dopo un processo sommario, illegale, costruito attorno a un’accusa infondata, di essere cioè responsabile della morte di altri attivisti Ogoni col movente di contrasti interni al movimento. Saro-Wiwa dichiarò Shell persona non grata, pretendeva che dopo la riparazione dei danni, si mettesse al tavolo per dialogare, per una differente politica industriale. Accusava l’esercito di eseguire gli ordini della multinazionale. A partire dal 1980 i ricavi della produzione lasciati dal governo federale per la popolazione locale erano pari all’1.5% del totale.
Il territorio Ogoni erano oltre 400 miglia quadrate di terrazze costiere a nordest del Delta del fiume Niger, con un’altissima densità abitativa, che a inizio Novecento patirono lo stravolgimento dell’invasione colonialista britannica. «Gli Ogoni erano sonnambuli in marcia verso l’estinzione, verso uno sterminio di natura politica, del tutto inconsapevoli dei danni presenti e futuri del colonialismo interno. Avevo accettato la responsabilità di svegliarli dal loro sonno secolare», scrive Saro-Wiwa. È conscio della necessità della costruzione di un’organizzazione di massa, di una fabbrica del dissenso. Gli Ogoni non erano abituati all’attivismo politico. Nel 1990 formarono il Mosop e concepirono la Ogoni Bill for Rights per il controllo e l’utilizzo delle risorse ai fini dello sviluppo indigeno. Il 4 gennaio 1993 avvenne l’impensabile. Trecentomila Ogoni manifestarono senza disordini per il riconoscimento dei propri diritti. Tra aprile e giugno 1993 Saro-Wiwa fu arrestato quattro volte senza diritti di difesa.
Nella plurisecolare cultura Ogoni il carcere non esisteva, si scontavano altre pene, dalla multa economica alla condanna capitale. Nessuno era mai stato incarcerato o punito per reati di opinione. Dunque una novità colonialista: «Una novità che mal si adattò alla nostra psiche. La prigione divenne un luogo da evitare a tutti i costi. Se eri lì dentro vuol dire che eri un reietto della società».
Soyinka ha dedicato un capitolo di Sul fare del giorno (Frassinelli, 707 pagine, 18.50 euro) al compagno con cui condivise un tratto di strada. Citiamo da Requiem per un ecoguerriero:
«(…) Sulle strade di Auckland mi si accostò un’auto su cui erano il giovane Ken, figlio del condannato, alcuni membri di Body Shop e di altre Ong. Ken balzò fuori dalla macchina con una dichiarazione ciclostilata della Shell. Se Ponzio Pilato prima di consegnare Cristo ai suoi aguzzini avesse mai scritto una lettera, sicuramente sarebbe stata simile a quella che mi trovai a leggere. Se fosse accaduto qualcosa di imprevisto ai nove Ogoni – recitava la dichiarazione – i responsabili andavano cercati tra gli agitatori la cui tattica aggressiva non aveva fatto altro che inasprire l’atteggiamento del regime militare vanificando l’attento lavoro di diplomazia silenziosa intrapreso dalla compagnia.
Certo eravamo noi i colpevoli, non la Shell! Non le compagnie petrolifere. Non il regime militare, le aziende sue alleate, le sue corti illegali, ma noi! Gli restituii quel trattato di untuosità aziendale che aveva il solo scopo di affrancarsi da ogni responsabilità. (…) La dichiarazione della Shell poteva anche non essere una condanna formale, ma era un certificato di morte così chiaro che non riuscii più a pensare a Ken come una persona ancora nel mondo dei vivi e persi qualunque desiderio di incontrare politici e uomini di Stato». Dopo l’esecuzione la Nigeria fu espulsa dal Commonwealth.
Ken Saro-Wiwa nutriva una certezza. Un giorno non lontano le compagnie sarebbero state chiamate a rispondere di quella che definiva i crimini di una guerra ecologica e della sporca guerra contro la minoranza etnica Ogoni. Perseguì due linee guida: animare una resistenza popolare appassionata e non violenta; internazionalizzare grazie al proprio cosmopolitismo il dramma di un’etnia che contava non più di 500mila persone. Questa attività di sensibilizzazione incontrò non pochi ostacoli. All’inizio degli anni Novanta, come scrive in Un mese e in un giorno, non ricevette perfino da Greenpeace e Amnesty l’attenzione necessaria. Centrò entrambi gli obiettivi. Il mondo conobbe il rischio di estinzione di una popolazione che dell’agricoltura, della pesca, faceva il proprio sostentamento. Saro-Wiwa rifuggiva la “larva distruttiva del tribalismo”, dunque la sua lotta democratica aveva una visione complessiva dell’incidenza del petrolio sulla costruzione dell’identità nazionale e mirava alla caduta di una brutale dittatura militare.
Nel 1996 Jenny Green, avvocato del Center for Constitutional Rights di New York e rappresentante legale della famiglia, avviò la causa contro la Shell, accusata di corresponsabilità nella tragica fine di un simbolo e nella generale repressione violenta del Movimento per la sopravvivenza del popolo Ogoni. Nel 2009 Shell, professando la propria estraneità ai fatti addebitati, ha versato 15 milioni e mezzo di dollari per evitare un processo mediaticamente ingombrante.
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