martedì 12 luglio 2016

Manook racconta il successo di Yeruldelgger: «Io, cittadino del mondo in noir»

Il Messaggero, sezione Cultura, pag. 23
12 luglio 2016

di Gabriele Santoro



di Gabriele Santoro

Patrick Manoukian, classe 1949, è un figlio dell'emigrazione, della diasporta armena in Francia. Cresciuto a Meudon, sobborgo a sudovest di Parigi, in una famiglia operaia è stato uno scrittore prolifico fin dall'adolescenza, ma non aveva pubblicato nulla fino al 2013, quando la casa editrice Albin Michel ha puntato sul noir dall'ambientazione esotica Yeruldelgger (Fazi, 524 pagine, 16.50 euro, traduzione a cura di Maurizio Ferrara). Il primo volume di una trilogia che ha conquistato i lettori francesi: 150mila copie vendute, insignito di tutti i premi letterari dedicati al giallo ed è in corso di pubblicazione in dieci paesi.

Ian Manook, il nome d'arte, dopo una giovinezza da sessantottino, nel 1987 ha creato un'agenzia di pubblicità specializzata nella comunicazione per il turismo, che dirige col figlio Julien, e le  Éditions de Tournon, a lungo leader del mercato editoriale francese dell'animazione e del fumetto. Yeruldelgger è strettamente legato al rapporto con la figlia Zoe, che prima ha sfidato l'autore a non lasciare finalmente incompiuto un romanzo, e poi nel 2007 l'ha portato in Mongolia per verificare da vicino il lavoro dell'associazione per l'adozione a distanza che finanziavano.

Con la qualità della propria scrittura Manook ci introduce con grande competenza e passione in un universo che poco conosciamo, la Mongolia sospesa tra le tradizioni ancestrali dei nomadi della steppa selvaggia e la modernità violenta della capitale Ulan Bator. Il libro propone di viaggiare dietro lo schermo della violenza per comprendere le contraddizioni di un paese schiacciato da appetiti neocolonialisti. Yeruldelgger, un commissario di polizia mongolo, è il nostro eroe che dalle prime pagine si trova a indagare sul ritrovamento in una fabbrica alla periferia della città dei cadaveri di tre cinesi. E a poche ore da Ulan Bator, nel cuore della steppa, è alle prese col mistero dei resti di una bambina seppellita con il suo triciclo. Le inchieste sembrano del tutto disgiunte, ma sarà così? Yeruldelgger dovrà fronteggiare le minacce e gli ostacoli posti da politici e potenti locali, magnati stranieri in cerca di investimenti e divertimenti illeciti, poliziotti corrotti e delinquenti neonazisti.

Con Ian Manook a Radio 3
Manook, che cosa ha rappresentato la diaspora nella sua vita?
«Esiste un dolore grande: non essere in grado o non avere il permesso di ricordare, l'essere schiacciati sulle contingenze attuali. Gli armeni sono sopravvissuti anche alla negazione della parola genocidio, dunque alla censura della memoria. La cultura della diaspora è speciale e ha costruito il mio sguardo composito sul mondo, il modo in cui ho vissuto, pensato e scritto». 

Dal Bronx alla Mongolia, passando per la Woodstock mancata, ci disegna la mappa così particolare dei suoi viaggi?
«Avevo vent'anni quando viaggiare significava aprirsi al mondo ed essendo un figlio della diaspora, come tutti gli armeni o le persone costrette a fuggire, ho fatto del mondo la mia casa. A sedici anni sono partito per la prima volta destinazione New York, lavorando in un ristorante. Il viaggio che mi ha cambiato risale a quando ho finito i miei studi nel 1973: 27 mesi dall'Islanda all'Amazzonia. A scuola ero sempre il primo della classe, fiero di essere il proletario istruito. Poi ho capito che là fuori c'era un mondo da scoprire».

Perché del suo personaggio,  Yeruldelgger, descrive fisicamente solo le mani?
«L'ho fatto per lasciare al lettore la propria immagine di Yeruldelgger. Mi colpisce la coincidenza delle descrizioni di chi ha letto il libro. Quando parlo di lui mi riferisco alla Mongolia e viceversa. Vuol dire che sembra un personaggio solido, capace di battersi contro tutti, nel contempo nella sua vastità è molto fragile. Yeruldelgger era nella mia penna da vent'anni. All'epoca era un poliziotto americano di Brooklyn, che si chiamava Donelli, dall'esistenza complessa. L'ho ripreso, calandolo nel contesto generale della Mongolia. Subito ho capito una cosa importantissima: la cultura sciamanica della Mongolia dà alle cose importanti di un giallo, la morte, la fedeltà, la vendetta una nozione diversa del nostro modo di pensare occidentale. Questa differenza garantiva ai miei personaggi una asperità maggiore».

La violenza nella fiction letteraria: lei si spinge molto in avanti.
«È un personaggio pienamente inscritto nella modernità. Col suo mestiere si misura con gli aspetti più tribolati e violenti della vita del suo paese, che dopo lo scontro con l'URSS, subisce altre influenze, in particolare cinesi e coreane. Manifesta la volontà di conservare le tradizioni millenarie mongole, legate all'educazione ricevuta in un monastero buddista. In un giallo si deve andare un po' più lontano dell'ultima linea della violenza, oltrepassarla. Il mio personaggio a volte è troppo violento. Il mondo intorno lo spinge alla violenza alla quale lui non vorrebbe cedere. Nello sviluppo della trilogia, a ottobre uscirà in Francia il terzo volume, evolve con esiti inattesi il suo rapporto con la rabbia vendicativa che gli cresceva dentro a ogni delitto».

L'intrigo poliziesco si rivela anche nella complessità delle questioni geopolitiche, ai rapporti della Mongolia con gli interessi economici ingombranti di Russia e Cina con la scoperta di terre rare, ricche di minerali necessari ad alimentare l'industria tecnologica. 
«La Mongolia sembra un paese indistruttibile, eterno, che in realtà potrebbe sparire nei prossimi venti anni, economicamente, politicamente e fisicamente. La Mongolia è come qualcosa che non sarebbe dovuto esistere. Un paese grande due volte e mezzo la Francia con solamente tre milioni di persone, di cui circa il 40% vive in una sola grande città. È una zona sismica terribile. Yeru l'ho scritto come un'incarnazione del suo paese. Spesso abbiamo coscienza dei luoghi come cartoline postali. Quando scrivo il giallo mi piace servirmi della conoscenza approfondita che ho del paese, della quotidianità quanto dei suoi problemi geopolitici. Questo genere letterario, meno soggetto a censure, è un ottimo strumento per occuparsi di sentimenti universali attraverso destini personali».

Qual è il compito della letteratura?
«L'immaginazione è la risorsa migliore del mondo. Serve a varcare le frontiere dell'immaginazione che è un'attivazione della curiosità. Senza di essa non vale la pena vivere. Se vivere è accettare l'idea che gli altri hanno imposto come indiscutibile non vale la pena. La curiosità è il motore di tutto. In quanti vivono senza mai chiedersi l'origine delle parole che pronunciano? Incuriosirsi cambia la vita».

I premi letterari valorizzano un libro?
«Ancora non mi è chiaro. Il riconoscimento ovviamente gratifica, ma non cambiano la vita, soprattutto a 65 anni».

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